NA - Notizie AvventisteFrancesco Zenzale – L’espressione “monte di Meghiddon” (Harmaghedon) indica di per sé il luogo della battaglia. Si tratta di una vallata. Il riferimento a Meghiddo non significa che bisogna collocare l’avvenimento là, nella valle di Jizreel, con il passato storico che evoca: la battaglia di Barac contro Sisera (cfr. Gdc 5:19) o quella di Jeu contro Acazia (cfr. 2Re 9:27). Se Meghiddo è chiamata montagna, har, nonostante essa sia una valle, è per alludere al Carmelo, alla sfida tra Elia e i profeti di Baal (cfr. 2Re 18:20-40). Il monte Carmelo si trova a circa dieci chilometri da Meghiddo.

Il profeta parla di “montagna” di Meghiddo (Harmaghedon) perché ha in mente specificatamente Gerusalemme. Il luogo di battaglia non è, però, la valle di Jizreel, ma, come previsto da Daniele, “il bel monte santo” (Dn 11:45).

Tutti i re della terra, tutti i poteri radunati, hanno lo stesso obiettivo: il controllo di Gerusalemme. Non si tratta, qui, della Gerusalemme dello stato moderno d’Israele. Nel contesto particolare dell’Apocalisse, dove il linguaggio è pregno di simbolismi, la Gerusalemme in questione è d’ordine spirituale. Nel libro di Daniele, la montagna gloriosa di Sion, rappresenta spesso il regno celeste di Dio. Nel capitolo 2, alla fine dei regni umani, votati alla sparizione, il profeta vede il regno di Dio sotto forma di una montagna (vv. 35,44,45). Tuttavia, alla fine del capitolo 11, l’orizzonte di speranza si configura come “il bel monte santo” (11:45).

Occorre ricordare che il tema di Gerusalemme e della montagna di Sion gioca un ruolo predominante nella formulazione biblica della speranza. Per questo, la Sion della speranza è ben alta nei cieli (cfr. Sal 47:2; Is 14:13); è la casa di Dio (Sal 78:68; 132:13), essa possiede tutte le qualità dell’Eden (Ez 47:1,2; Gl 3:18; Zc 13:1; Ap 22:1,2).

Nell’Antico e nel Nuovo Testamento, Gerusalemme è diventato il nome della città celeste. Una tale mentalità non si crea da un giorno all’altro. Per arrivare a questo punto, a questo rigetto deliberato e definitivo del regno che viene dall’alto, è stato necessario, come per il faraone, passare da numerose fasi di ribellione e di indurimento. Il pericolo minaccia tutti; nella misura in cui gli errori non vengono riconosciuti; poco per volta, progressivamente, ci ritroveremo a non attendere più quella speranza che scende dall’alto.

Il profeta cambia improvvisamente di tono. Dal messaggio profetico che annuncia avvenimenti futuri, egli passa alla lezione esistenziale che ci riguarda, qui e ora: “Ecco, io vengo come un ladro; beato chi veglia e custodisce le sue vesti perché non cammini nudo e non si veda la sua vergogna!” (Ap 16:15). Il messaggio risuona come un appello per tutti i borghesi di Babele, i quali hanno preso l’abitudine di confidare nella forza e nel genio del dio che possono vedere. L’avvertimento non s’indirizza solo ai materialisti miscredenti e atei.

Esso si rivolge al cuore della comunità dei “santi”, a coloro che costituiscono l’ultimo anello della testimonianza del vero Dio, alla chiesa degli ultimi tempi. La beatitudine riprende il consiglio particolare dato ai cristiani di Laodicea (3:18).

Per ricevere lo studio completo: assistenza@avventisti.it

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