Un angolo di paradiso

Un angolo di paradiso

Nonostante le sofferenze e le ferite, la grande bellezza del creato racconta il progetto d’amore di Dio e ci fa pregustare la gioia del ritorno di Gesù. In quel glorioso giorno ogni cuore spezzato sarà risanato, ogni ambiente deturpato sarà rigenerato.

Jesse Herford – Diversi anni fa, ho avuto l’opportunità di visitare il sud di Te Waipounamu (l’Isola del sud di Aotearoa, il nome della Nuova Zelanda in lingua maori). Sono atterrato a Invercargill e mi sono diretto a nord, pregustando con entusiasmo le famose località turistiche come Queenstown, Milford Sound, Wanaka e altre ancora. Durante il viaggio mi ha colto di sorpresa la sonnacchiosa città di Te Anau, che mi ha affascinato in maniera inaspettata.

Te Anau è un piccolo insediamento di meno di tremila abitanti ed è appollaiato sull’estremità meridionale della Milford Track[1] sul lago Te Anau. Lungo 65 km e alimentato da tre fiordi, gli unici dell’entroterra neozelandese, Te Anau è, per grandezza, il secondo lago della Nuova Zelanda dopo Taupō sulla Te Ika-a-Māui (l’Isola del nord). La caratteristica più sorprendente di Te Anau non è tanto il lago in sé, quanto le montagne che lo circondano: il Monte Lyall, le montagne Murchison, la famosa Kepler Track[2] e altre, Sono alture che salgono precipitosamente dal lago fino al cielo, e possono essere viste dalla riva. Una sera, i miei compagni di viaggio ed io abbiamo fatto una passeggiata lungo le rive del lago, e vedere l’incredibile bellezza di un tramonto a Te Anau. Il sole cala tra le cime delle montagne con fasci di luce che filtrano attraverso la nebbia, mentre le nuvole si riuniscono sopra alle vette. Quello che abbiamo vissuto è stato uno spettacolo di luci brillanti color oro, arancione e viola.

Mentre riflettevo, mi sono chiesto: "Perché sono così colpito da questo posto in particolare? Ci sono sicuramente luoghi anche più belli in Nuova Zelanda, giusto?". La maggior parte delle persone affolla Queenstown durante la stagione turistica, per sciare sulle piste di The Remarkables, o il lago Wānaka, per scattare una foto del famoso Wānaka Willow[3]. Poi c’è la Chiesa del Buon Pastore accanto al lago Tekapo, circondata (in estate) dai famosi lupi viola della zona. Oppure, alle porte di Te Anau stesso, c’è Milford Sound, il gioiello del Parco Nazionale del Fiordland. 

Ma di tutte le bellezze dell’Isola del sud, è stata la grandezza stoica di Te Anau a conquistare il mio cuore. I neozelandesi sono considerati gente sobria. Anche famosi "kiwi" (altro nome per indicare i neozelandesi, ndr) come Burt Munro, motociclista; Richie McCaw, rugbysta ed ex-capitano degli All Blacks; Edmund Hillary, scalatore; o Sam Neill, attore e regista, sono noti sia per i loro risultati eccezionali, ma anche per la loro umiltà. Per me, Te Anau incarna questo sentimento. La sua bellezza semplice e mozzafiato parla da sola. Non ha bisogno di marketing o promozione. È indifferente all’impresa umana, è sicura di sé e non ha bisogno di mostrarsi. La sua gloria maestosa era qui prima che nascessi e rimarrà molto tempo dopo che me ne sarò andato.

Preparazione per il giorno del giudizio 
Un’altra strana scena si svolge non lontano dal lago Te Anau. Sulle colline che circondano Queenstown, secondo quanto riferiscono alcune notizie, è in costruzione una piccola comunità esclusiva. Abbondano le voci di ricchi americani come Peter Thiel e James Cameron che acquistano proprietà remote per costruire dei bunker in vista del giorno del giudizio. Anche se negate dalle autorità locali e dalle imprese di costruzione, queste dicerie persistono. Spinti dal lockdown del Covid-19, quando molti americani benestanti cercavano riparo in luoghi fuori mano come Queenstown, sembra che stia emergendo nei super ricchi una crescente consapevolezza della necessità di avere un posto dove salvarsi se il mondo dovesse andare distrutto.

Nessuna sorpresa, considerando lo stato attuale del nostro pianeta. Come se la pandemia di Covid-19 non fosse abbastanza, dal 2020 abbiamo assistito alla cosiddetta "Grande rassegnazione", a un’orribile guerra in corso sia in Ucraina che in Israele, nel momento in cui scrivo; nonché a una crisi economica con l’aumento del costo della vita che minaccia di far precipitare il mondo nella recessione. Se si chiedesse alla gente comune come pensa che stiano andando le cose oggi, credo che la risposta, nel complesso, non sarebbe positiva. Lo ammetto, anche come credente a volte è difficile rimanere ottimisti in mezzo a tutto questo. Tuttavia, in quanto discepolo di Gesù, vi è un aspetto della mia fede che mi offre una prospettiva.

Antica speranza, aspettativa futura 
Se foste stati ebrei dell’antico Israele, avreste atteso un giorno in particolare con enormi aspettative, il "Giorno del Signore". Influenzati per tutta la vita dalle letture dei rotoli di Isaia e Amos nella sinagoga, e alla luce dell’esperienza quotidiana, avreste atteso ardentemente quel giorno. Avreste desiderato la sconfitta dell’impero che vi opprimeva, la punizione di tutti i tiranni e che le loro vittime fossero vendicate. Avreste desiderato che i sistemi di governo corrotti fossero aboliti e che un nuovo regno, l’eterno regno di Dio, fosse inaugurato.

Nel primo secolo, i primi cristiani accolsero queste speranze, con un’aggiunta importante. Cominciarono a vedere Gesù di Nazaret come la figura centrale di quel giorno imminente. La sua nascita e il suo ministero sono stati precursori del tempo ultimo in cui la pace avrebbe regnato, i malfattori avrebbero ricevuto la loro punizione e il mondo, spezzato e segnato così com’era, sarebbe stato guarito per sempre.

Scrive Giovanni in Apocalisse: "Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: ‘Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate’” (Ap 21:1–4).

Il cielo, adesso 
Ci sono dei momenti nella vita che offrono uno scorcio di quella realtà futura. Quando sperimento la bellezza incredibile come quella che ho visto quella sera a Te Anau, mi viene in mente che il mondo è stato creato per essere così e che un giorno sarà di nuovo pienamente. Tutta la nostra arte e architettura, il denaro, le macchine, la politica, il progresso non riescono a impressionare e stupire quanto la bellezza del mondo creato da Dio. Quando penso al cielo notturno con tutti i suoi miliardi di sistemi stellari, supernove e fenomeni celesti, al confronto tutti i satelliti o le stazioni spaziali che abbiamo costruito sembrano giocattoli per bambini. Quando considero il funzionamento del corpo umano, qualsiasi dispositivo elettronico o stringa di codice sembra, al confronto, un rozzo disegno rupestre.

Assistere alla grande bellezza di Te Anau, dei suoi laghi, delle colline e delle montagne circostanti, e restare nella sua quiete mi ha ricordato che un giorno, presto, tutto in questo mondo sarà ricostituito per diventare come la scena che mi si apriva di fronte. Non una semplice copia carbone, ma dello stesso tipo: incontaminato, intatto, perfetto. Ogni vittima di ingiustizia, tragedia e disastro sarà rivendicata in quel giorno. Ogni cuore spezzato, corpo abusato e mente abbattuta sarà guarito. E ogni albero tagliato, montagna spazzata via e fiume inquinato sarà ricreato nel Giorno del Signore.

Non vedo l’ora che arrivi quel giorno. E quando arriverà, non desidero una villa, un attico o un’isola privata. Tutto quello che voglio è una piccola capanna collocata sulle sponde del lago Te Anau, dove per l’eternità potrò godere della buona terra di Dio, ricreata proprio come doveva essere.

(Jesse Herford è pastore e redattore associato per l’edizione australiana/neozelandese di Signs of the Times. Vive a Sydney, in Australia, con sua moglie Carina e il loro cane Banjo. Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul sito web Signs of the Times Australia/New Zealand ed è ripubblicata con autorizzazione).

Note 
[1] È considerata "la camminata più bella del mondo", 53,5 chilometri di percorso lungo valli scavate dai ghiacciai, attraverso antiche foreste pluviali e oltrepassando cascate impetuose. Info: www.doc.govt.nz/milfordtrack (ndr). 
[2] È un altro itinerario circolare di 60 chilometri lungo le sponde dei laghi Te Anau e Manapouri ricoperte di boschi di faggio, fino alle creste delle montagne circostanti ricoperte di ciuffi d’erba con spettacolari panorami alpini. 
[3] È il soprannome dato a un salice situato all’estremità meridionale del lago Wānaka, che è cresciuto isolato nell’acqua. È una destinazione molto popolare tra i turisti per scattare foto.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

Il dottore del mondo dimenticato

Il dottore del mondo dimenticato

Il dott. Roland Hermann sa cosa vuole fare nella sua vita. Possiamo riassumere così le sue risposte incisive, ma allo stesso tempo rilassate e semplici. Da anni, il dentista quarantacinquenne di Mediaș, in Romania, viaggia in luoghi dimenticati per curare migliaia di pazienti in difficoltà.

