Siamo arrivati alla puntata numero 100 della serie “Daniele in breve”. Notizie Avventiste desidera ringraziare il past. Francesco Zenzale per la puntualità e la costanza con cui conduce i lettori alla scoperta del libro biblico di Daniele. Le riflessioni continueranno ancora nelle prossime settimane. (La redazione)

Francesco Zenzale – “In quel tempo, io, Daniele, feci cordoglio per tre settimane intere. Non mangiai nessun cibo prelibato; né carne né vino entrarono nella mia bocca e non mi unsi affatto sino alla fine delle tre settimane” (Da 10: 1-2).

Daniele era un uomo molto sensibile e spesso quando avvertiva che l’opera di Dio non andava bene, o che la comunità deportata era in pericolo, non si lamentava, né inveiva contro nessuno, ma assumeva un comportamento che dovrebbe essere abituale per un credente: dispose se stesso all’ascolto di Dio con maggiore intensità.

Il testo biblico ci informa che il profeta aveva l’abitudine di pregare tre volte al giorno (Da 6:10), nel decimo capitolo, come nel nono, scelse di potenziare la sua comunione con il cielo, facendo cordoglio per tre settimane con un semi-digiuno, nonostante i suoi circa novant’anni.

Il motivo di questo intenso dolore, plausibilmente scaturiva dalle difficoltà attinenti alla costruzione del tempio. Il libro di Esdra ci ragguaglia su un aspro conflitto fra i Giudei rimpatriati e i vicini Samaritani sgorgato dal rifiuto dell’offerta di collaborazione fatta da questi ultimi ai capi dei Giudei (cfr. Ed 4:1-3). A seguito del diniego, il testo ci informa che “la gente del paese si mise a scoraggiare il popolo di Giuda, a molestarlo per impedirgli di fabbricare, e a corrompere dei consiglieri perché facessero fallire il suo piano. Questo durò per tutta la vita di Ciro, re di Persia, e fino al regno di Dario, re di Persia” (Ed 4:4-5).

Indubbiamente le vicissitudini dei reduci erano seguiti con viva partecipazione dagli Ebrei che, per diversi motivi, avevano scelto di rimanere nei luoghi d’esilio. Neemia, nel suo testamento, riferisce che “Anani, un mio fratello e alcuni altri uomini arrivarono da Giuda. Io (Neemia) li interrogai riguardo ai Giudei scampati, superstiti della deportazione, e riguardo a Gerusalemme. E quelli mi risposero: ‘I superstiti della deportazione sono là, nella provincia, in gran miseria e nell’umiliazione; le mura di Gerusalemme restano in rovina e le sue porte sono consumate dal fuoco’” (Ne 4:2-3).

È importante rimarcare che anche Neemia, dopo essere stato informato sulla situazione sopra descritta, assume lo stesso comportamento di Daniele: “Quando udii queste parole, mi misi seduto, piansi, e per molti giorni fui in grande tristezza. Digiunai e pregai davanti al Dio del cielo” (v. 4).

Ciò significa che questi uomini erano profondamente legati a Dio, alla sua opera e al popolo (Chiesa). Spesso siamo soliti dire che l’opera è del Signore. Ciò è vero! Ma se questa affermazione preclude la responsabilità personale e comunitaria, acquista una valenza anaffettiva e deresponsabilizzante.

Quando Gesù dichiara che la sequela implica essere sale della terra e luce del mondo (Mt 5:13-16), esplicita la volontà nel lasciarsi coinvolgere affettivamente, spiritualmente e sensatamente. Neemia non solo pianse e fu in grande tristezza, ma prese anche la decisione di partire per Gerusalemme (Ne 2).

A conclusione della parabola del buon samaritano, Gesù pose la seguente domanda: “Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni? Quegli rispose: ‘Colui che gli usò misericordia’. Gesù gli disse: ‘Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa’” (Lu 10:35-37; cfr. 9:60).

 

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