Norel Iacob – Roland Hermann non ha paura di pensare e di esprimersi liberamente. Parla apertamente della sua passione per gli sport estremi. Con disinvoltura e semplicità spiega i principi altruistici che lo hanno condotto lungo un percorso insolito nella vita. Roland suona il pianoforte, la chitarra e il flauto dolce, è appassionato di escursionismo, paracadutismo, alpinismo, fotografia e disegno, ma la sua passione è soprattutto quella di aiutare le persone. Nella mia intervista, ho cercato di capire cosa è venuto prima: la sua passione per le persone lo ha portato a sviluppare l’altruismo, oppure la scoperta dell’altruismo lo ha portato a coltivare una passione per le persone?

Alla fine, mi è stato chiaro che la sua visione della vita non è una peculiarità della sua personalità, ma il frutto di una specifica educazione e di scelte personali. Dopotutto, Roland è un uomo che ha preso sul serio la ricerca del significato ultimo della vita. E non è da solo. Le sue azioni sono di squadra; è il rappresentante di un gruppo di persone speciali quanto lui, ma che hanno scelto una visione diversa dell’esistenza.

Norel Iacob: Roland, il mondo ti ha scoperto quando Discovery Channel ti ha incluso nella serie “Contemporary Heroes” nel 2010. Come sei arrivato a comparire in una produzione del genere? 
Roland Hermann: Dal 2005 a oggi sono stato coinvolto nell’organizzazione di diversi progetti medici in cui una piccola equipe composta da un dottore di medicina generale, un dentista e alcuni infermieri si reca in luoghi in cui le persone sono isolate o hanno un accesso minimo alle cure mediche. Questi progetti sanitari sono spedizioni nella giungla amazzonica, nell’Africa rurale e nei villaggi nei pressi del Monte Everest. In una delle spedizioni avevamo con noi una troupe cinematografica il cui regista credeva nella nostra causa, e così siamo entrati in contatto con il variopinto mondo dei media, ovvero Discovery Channel Romania.

N.I.: Le tue azioni mi ricordano il medico missionario David Livingstone o la celebre Florence Nightingale. Ecco perché non esito a definire te, missionario, e viaggi missionari le tue spedizioni. Quando è iniziato il tuo sogno di essere missionario tra i più svantaggiati? 
R.H.: Alcuni valori morali si trasmettono attraverso l’educazione, altri con l’auto-educazione. Dico questo perché da bambino ho conosciuto storie esemplari ma anche storie vere, come quelle di Livingstone e Albert Schweitzer, che scelsero l’Africa. Forse è stato allora che mi sono innamorato della possibilità di esplorare un mondo lontano, dove le persone erano così diverse da me e la natura selvaggia tanto stimolante. Un giorno arrivò il momento in cui dovevo prendere una decisione. Ogni persona a un certo punto deve scegliere cosa fare della propria esistenza. Mentre ancora studiavo odontoiatria, ho deciso di concentrare la mia vita sulla missione medica, con tutto ciò che comporta.

N.I.: Potresti raccontarmi nel modo più concreto e non ideologico, cosa ti motiva a fare quello che fai? 
R.H. : È un processo continuo di maturazione in cui sono intrappolato tra la vocazione e le soddisfazioni che rafforzano questa vocazione. Vedo vite cambiare continuamente, la vita di persone che non conosco, ma anche quella di coloro che prendono parte a queste spedizioni.

N.I.: L’anno scorso la stampa ha parlato molto di te. “Medico missionario”, “dentista viaggiante”, “benefattore”, “eroe contemporaneo” o “guaritore bianco” sono alcuni dei modi in cui sei stato descritto. Come definiresti te stesso e la tua missione? 
R.H.: Innanzitutto penso che queste definizioni siano meritate da tutti i miei colleghi che hanno corso dei rischi con me e, soprattutto, salvato vite umane. Mi descriverei come qualcuno che ha le competenze e la vocazione per andare a curare coloro che sono isolati e non hanno alcuna possibilità di ricevere cure mediche.

N.I.: Quando hai iniziato a viaggiare per fornire assistenza sanitaria gratuita? Quali sono state le prime impressioni e conclusioni? 
R.H.: Il primo viaggio è avvenuto nel 2005 nella Guyana britannica. Con l’aiuto di un traduttore amerindio e di un amico, pilota del Cessna 172, la nostra piccola squadra di tre persone è riuscita a viaggiare attraverso la giungla e visitare quindici villaggi. La prima conclusione è stata che si può fare molto con pochi soldi e che l’aiuto dei nostri compagni di spedizione ha fatto una grande differenza. Poi ho cominciato a sognare l’idea di mettere insieme piccole squadre molto flessibili di giovani medici, dotate di attrezzature portatili, che potessero andare praticamente ovunque per salvare vite umane e fornire assistenza medica. Negli anni successivi ho provato a immaginare altri modelli organizzativi, ma ogni volta sono giunto alla stessa conclusione. C’è un target di persone che le grandi organizzazioni umanitarie non riescono a raggiungere, e c’è molto che si può fare per loro con risorse finanziarie limitate.

N.I.: Quanti mesi della tua vita hai trascorso effettivamente in questi viaggi? Quanti Paesi hai visitato e come li hai scelti? Quante persone ritieni di aver curato gratuitamente? 
R.H.: Faccio un breve elenco:
– 2005, Guyana britannica, 40 giorni, con 3 volontari. 
– 2006, Guyana britannica, 40 giorni, con 9 volontari. 
– 2007, Ciad, 30 giorni, con 6 volontari. 
– 2008, Ruanda, 60 giorni, sono andato da solo. 
– 2008, Nepal, 28 giorni, con 6 volontari medici più una troupe cinematografica. 
– 2009, Amazzonia (Brasile), 30 giorni, con 6 volontari. 
– 2010, Bolivia, 30 giorni, con 2 volontari più un’équipe medica boliviana. 
– 2011, Nepal, 29 giorni, con 9 volontari, di cui una persona ultracinquantenne e una ultrasettantenne.

I Paesi sono stati scelti per includere la popolazione target, in modo da lavorare con partner che potessero monitorare e occuparsi della salute della popolazione locale dopo la nostra partenza. Abbiamo cercato di coprire quante più aree e culture possibili, per dimostrare che un medico o un infermiere romeno può venire in questi luoghi e svolgere il proprio lavoro, a patto che sappia adattarsi. Almeno 500 persone hanno ricevuto cure o visite mediche gratuite in ciascuna delle spedizioni.

N.I.: Come funziona un viaggio di missione come questo? Con chi vai? Di quale attrezzatura non puoi fare a meno? 
R.H.: Solitamente nei nostri viaggi, salvo poche eccezioni, siamo equipaggiati con tutto il necessario per svolgere il nostro lavoro. Ogni medico sceglie le attrezzature e i medicinali giusti in base alla propria specialità e alle esigenze locali. All’inizio sognavamo alcune apparecchiature portatili, come per l’elettrocardiogramma e gli ultrasuoni, ma la tecnologia e i fondi ci hanno permesso di averle solo di recente. 
Abbiamo sempre con noi il kit di emergenza e di traumatologia preparato dai nostri colleghi dello Smurd (Servizio mobile di rianimazione ed emergenza romeno). Inoltre, portiamo sempre un kit odontoiatrico che comprende, oltre a pinze e anestetici, strumenti alimentati da un pannello solare flessibile che fungeva anche da fonte di energia per il telefono satellitare, le macchine fotografiche e i videoregistratori.
Ci auguriamo che in futuro potremo accedere a Internet via satellite, il che ci permetterà di studiare soluzioni di telemedicina che potrebbero portare l’efficienza del team a un livello ancora più elevato. Le équipe erano composte da medici di diverse specialità, dagli ortopedici agli pneumologi e ai medici generici, e po infermieri generali e infermieri Smurd o specializzati in chirurgia maxillo-facciale, volontari provenienti da Romania, Germania, Portogallo e Svizzera, per lo più professionisti e talvolta studenti di medicina.

N.I.: Qual è stata finora la missione più difficile e per quale motivo? 
R.H.: Questa è una domanda a cui ciascuno dei miei colleghi risponderebbe a modo suo, ma se guardo al lavoro di ciascun team, direi che i casi più eclatanti e, soprattutto, il carico di lavoro più vario sono stati quelli in Ciad nel 2007. In quel periodo lavoravamo sia nell’ospedale rurale di Bere sia nei campi profughi nel sud del Paese, vicino al confine con la Repubblica Centrafricana. In Ciad, la vita umana può sembrare usa e getta, nel senso che può essere persa troppo facilmente. In termini di carico di lavoro e condizioni in cui operavamo, quella rimane la missione più difficile finora.

N.I.: Quali sono i costi e chi finanzia i vostri viaggi? 
R.H.: I costi rientrano in due categorie: logistici (trasporti, vitto e alloggio) e tecnici (attrezzature, medicinali e materiale sanitario). Per quanto riguarda la prima categoria, il viaggio da solo può costare tra i 1.500 e i 2.000 euro a persona. Il totale per la seconda categoria può variare da 500 a diverse migliaia di euro, a seconda delle attrezzature e delle forniture. Queste spedizioni sono state finanziate individualmente da ciascun partecipante, che ha pagato i propri voli, i visti, le vaccinazioni e così via. Ciascuno ha cercato di portare, procurarsi o acquistare quanto necessario affinché la spedizione si svolgesse senza intoppi.

N.I.: In questo tuo elenco non ci sono finanziamenti di sponsor. È perché non vuoi sponsorizzazioni oppure non hai avuto successo con le richieste di sostegno? 
R.H.: Sono un libero professionista, o almeno voglio esserlo, e ogni medico dovrebbe esserlo, almeno quando si tratta di spedizioni mediche umanitarie. Le sponsorizzazioni sono benvenute, ma i potenziali sponsor devono ancora abituarsi alla mentalità di sostenere i medici liberi professionisti. In generale, per qualche motivo che non capisco, le persone preferiscono fidarsi delle grandi organizzazioni. I medici freelance cercano di ottenere risorse in modo da rimanere liberi e le loro decisioni relative ai pazienti sono guidate dai problemi del paziente, non dagli obblighi verso lo sponsor. Inoltre, selezionano i pazienti in base ai loro bisogni e alla loro capacità di soddisfarli, non secondo piani elaborati in qualche ufficio dirigenziale o da un lontano consiglio religioso. Di tanto in tanto, brave persone ci hanno sostenuto finanziariamente e ci hanno dato fiducia senza imporre come spendere i soldi. Ma il peso finanziario è stato portato avanti dai componenti dell’équipe.

N.I.: Quale tipo di cose che considereremmo “esotiche” dovevi fare lì? 
R.H.: Beh, per me le cose più esotiche erano bere l’acqua dai rampicanti nella giungla, spingere la barca attraverso le rapide sapendo che c’erano gli anaconda nell’acqua, rinfrescarsi in Amazzonia con i delfini d’acqua dolce che sbuffavano a pochi metri da me, sorvolare con un parapendio a motore la savana africana o migliaia di ettari di foresta pluviale, addormentarsi al suono dei tamburi, farsi svegliare dalle scimmie urlatrici, godersi la nebbia che sale all’alba mentre la brezza increspa il cielo, la zanzariera sull’amaca nella giungla, dover utilizzare una canoa o un quad per raggiungere il successivo villaggio indiano, dormire in una capanna dove “risiedono” pipistrelli vampiri o tarantole, e molto altro ancora.

N.I.: Cosa speri di ottenere con queste missioni? Non sono solo una goccia in un oceano di bisogni? 
R.H.: Questo oceano di bisogni è una realtà al di là del nostro potere di giudicare il motivo per cui esiste. Demograficamente siamo un oceano. Per un po’ ho avuto la tentazione di giudicare il mondo in base al denaro, di indignarmi per il fatto che negli uffici delle grandi organizzazioni si spreca così tanto, quando la mia équipe potrebbe curare centinaia di persone con una piccola percentuale dello stesso denaro. A poco a poco mi sono reso conto che le grandi organizzazioni sono necessarie proprio perché abbiamo a che fare con un oceano, non con dei pesci. Dopotutto, potrei essere accusato della stessa cosa. Naturalmente, fornire assistenza sanitaria gratuita non rovina nulla dal punto di vista culturale, economico o politico, ma mi chiedo perché non si faccia almeno altrettanto per formare gli operatori sanitari locali nei Paesi in cui ce n’è così disperato bisogno.

Mi chiedo anche perché il prodotto della società siano le grandi organizzazioni e non un numero equilibrato di medici liberi professionisti come Albert Schweitzer e altri. Vorrei che potessimo svegliare le persone inattive che non sono coinvolte nelle grandi organizzazioni, né nei progetti locali, e che non sostengono nessuno, per dimostrare che ci sono ancora gruppi di persone di cui nessuno si preoccupa, che c’è anche questo metodo, troppo poco vissuto, di essere un libero professionista umanitario, un libero professionista medico.

A volte è difficile sul campo quando sei sopraffatto dai problemi. È allora che entra in gioco una parola molto dura: triage. È il momento in cui devi avere la forza e la saggezza per gestire le vittime: identificare i pazienti prioritari senza provocare disordini, e allo stesso tempo tenere conto di cosa puoi fare per loro con i farmaci e le attrezzature minime che hai a disposizione. È difficile perché a volte vedi la disperazione nei loro occhi. È ancora più difficile perché a volte ci sono tanti bambini e devi mantenere la calma mentre il tuo cuore si spezza e non puoi credere in quali terribili condizioni un essere umano può finire a vivere…

N.I.: Pensi di andare avanti così per il resto della tua vita? Hai qualche progetto per proseguire a un altro livello? 
R.H.: Sì, vorrei poter trovare un modo per svolgere queste missioni a lungo. Se mai avrò l’opportunità di assicurarmi un reddito che mi permetta di trascorrere un minimo di tempo nella “civiltà” e un massimo di tempo alla “fine del mondo”, non esiterò. Ho intenzione di dedicarmi a un programma/progetto di aviazione medica in cui potrò fornire servizi medici gratuiti, spedizioni mediche aeree, trasporto di medici e volontari in aree remote con popolazioni isolate.

Molto probabilmente avvierò un progetto del genere in Ciad. Vorrei anche sviluppare un sistema di franchising medico-umanitario che fornisca un modello di lavoro per una squadra di 3 o 4 medici. Attraverso questo sistema vorrei che un’équipe che decide di fare volontariato per un mese o più, possa ricevere un equipaggiamento ultramobile che comprende: kit per analisi di laboratorio, strumenti chirurgici, kit traumi ed emergenze, kit dentale, kit per la diagnostica per immagini e un kit per la telemedicina.

N.I.: Alcune persone che, su Discovery Channel, hanno sentito della tua passione per gli sport estremi potrebbero considerare te e i tuoi compagni di squadra persone avventurose, desiderose di adrenalina, sport estremi, pericolo ed emozioni. Come puoi far comprendere le vere ragioni per cui partecipi a questi viaggi di missione? 
R.H.: Non nego la propensione a correre rischi calcolati, né la vera gioia di vedermi in aria o di tuffarmi nel vuoto, né che l’avventura sia un aspetto gradito, per cui posso a ragione considerarmi avventuroso, con due distinguo: 1) rischio sempre e solo la mia vita per raggiungere le persone e quando sono “a terra” scelgo la strada più sicura (un medico ferito è un medico inutile); 2) dopo l’avventura, gli unici trofei sono le liste dei nostri pazienti che sono stati aiutati. Più di una volta, gli sport estremi ci hanno aiutato a compiere le nostre missioni.

N.I.: Hai imparato qualcosa in più sulla felicità durante questi viaggi? Oppure la tua decisione di continuare significa rinunciare alla felicità per sacrificarti a beneficio di chi ha bisogno? 
R.H.: La felicità è un argomento filosofico troppo complesso. Se non pianifichi la tua vita, altri la pianificheranno per te. Ho scoperto che la felicità mi può capitare in diversi posti del mondo, mentre riesco a vivere valori che nessuno può togliermi. Sì, rinuncio a certi piaceri o li rimando, ma non sento di fare uno sforzo diverso da chi compie sacrifici per raggiungere obiettivi in una potenziale carriera o per realizzare ambizioni personali. Infatti, sarei infelice se non seguissi la mia vocazione.

(Norel Iacob è direttore di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

Dalla depressione a una nuova vita

Dalla depressione a una nuova vita

Kevin Breel è un ragazzo canadese che ha attraversato un lungo periodo buio durante l’adolescenza. Era incastrato in un ruolo di facciata. Nulla sembrava avere più senso. Un giorno qualcosa è cambiato: ha trovato la forza di chiedere aiuto.

Andreea Irimia – Una forza invisibile, in agguato, che grava pesantemente dentro, convincendoti in modo graduale che la vita non vale molto, è meglio lasciarla andare. Dalle profondità della depressione, il viaggio di ritorno è incredibilmente difficile ma non impossibile. Kevin Breel è una di quelle persone che possono testimoniarlo.

Aveva poco più di cinque anni quando si rese conto che la sua famiglia non era poi così normale come avrebbe dovuto essere. Kevin non aveva mai assistito ad alcun gesto di affetto tra sua madre e suo padre, a differenza di quello che vedeva nelle case dei suoi amici. I suoi genitori dormivano in stanze separate e quella di suo padre era piena di bottiglie di birra e posacenere. Sua sorella maggiore tornava a casa di rado; trovava sempre qualcos’altro da fare con gli amici o con il suo ragazzo.

La loro casa era carina e in un bel quartiere della città canadese di Victoria, ma nulla di più traspariva all’esterno dalle grandi finestre. Kevin avrebbe voluto che qualcuno potesse vedere quanto si sentisse solo. Trascorreva ore nella sua camera, sognando a occhi aperti situazioni in cui si sentiva felice. Gli sembrava di essere diverso e fuori posto, e la sua personalità introversa, a scuola lo rese bersaglio delle battute dei bambini. Le cose iniziarono a cambiare quando fece amicizia con Jordan, suo compagno di classe. Con Jordan poteva parlare; non si sentiva più solo e la famiglia del suo amichetto divenne la sua seconda casa.

All’età di 12 anni Jordan morì in un incidente d’auto insieme a sua madre. Con la scomparsa del suo amico, quella nuova felicità svanì insieme al rapporto con la famiglia di Jordan e la figura di suo padre. Cominciò a sentirsi di nuovo solo e invisibile, così saltava la scuola e sprofondò nella tristezza. Non poteva andare in classe dove tutti sapevano della sua perdita; perciò, si iscrisse in un altro istituto dove non conosceva nessuno.

Allora più che mai, l’idea che qualcuno del nuovo liceo potesse percepire quanto stesse soffrendo lo portò a cercare un altro modo per nascondere meglio la sua depressione. Kevin divenne uno degli studenti più popolari grazie alla sua intelligenza, al suo umorismo e al suo talento atletico. In poco tempo fu nominato capitano della squadra di basket ed era considerato un ragazzo che aveva sempre la battuta pronta. Da fuori sembrava l’adolescente più soddisfatto e felice. Solo lui sapeva quanto tutto ciò fosse lontano dalla verità. "Mi odiavo e il modo che avevo trovato per nasconderlo sembrava una radicale accettazione di me stesso".[1]

I momenti di depressione, anche se non costanti, tornarono a ondate rendendo angosciante la sua esistenza. Durante il giorno riusciva a controllare i pensieri suicidi, di notte invece lo colpivano con tutta la loro forza. Non solo. Anche il senso di colpa aveva messo il suo carico. “Mi sono sempre sentito colpevole per quei sentimenti depressivi. Soprattutto perché capivo di non avere una valida ragione per sentirmi in quel modo".

Cercò di sfuggire agli episodi depressivi ma nulla funzionò. Leggeva libri che promettevano la guarigione, cambiò anche le sue abitudini alimentari e teneva un diario per provare a liberarsi da quei pensieri ed emozioni. "Come un pesce tirato fuori dall’acqua, annaspavo in tutte le direzioni, cercando di mettermi al sicuro ed esaurendomi allo stesso tempo" racconta Kevin.

A 17 anni, durante la vigilia di Natale, decise di aspettare un altro anno, un periodo di tempo in cui sperava di superare la depressione. L’alternativa era il suicidio ma non gli ci volle molto per considerare seriamente quell’opzione. Era metà febbraio e si trovava a una festa dove tutti sembravano divertirsi. Guardandosi intorno era sopraffatto dalla sensazione che non avrebbe mai potuto essere come loro e che tutta la sua vita di facciata era insopportabile. Tornò a casa, prese una bottiglia di vodka e una confezione di potenti antinfiammatori, risoluto a porre fine alla sua vita.

Paradossalmente, la salvezza arrivò dal biglietto di addio. Quando iniziò a scriverlo, tutte le ragioni che lo portavano a quel gesto non sembravano così forti. In un modo che non aveva mai realizzato, con un’obiettività che la depressione aveva messo in ombra, capì che tutte le sue difficoltà non erano insormontabili, c’era un’alterativa che non aveva provato: chiedere aiuto.

Confessò tutto a sua madre che lo sostenne e lo portò da uno psicologo. I problemi non si risolsero immediatamente, ma imparò a essere paziente e a non nascondere la sua depressione. Oggi, Kevin non ne parla come qualcosa di cui avere vergogna né nega il suo passato perché, racconta, "il passato è sempre in agguato, in attesa; sperimenta modi per scavare la sua strada nella nostra vita. Anche se riesci a prenderne le distanze, non puoi mai negare le esperienze del passato. Forse la verità è che non c’è fuga, solo accettazione”.

In occasione di una conferenza Ted, Kevin ha condiviso la sua storia. Aveva la speranza di far capire alle persone presenti (circa 80 partecipanti) che lo stigma attribuito alla depressione dalla società fa sì che la maggior parte di chi ne soffre non cerca aiuto. Il suo discorso è stato seguito su YouTube da centinaia di migliaia di persone e ripreso dai principali giornali online. Kevin approfitta della popolarità che ha guadagnato per sensibilizzare sulla necessità di parlare della depressione come di qualsiasi altra patologia, senza vergogna o paura; un modo per sostenere quanti si trovavano nella stessa situazione che lui viveva cinque anni fa. Kevin esprime la sua gratitudine verso la depressione: gli ha insegnato a vivere davvero. “So cosa significa voler morire. E ora posso dire onestamente che so cosa significa voler vivere”.

Note  
[1] K. Breel, Boy meets depression (Il ragazzo incontra la depressione), Google Books.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ridefinire l’impossibile

Ridefinire l’impossibile

La straordinaria storia di Rick Hoyt, un ragazzo tetraplegico diventato maratoneta correndo con il suo papà. Una testimonianza di fiducia, entusiasmo e amore per la vita, d’ispirazione per tanti.

Andreea Irimia – L’insieme di emozioni che una famiglia vive quando aspetta un bambino è allo stesso tempo meraviglioso e spaventoso. Appena tutto sembra essere a posto, l’immaginazione inizia a ipotizzare le prime parole, i primi passi e tutti i momenti straordinari che seguiranno. Per Dick e Judy Hoyt, quei sogni sono stati rimpiazzati dalla tragedia. Hanno imparato, però, a trasformare la tragedia in amore, e la loro vita è diventata d’ispirazione per milioni di persone.

Prima che Rick Hoyt nascesse il 10 gennaio 1962, nulla avrebbe potuto preannunciare quello che sarebbe successo. La gravidanza di Judy era stata normale ma alla nascita il cordone ombelicale si era stretto intorno al collo del bambino, lasciando il cervello senza ossigeno. In seguito a questo evento, Rick nacque con una paralisi cerebrale. Per i medici era un "vegetale", incapace di muoversi o pensare; raccomandarono ai suoi genitori di lasciarlo alle cure degli assistenti sociali. Invece, la mamma e il papà portarono Rick a casa perché era loro, era parte della famiglia.

Dopo Rick, i coniugi Hoyt hanno avuto altri due maschietti. Durante la crescita, i suoi genitori notarono che Rick seguiva le loro conversazioni e rideva persino delle loro battute. I medici si erano sbagliati nel dire che non c’era alcun impulso nel suo cervello. Così, sua madre iniziò a insegnargli l’alfabeto. Dopo cercarono un modo per comunicare e gli fecero usare un computer che gli permettesse di parlare attraverso uno speciale software. Le sue prime parole fecero ridere tutti: “Forza Bruins!” (Boston Bruins era la sua squadra di hockey preferita). 
Ma Judy non si fermò qui. Lottò con le autorità del Massachusetts per assicurare ai bambini disabili il diritto all’istruzione. Grazie a lei, venne approvata una legge che permise a Rick di andare a scuola e contare su lezioni adeguate alle sue esigenze. Da allora poté frequentare i corsi come qualsiasi altro bambino normodotato.

Nella loro famiglia ogni attività doveva coinvolgere anche Rick. Una delle regole della casa era questa: nulla è impossibile. Escogitarono modi per sciare, giocare a hockey e nuotare insieme; viaggiarono attraverso gli Stati Uniti e visitarono innumerevoli posti. Rick andò al ballo del liceo e si esibì in una danza su sedia a rotelle con una compagna di classe.

Tuttavia, la sua vita cambiò quando sentì parlare di una gara per raccogliere fondi per un giocatore di lacrosse (sport nordamericano, ndr) paralizzato. Desideroso di offrire il suo aiuto, chiese a suo padre di spingere la sedia a rotelle di corsa per partecipare alla gara. Papà Dick racconta che riusciva a malapena a camminare da solo, figuriamoci a spingere Rick sulla sua sedia a rotelle. Ma aveva accettato la sfida ed era riuscito quasi a completare la corsa di due chilometri. Alla fine della giornata, Rick aveva scritto a suo padre sul computer quanto si sentisse felice quando correva. Si sentiva libero, non immobilizzato.

Avevano trascorso così tanti anni a cercare un modo per far sentire Rick come tutti gli altri e l’avevano trovato! Suo padre iniziò ad allenarsi costantemente. Quando Rick era a scuola, Dick posizionava dei sacchi di cemento equivalenti al peso di Rick sulla speciale sedia a rotelle.

Nel 1979 erano pronti per la loro prima corsa ma non li autorizzarono a partecipare alla maratona di Boston. Continuarono comunque a correre al fianco dei partecipanti ufficiali. Alla fine, nel 1983, fu loro concesso di correre e segnarono un tempo sufficiente per qualificarsi alla maratona di Boston che gli era stata negata quattro anni prima.

Dopo pochi anni, gli organizzatori della maratona, colpiti dalla storia del team Hoyt, accettarono la loro iscrizione. Ma come sempre, gli Hoyt non avevano l’abitudine di riposare sugli allori. Rick e Dick iniziarono a correre ultramaratone e a partecipare a gare di triathlon costruendo una bicicletta e un’imbarcazione speciali.

Tra una competizione e l’altra, Rick era uno studente modello alla Boston University. I suoi genitori sostengono, con orgoglio, che la decisione di frequentare l’ateneo era stata totalmente del figlio. Desideravano per lui un college più vicino a casa, ma Rick aveva scelto la Boston University. Le sfide che affrontò furono impegnative. Aveva bisogno che lo Stato mettesse a disposizione degli assistenti sociali per aiutarlo nel campus e in classe, e non fu facile. Ancora una volta sua madre fece causa e dimostrò che l’onere finanziario a carico dello Stato era molto meno gravoso rispetto a quello che avrebbe dovuto sostenere se Rick fosse stato in un istituto per disabili. Di nuovo Judy vide riconosciuto il diritto di Rick di usufruire del sistema scolastico.

Nel 1993, all’età di 31 anni, Rick è stato il primo tetraplegico senza la capacità di parlare a laurearsi. Aveva ideato metodi di educazione speciale per aiutare le persone come lui. Si era trasferito poi in un appartamento, con l’aiuto dei suoi genitori e delle autorità.

Non solo. Rick non ha mai smesso di correre; era il suo modo per sentirsi libero. E suo padre lo ha sostenuto in ogni fase del percorso. Per Dick, è Rick a correre per davvero. “Rick mi fa andare avanti. Mi motiva e mi ispira” racconta il papà “Gli presto le mie braccia e le mie gambe in modo che possa gareggiare. Qualcosa di inspiegabile nasce in me e sono in grado di correre più velocemente. È una sensazione incredibile”.

Nell’aprile del 2014, anno del loro ritiro dalle competizioni, il team Hoyt aveva partecipato a 1.108 eventi sportivi, tra cui 255 triathlon e 72 maratone. Corsero la loro ultima maratona di Boston quando Dick aveva 74 anni.

In occasione di una celebrazione speciale, alla coppia di atleti è stata dedicata una statua: un modo per celebrare l’ispirazione che Rick e Dick donano a milioni di persone, a riprova che nulla è impossibile.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non c’è limite al dolore e alla sofferenza

Non c’è limite al dolore e alla sofferenza

La storia umana, l’annuncio evangelico e l’indifferenza. Il presidente Cretu commenta, in chiave pastorale, l’anno che volge al termine, su radio Rvs.

Notizie Avventiste – “Sicuramente quest’anno ci ha insegnato che purtroppo non c’è limite al dolore e alla sofferenza, perché quello che sta accadendo in Europa, in Palestina e così via, potremmo continuare con l’elenco, non fa altro che riportare la nostra attenzione su quanto l’uomo può far del male”. Esordisce con queste parole Andrei Cretu, presidente dell’Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del Settimo Giorno, nel suo intervento ai microfoni di radio Rvs-Accendi la Speranza.

Volge al termine un anno complicato, sia per le due guerre dentro e vicino all’Europa, sia per la questione climatica (il 2023 sarà ricordato come l’anno più caldo da quando esistono le misurazioni), sia per altre criticità come la povertà e le migrazioni. A queste situazioni difficili Cretu aggiunge altro e rivolge il suo sguardo pastorale ai più giovani, alla Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2011) che “sono quelli che hanno sofferto di più le limitazioni imposte dal Covid, e molti di loro ne sono usciti più fragili e diffidenti nei confronti della società”; e alla Generazione Alfa (i nati dal 2012 a oggi)… definita “come probabilmente una delle generazioni più infelici che ci siano mai state”.

In Dio la soluzione
Da pastore, dice Cretu, di fronte a tutto questo, “non posso non pensare a colui che la Bibbia descrive come un Padre amorevole, un Padre che è presente, che soffre insieme ai suoi figli e per i quali ha preparato una soluzione diversa da tutto quello che noi potremmo fare. Nonostante non dobbiamo abbandonare la lotta per raggiungere obiettivi ben determinati, sia per quanto riguarda la situazione ambientale, sia per quanto riguarda i conflitti, non dimentichiamo che la soluzione finale che la Bibbia presenta è l’intervento di Dio, un Dio che ama i suoi figli e che desidera per loro il meglio".

“Ed è in un simile contesto” prosegue “che abbiamo anche la capacità di rinunciare a certi aspetti del nostro orgoglio, delle nostre motivazioni, lasciando che sia Dio a intervenire nella nostra vita, e mettendoci al servizio del prossimo, per dimostrare quello che può fare un amore disinteressato nei confronti degli altri. È una soluzione che oggi deve essere applicata e credo che, come chiesa, abbiamo anche la responsabilità di comunicare questo e insegnare a farlo”.

Vegliare e agire per il bene
Nella nostra società dilaga l’indifferenza, che di recente il Censis ha definito “sonnambulismo”, vale a dire il pensare solo al proprio interesse. Questo è in netto contrasto con l’insegnamento di Gesù che dice di vegliare, di stare svegli. Un messaggio rivolto alla chiesa. 
“Gesù stesso era consapevole di questo rischio che la comunità di credenti può vivere, e cioè di addormentarsi e quindi non credo che dobbiamo parlare di altri, ma dobbiamo parlare di noi stessi” sottolinea Cretu.

E vegliare significa anche occuparsi del prossimo, come invita Gesù.. 
“Le parole oggi non bastano più” spiega il presidente “soltanto nel mettersi al servizio di coloro che sono intorno a noi possiamo in qualche modo trasmettere quello che è il messaggio essenziale del vangelo. Le persone sono stanche e possono anche essere indifferenti nell’ascoltare semplicemente delle parole che non sono seguite da un atteggiamento coerente”. La chiesa deve essere “un luogo primario dove vengono affrontati quelli che sono i problemi esistenziali costanti nella società, dove si parla dei valori in una prospettiva positiva, dove si offre un messaggio di speranza attraverso gesti concreti di amore”.

Clicca qui per ascoltare l’intera intervista di Rvs.

 

 

 

 

 

 

Oltre quello che gli occhi possono vedere

Oltre quello che gli occhi possono vedere

La testimonianza di Ben Underwood che da bambino ha perso la vista a causa del cancro. Con uno straordinario spirito di forza e adattamento, ha saputo osservare e percepire il mondo con gli occhi della mente e del cuore.

Andreea Irimia – Ci sono momenti nei quali sentiamo che la vita è dura e che alcune sfide vanno oltre le nostre possibilità. Quando ci guardiamo intorno e vediamo persone come Ben Underwood, ci rendiamo conto che non solo non siamo consapevoli dei doni che ci sono stati offerti, ma anche dell’immenso potere di godere della vita anche quando questi doni ci sono negati.

Ben Underwood è nato in un giorno d’inverno del 1992 nella soleggiata California. Fino all’età di due anni la sua infanzia è stata comune, segnata dalla personalità energica e allegra di sua madre Aquanetta. Una sera però Aquanetta ha notato una macchia bianca nell’occhio destro di Ben, simile a una piccola perla. Nel giro di pochi giorni la macchia era cresciuta, quindi ha portato il bambino da un oculista con una certa preoccupazione. I test rivelarono un cancro agli occhi chiamato retinoblastoma, una patologia che di solito colpisce i bambini di età inferiore ai due anni. La notizia è stata devastante per Aquanetta, il cui padre era morto di cancro.

I medici lottarono per un anno per rimuovere il tumore maligno con la chemioterapia e la radioterapia ma i risultati furono insoddisfacenti e lasciarono alla madre una soluzione estrema: rimuovere i bulbi oculari per evitare che il cancro si diffondesse al nervo ottico e poi al cervello. A soli tre anni, il piccolo Ben fu accolto nella sala di rianimazione post-operatoria da sua mamma che cercava di nascondere le lacrime e di distrarlo dalla paura di non rivederla mai più. Gli mise le mani sul viso, gliele fece annusare e disse: “Ben, puoi ancora vedermi, piccolo. Puoi guardarmi con le mani: puoi toccarmi. Puoi ancora vedermi, Ben, con il naso: puoi annusarmi. E anche con le orecchie. Ben, puoi guardarmi con le orecchie. Puoi sentirmi”. In quel momento, si ripromise di aiutare il bambino a non pensare mai a sé come limitato dalla sua disabilità.

Subito dopo aver lasciato l’ospedale, Ben sarebbe sempre stato con i suoi fratelli Derius e Isaiah, toccando tutto ciò che gli capitava e riconoscendo gli oggetti con il loro aiuto. Dal momento che sua madre gli diceva sempre che era un bambino normale, Ben partecipava a tutte le attività con i suoi fratelli e i compagni di classe. Era al campeggio e aveva solo sette anni quando sperimentò una modalità inedita di muoversi.

In una maniera che nessuno può spiegare, Ben ha imparato da solo a usare l’ecolocalizzazione per identificare gli oggetti intorno a sé. Con uno schiocco della lingua, emetteva suoni che, di rimando, si trasformavano in immagini rappresentative dell’ambiente circostante. L’ecolocalizzazione è utilizzata soprattutto da alcuni mammiferi e, teoricamente, è possibile negli esseri umani ma solo pochi sono in grado di padroneggiarla. Ben si è dimostrato il più capace. Quando i medici hanno esaminato l’area del cervello attivata dall’ecolocalizzazione, hanno scoperto che l’area visiva decodificava le informazioni. Ben è stato quindi in grado di guardare di nuovo, letteralmente. Per sua madre, l’ecolocalizzazione è stata la risposta alla sua preghiera di vedere Ben felice e indipendente.

Senza mai usare il bastone per i non vedenti, Ben ha imparato a camminare, andare in bicicletta, sui rollerblade e sullo skateboard, a giocare a basket e a calcio, e ad arrampicarsi sugli alberi senza grosse difficoltà. "Il bambino più felice del mondo", come lo chiamava sua mamma quando era piccolo, non aveva perso nulla della sua curiosità, energia e buon umore. In effetti, sono state tante le volte in cui la gente non gli ha creduto quando diceva di essere cieco.

La sua straordinaria abilità lo ha reso popolare e Ben è apparso in celebri spettacoli come quelli di Oprah Winfrey e Ellen DeGeneres. Il suo messaggio è semplice ed è orientato ad aiutare e a dare una prospettiva diversa sulle possibilità illimitate delle persone con disabilità. Per sostenere gli altri in modo pratico, Ben ha preso parte a vari test organizzati da ricercatori che volevano scoprire il più possibile sulle sue capacità e sui modi in cui potevano essere acquisite.

Appassionato di videogiochi e di cultura giapponese, Ben ha iniziato a studiare in un’università in Giappone quando è ricomparso lo stesso cancro che gli aveva strappato la vista. Tra una seduta di chemioterapia e l’altra, ha continuato a partecipare a degli eventi per ispirare il prossimo. Secondo sua madre, Ben non è mai stato arrabbiato né infelice sino alla fine. Durante il suo ultimo viaggio di ritorno dall’ospedale, in auto canticchiava una canzone mentre sua madre piangeva accanto. Le ha promesso che si sarebbero rivisti, ed entrambi ci credevano con tutto il cuore.

Aquanetta racconta che una delle eredità che Ben ci ha consegnato è la capacità di vedere sempre le cose da dentro. Era in grado di percepire i sentimenti di una persona meglio di coloro che le erano attorno, perché le prestava attenzione. Quando sentiva che qualcuno non era contento del proprio aspetto, Ben diceva sempre: "Ecco cosa c’è di sbagliato nelle persone vedenti: vi guardate l’un l’altro e giudicate la vostra esteriorità”. Da questa prospettiva, il mondo sarebbe sicuramente un posto migliore se non potessimo vedere.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

Pantofole straordinarie

Pantofole straordinarie

A volte basta poco per cambiare prospettiva e affrontare le difficoltà con uno sguardo nuovo. La storia del piccolo Braden e del dono sorprendente ricevuto dalla sua mamma.

Braden Blyde – Sono stato un bambino cagionevole. Se non avessi preso un banale raffreddore, sarebbe stato qualcosa di più esotico, come la pertosse o la bronchite. 
A questo si aggiungeva una lotta costante contro l’asma. Per molti anni il mio compagno più fedele è stato un inalatore di Ventolin: era diventato naturale usarlo al primo segno di attacco.

Mi ero abituato a stare sdraiato sul divano mentre gli amici lavoravano in classe e come ogni bambino mi piaceva (ho addirittura finto almeno una o due volte). Ben presto, però, mi sono stancato di quei cartoni animati infiniti e senza senso, e il mio tempo libero si è trasformato nella tana più solitaria che si potesse immaginare.

Quando non sono più andato a scuola, i miei compagni di classe hanno imparato a non sorprendersi. Il mio soprannome “Snotty” (moccioso ndr) resiste ancora oggi. Snotty ero, e snotty sono.

Avevo appena cominciato le scuole superiori quando sono stato colpito da una diagnosi: una combinazione di mononucleosi e febbre da virus Ross River. E mi ero appena ripreso da un attacco di pertosse avuta l’anno prima. Insomma, ero all’altezza della mia fama: quando mi ammalavo, lo facevo per bene.

Il malanno mi ha reso stanco e sofferente, con un dolore incessante alle ossa e articolazioni rigide e scricchiolanti. Ancora oggi tirarsi su dal letto è come svegliarsi con un rullo di tamburi: scricchiolii, crepe e schiocchi dappertutto. Ogni giorno mi alzavo tardi la mattina in una casa vuota; mi trascinavo stancamente con la mia trapunta davanti al televisore, mi appisolavo lì, mi svegliavo per il pranzo, dormivo ancora un po’, mi alzavo per la cena e poi tornavo a letto.

Mentre i giorni diventavano settimane, guardare le lancette dell’orologio girare lentamente era troppo doloroso; quindi, il tempo era scandito dalla triste progressione della televisione durante il giorno, da Oprah (celebre conduttrice televisiva statunitense, ndr) ai film del mezzogiorno fino alle telenovele e al palinsesto iperattivo dedicato ai bambini.

I miei genitori erano al lavoro e mio fratello e tutti i miei amici a scuola. Non c’era niente che potessi fare per unirmi a loro, sempre bloccato nel mio stato di semi-veglia e sfiancato da una passeggiata sino alla cassetta della posta. La monotona routine settimanale si è trasformata in mesi. Pareva che niente potesse tirarmi fuori da questa situazione. Il tempo era l’unica terapia che qualsiasi medico potesse prescrivermi, quindi ho aspettato. Ho atteso il giorno in cui avrei potuto dare un calcio a un pallone o ridere con i miei amici.

Era un giovedì sera ventoso all’inizio dell’inverno e mia mamma era appena rientrata da una puntatina di shopping dopo il lavoro. Entrando in salotto mi ha salutato come ogni giorno con un sorriso comprensivo e un abbraccio. Si è avvicinata tenendo qualcosa di nascosto tra le mani e un sorriso la illuminava.

"Ti ho comprato una cosa" ha detto.

Uno stanco "Ohhh" mi è sfuggito dalle labbra ma non esprimeva bene la curiosità che provavo mentre la mamma svelava il suo regalo. Davanti a me c’era un paio di pantofole, le più grandi e sgargianti che avessi mai visto! A forma di zampa di leone con dei grossi artigli che spuntavano dai ditoni arancioni.

“Oh, forti!” le ho risposto rimanendo seduto, nel modo più convincente possibile. Tenevo quelle zampone tra le mani esaminando la pelliccia morbida e gli artigli curvi prima di indossarle. Era la prima volta che sorridevo da molto tempo e almeno per un istante la nuvola scura della monotonia si era diradata. Forse, dimenticai persino di essere malato.

Nei giorni seguenti le pantofole non hanno mai lasciato i miei piedi e quando lo hanno fatto si sentiva un odore di sudore stantio. Penso che questa esperienza abbia segnato l’inizio della mia strada verso il recupero. Quella che credevo fosse una malattia senza fine, ora era diventata superabile; quelli che una volta erano giorni bui e solitari, adesso erano rischiarati dalla presenza di quei nuovi amici ai miei piedi.

Sorprendentemente, nel giro di poche settimane sono rientrato a scuola e lentamente la mia vita è tornata alla normalità. Dopo molti anni, conservo ancora quelle pantofole nell’armadio. Certo, ora sono troppo piccole per i miei piedi ma mi è capitato di provare a indossarle semplicemente per ricordare quanto significassero per me.

Anche se continuo a beccarmi quel tipo particolare di raffreddore e devo stare attento alla giusta quantità di sonno, sono una persona molto più sana. Strano a dirsi le malattie non mi mancano, ma ogni volta che indosso quelle pantofole arancioni mi chiedo: “Se sono state in grado di curare me, i medici non dovrebbero prescrivere qualcosa di simile ai tanti bambini ammalati del nostro mondo?”.

(Braden Blyde è uno scrittore freelance che risiede ad Adelaide, in Australia. Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul sito web di Signs of the Times Australia/Nuova Zelanda ed è ripubblicata dietro autorizzazione).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

L’amore non si arrende

L’amore non si arrende

La commovente testimonianza di una giovane coppia che ha vissuto il dramma della malattia mano nella mano con Dio.

Andreea Irimia – L’amore, l’argomento per eccellenza. Vogliamo bene alle persone per quello che sono. Tuttavia, c’è un tipo di amore a tal punto elevato da comprendere davvero tutte le sfumature; un amore che si manifesta verso gli altri indipendentemente da chi siano o da cosa sono diventati. Un amore così esprime e racchiude in modo meraviglioso la storia di Ian e Larissa.

I due si sono conosciuti al college nel 2005. Dieci mesi furono sufficienti perché Ian si convincesse che fosse proprio lei la donna della sua vita. Erano felici insieme e si completavano a vicenda. Sapevano che questo amore non sarebbe diminuito perché avevano posto Dio al centro della loro relazione. Così, decisero di sposarsi.

Il 30 settembre 2006 è la data impressa nella memoria di Larissa perché in quel giorno cambiò definitivamente la loro vita serena e libera dai problemi. Sulla strada da casa al lavoro, Ian venne coinvolto in un grave incidente d’auto. "Abbiamo visto il nostro futuro schiantarsi con lui in quella station wagon bianca", avrebbe detto più tardi Larissa. O almeno quell’avvenire che avevano immaginato.

Ferite multiple alla testa lasciarono Ian in coma profondo, dal quale nessuno credeva che si sarebbe svegliato. I medici avevano già informato la famiglia di prepararsi per il funerale dopo che quattro esami cerebrali su cinque negarono ogni possibilità di recupero. Tuttavia, la famiglia si rifiutò di staccarlo dal respiratore, e la loro fede fu ricompensata con un miracolo. Ian si risvegliò dal coma ma non riusciva a parlare, la sua memoria a breve termine era gravemente compromessa, così come le sue capacità cognitive, e non ce la faceva nemmeno a muoversi.

Sette mesi dopo, quando Ian fu riportato a casa, Larissa si trasferì dai genitori di lui per prendersene cura. Non pensò neanche per un istante di porre fine alla loro relazione. "Allontanarmi dal mio migliore amico non è mai stata un’opzione", ha affermato. Sapeva che Ian non l’avrebbe lasciata se la situazione fosse stata ribaltata. Era ancora determinata a sposarlo se avesse riacquistato la voce. Due anni e mezzo dopo, Ian riuscì a pronunciare le sue prime parole. Poco dopo, chiese a Larissa di sposarlo.

“So che scegliere di convolare a nozze può sollevare dubbi e paure per qualcuno. Penso che una disabilità moltiplichi quei timori comuni" racconta Larissa in merito alla sua decisione di sposare Ian. Tuttavia, la paura non è stata più forte del loro amore e dell’impegno preso. Quattro anni dopo l’incidente i due furono uniti in matrimonio, accompagnati da amici e familiari. Mancava qualcuno di speciale però, una persona che era stata con loro nei momenti più difficili: il padre di Ian, morto di cancro al cervello solo pochi mesi prima.

L’amore non cancella le difficoltà. Larissa lo sa molto bene. Ha un marito che non può mai essere lasciato solo e che a sera dimentica quello che ha fatto durante il giorno. È lei che si deve occupare di tutte le faccende e dei problemi familiari. Ammette che non è facile, ma l’incoraggiamento e l’amore di Ian la risollevano ogni volta. Insieme sono riusciti a scrivere un libro in cui raccontano la loro esperienza e il meraviglioso modo in cui il loro amore si è evoluto. All’inizio del 2017, Ian ha mosso i suoi primi passi da solo. I miracoli accadono ancora nella loro vita, ma nemmeno uno equivale al miracolo dell’amore che Dio ha posto nei loro cuori e cresce ogni giorno. 

(Andreea Irimia insegna informatica e educazione tecnologica)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

L’amore non si arrende

L’amore non si arrende

La commovente testimonianza di una giovane coppia che ha vissuto il dramma della malattia mano nella mano con Dio.

Andreea Irimia – L’amore, l’argomento per eccellenza. Vogliamo bene alle persone per quello che sono. Tuttavia, c’è un tipo di amore a tal punto elevato da comprendere davvero tutte le sfumature; un amore che si manifesta verso gli altri indipendentemente da chi siano o da cosa sono diventati. Un amore così esprime e racchiude in modo meraviglioso la storia di Ian e Larissa.

I due si sono conosciuti al college nel 2005. Dieci mesi furono sufficienti perché Ian si convincesse che fosse proprio lei la donna della sua vita. Erano felici insieme e si completavano a vicenda. Sapevano che questo amore non sarebbe diminuito perché avevano posto Dio al centro della loro relazione. Così, decisero di sposarsi.

Il 30 settembre 2006 è la data impressa nella memoria di Larissa perché in quel giorno cambiò definitivamente la loro vita serena e libera dai problemi. Sulla strada da casa al lavoro, Ian venne coinvolto in un grave incidente d’auto. "Abbiamo visto il nostro futuro schiantarsi con lui in quella station wagon bianca", avrebbe detto più tardi Larissa. O almeno quell’avvenire che avevano immaginato.

Ferite multiple alla testa lasciarono Ian in coma profondo, dal quale nessuno credeva che si sarebbe svegliato. I medici avevano già informato la famiglia di prepararsi per il funerale dopo che quattro esami cerebrali su cinque negarono ogni possibilità di recupero. Tuttavia, la famiglia si rifiutò di staccarlo dal respiratore, e la loro fede fu ricompensata con un miracolo. Ian si risvegliò dal coma ma non riusciva a parlare, la sua memoria a breve termine era gravemente compromessa, così come le sue capacità cognitive, e non ce la faceva nemmeno a muoversi.

Sette mesi dopo, quando Ian fu riportato a casa, Larissa si trasferì dai genitori di lui per prendersene cura. Non pensò neanche per un istante di porre fine alla loro relazione. "Allontanarmi dal mio migliore amico non è mai stata un’opzione", ha affermato. Sapeva che Ian non l’avrebbe lasciata se la situazione fosse stata ribaltata. Era ancora determinata a sposarlo se avesse riacquistato la voce. Due anni e mezzo dopo, Ian riuscì a pronunciare le sue prime parole. Poco dopo, chiese a Larissa di sposarlo.

“So che scegliere di convolare a nozze può sollevare dubbi e paure per qualcuno. Penso che una disabilità moltiplichi quei timori comuni" racconta Larissa in merito alla sua decisione di sposare Ian. Tuttavia, la paura non è stata più forte del loro amore e dell’impegno preso. Quattro anni dopo l’incidente i due furono uniti in matrimonio, accompagnati da amici e familiari. Mancava qualcuno di speciale però, una persona che era stata con loro nei momenti più difficili: il padre di Ian, morto di cancro al cervello solo pochi mesi prima.

L’amore non cancella le difficoltà. Larissa lo sa molto bene. Ha un marito che non può mai essere lasciato solo e che a sera dimentica quello che ha fatto durante il giorno. È lei che si deve occupare di tutte le faccende e dei problemi familiari. Ammette che non è facile, ma l’incoraggiamento e l’amore di Ian la risollevano ogni volta. Insieme sono riusciti a scrivere un libro in cui raccontano la loro esperienza e il meraviglioso modo in cui il loro amore si è evoluto. All’inizio del 2017, Ian ha mosso i suoi primi passi da solo. I miracoli accadono ancora nella loro vita, ma nemmeno uno equivale al miracolo dell’amore che Dio ha posto nei loro cuori e cresce ogni giorno. 

(Andreea Irimia insegna informatica e educazione tecnologica)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

Il Dio che si prende cura di tutti i miei bisogni

Il Dio che si prende cura di tutti i miei bisogni

Indipendentemente dalla minaccia o dall’incertezza che incombe su di noi, il nostro Padre in cielo ci conduce ancora ai "pascoli erbosi" (Salmo 23:2), e la sua pace ci segue anche nelle tenebre della "valle dell’ombra della morte" (v. 4).

Carmen Lăiu – “Il mio Dio provvederà a ogni vostro bisogno, secondo la sua gloriosa ricchezza, in Cristo Gesù" (Filippesi 4:19). 
La Bibbia è piena di promesse di Dio che si prenderà cura di noi. Se guardiamo indietro al nostro passato, con i suoi momenti sereni e tempestosi, possiamo vedere la sua mano scrivere tranquillamente la nostra storia, imperturbabile dal clamore degli eventi.

Nonostante tutte le occasioni in cui abbiamo visto la bontà divina agire nella nostra vita, ci preoccupiamo ancora quando attraversiamo una "stagione delle piogge" che copre le strade che abbiamo percorso insieme. Iniziamo a inciampare, come osserva un autore cristiano, in una moltitudine di "se" e "come". 
Indipendentemente dalla minaccia o dall’incertezza che incombe su di noi, Dio ci conduce ancora ai "pascoli verdeggianti" e alle "acque calme" (Salmo 23:2), e la sua pace ci segue anche nelle tenebre della "valle dell’ombra della morte" (v. 4).

Scrivendo della necessità di affidare a Dio il futuro e qualsiasi problema che erode la nostra pace interiore, la nota autrice cristiana Ellen G. White dice: " L’ansia è cieca e non vede il futuro, ma Gesù scorge la fine sin dal principio. Ci aiuta in ogni difficoltà” – La speranza dell’uomo, p. 283.

Il Dio, che moltiplicò la farina e l’olio della vedova di Sarepta sino alla fine della siccità, che nutrì il profeta Elia usando i corvi, che fece scendere la manna dal cielo e fornì l’acqua da una roccia agli israeliti nel loro viaggio nel deserto, è lo stesso che promette di portare i nostri fardelli e soddisfare i nostri bisogni.

Vale la pena fidarsi di Dio 
In quelle mattine in cui il dolore è così acuto che anche alzarsi dal letto sembra una missione impossibile, la scrittrice cristiana Jeana Stuart – affetta da sindrome del dolore miofasciale – condivide il pensiero che deve scegliere a quali voci credere nella sua mente: quella che sussurra che la sofferenza la accompagnerà sempre e le spese mediche si accumuleranno fino a quando diventeranno insostenibili, o quella che le ricorda che Dio rimane lo stesso, indipendentemente dalle circostanze?

In un articolo incentrato sulle promesse divine, Stuart elenca la moltitudine di bisogni di cui Dio si occupa nella nostra vita quotidiana. Il Dio che fornisce cibo agli animali (cfr. Salmo 104:27; Salmo 145:15-16) si prende molta più cura dei nostri bisogni fisici: “Dunque, non state a preoccuparvi troppo, dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Come ci vestiremo?’. Sono gli altri, quelli che non conoscono Dio, a cercare sempre tutte queste cose. Il Padre vostro che è in cielo sa che avete bisogno di tutte queste cose” (Matteo 6:31-32, Tilc).

Dio ci offre una guida in tutti i nostri crocevia, così come nei giorni ordinari (cfr. Salmo 32:8), e il modo provvidenziale in cui siamo guidati si intuisce meglio quando guardiamo indietro al nostro percorso. Inoltre, Dio fornisce conforto e aiuto nella sofferenza (cfr. 2 Corinzi 1:4); forza nella tentazione (cfr. 1 Corinzi 10:13); pace in ogni circostanza (cfr. Filippesi 4:7) e salvezza (cfr. Giovanni 14:6). Uno dei più grandi doni di Dio è il riposo, ricorda Jeana Stuart, sottolineando che viverlo è strettamente legato alla fiducia in Dio, alla volontà di cedere il controllo della nostra vita al Signore.

Il segreto per il riposo perfetto risiede nell’affidamento completo, sostiene Ellen G. White, insistendo sul privilegio che abbiamo di assaggiare la gioia del cielo anche qui, nella valle del pianto: “Il cielo inizia quaggiù quando, tramite il Cristo, entriamo nel riposo. […] Il cielo si trova nell’avvicinarsi continuamente a Dio attraverso il Cristo. […] Quanto più ampia sarà la nostra conoscenza di Dio, tanto più intensa sarà la nostra felicità” – La speranza dell’uomo, p. 283.

Il pastore Garrett Kell illustra quattro modi per rafforzare la nostra fede nelle cure di Dio, in un articolo in cui cerca risposte alla domanda che spesso ci preoccupa (che la esprimiamo o meno): "Dio soddisferà i miei bisogni?". 
– Prima di tutto, dobbiamo riposare nelle promesse del Signore per noi. Se Dio non dimentica nemmeno gli uccelli del cielo, che non raccolgono, non conservano e non hanno nulla su cui fare affidamento (cfr. Matteo 6:26), di certo si prenderà cura di noi, anche se non come fa con gli altri e, forse, nemmeno nel modo in cui ci ha abituati in passato, dice Kell.

– È cruciale ricordare a noi stessi la fedeltà con cui Dio ci ha condotti in passato (condividendo questo aspetto con gli altri o forse rivedendo la nostra preghiera) perché verranno giorni in cui l’aiuto divino sembrerà essere assente. Le circostanze cambieranno, il modo in cui Dio interverrà potrebbe essere diverso da quello a cui eravamo abituati, ma la lezione che dobbiamo imparare è fidarci di lui a prescindere.

– In terzo luogo, dobbiamo essere aperti e preparati agli interventi di Dio, anche se ci possono sembrare strani o impossibili. Consideriamo il profeta biblico Elia, per esempio. Se avesse pensato a come avere da mangiare nel periodo in cui si era nascosto, probabilmente l’ultimo scenario che avrebbe considerato sarebbe stato quello in cui un angelo avrebbe preparato il suo pasto (cfr. 1 Re 19:1-8), oppure che un corvo gli avrebbe consegnato regolarmente pane e carne (cfr. 1 Re 17:2-6).

– Ultimo ma non meno importante per rafforzare la nostra fiducia in Dio, dobbiamo essere grati per le benedizioni di oggi (il "desco" che ci mette davanti), invece di concentrarci ossessivamente sulle cose di cui temiamo di poter essere privati domani.

Il Dio che vuole farsi carico di tutte le nostre preoccupazioni 
Forse la preoccupazione (insieme alla frustrazione) è uno dei peccati che consideriamo meno perché non riusciamo a vedere quanto sottilmente ci distolga da una relazione intensa con Dio. È uno di quei peccati "rispettabili", come li chiama l’autore cristiano Jerry Bridges. 
Prima di tutto, la preoccupazione tradisce la nostra mancanza di fiducia in Dio. Sappiamo che il Signore si prende cura degli uccelli, degli animali e dei gigli del campo, e ci chiede di gettare tutte le nostre ansie su di lui – “Gettando su di lui ogni vostra preoccupazione perché egli ha cura di voi" (1 Pietro 5:7) – eppure dubitiamo della sua presenza con noi nelle circostanze che temiamo. In secondo luogo, la preoccupazione rappresenta un rifiuto della provvidenza divina. Siamo distratti dalle cause immediate della situazione che ci preoccupa, ignorando il fatto che tutte le cose sono sotto il controllo di Dio.

Nell’analizzare il testo del Vangelo di Matteo 6:25-34, che affronta la questione della preoccupazione, il pastore Kevin DeYoung riflette su alcune delle ragioni per cui non dovremmo lasciare che i nostri cuori siano turbati. "L’ansia è un affronto alla gentilezza di Dio e al valore di uomini e donne fatti a sua immagine" dice il pastore, notando che dovremmo permettere agli scoiattoli e agli uccelli, fuori dalle nostre finestre, di essere i nostri predicatori ogni volta che il futuro ci sconvolge.

Alcuni cristiani si preoccupano così tanto che vivono come se Dio non esistesse e devono tenere strettamente in mano le redini della loro vita. Questo è paganesimo, sostiene DeYoung senza mezzi termini, ricordandoci che Dio promette di donare non necessariamente abbondanza, ma ciò che ci serve per vivere finché sussiste il suo piano per noi. Vale la pena sottolinearlo ancora di più, perché Dio non ci ha nascosto il fatto che fino a quando il peccato non sarà sradicato, i cristiani vivranno gli stessi problemi di coloro che lo rifiutano e potrebbero anche essere perseguitati e uccisi per la loro fede.

Dio ci offre la grazia oggi solo per i problemi e le sfide del momento, non per quello che accadrà domani. Tuttavia, la nostra pace (o la sua mancanza) deriverà dalle cose per cui viviamo, dice DeYoung. Se lo scopo della nostra vita consisterà nella comodità, nell’aspetto fisico, nella carriera (o in qualsiasi altro aspetto temporale), allora la nostra preoccupazione avrà motivo di esistere. Ma se viviamo per il regno che sta arrivando, allora abbiamo la certezza che riceveremo il meglio che desideriamo.

Fino a quel giorno, il cuore del Padre ci sosterrà con tutto ciò di cui sa che necessitiamo, perché è il Dio per il quale non solo tutte le nazioni sono "come il pulviscolo sulla bilancia" (Isaia 40:15, Cei), ma anche colui che veglia teneramente su un fragile passerotto che cade senza che nessun altro se ne preoccupi (cfr. Matteo 10:29).

(Carmen Lăiu è redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

 

La felicità lasciata alle spalle

La felicità lasciata alle spalle

Un nuovo vestito, una nuova macchina, una nuova casa… Offrono alcuni momenti di soddisfazione e una lunga serie di rimpianti per ciò che non possiamo possedere. La vera felicità risiede altrove, nell’amore di Dio.

Norel Iacob – “Una vita calma e modesta porta più felicità della ricerca del successo combinata con una costante irrequietezza”. Questa frase fu scritta in tedesco da Albert Einstein su una banconota data come mancia a un corriere giapponese nel 1922, poco dopo aver saputo di essere stato insignito del premio Nobel.

Nell’ottobre 2017, la banconota è stata messa all’asta e ha raggiunto l’incredibile cifra di 1,56 milioni di dollari, ma la filosofia di Einstein sulla felicità non è mai stata così tanto apprezzata. Questo perché va contro una tendenza da tutti manifestata e risalente a Adamo ed Eva: il fascino costante di voler essere qualcosa che non siamo o di avere ciò che non possediamo. È la droga più antica della storia umana e crea una dipendenza praticamente universale.

L’ironia sta nel fatto che nel nostro intimo passiamo gran parte della vita credendo a qualcosa di diverso, o almeno sospettandolo, anche quando riconosciamo pubblicamente la saggezza di Einstein. E ciò spiega perché, nonostante tutto quello che abbiamo scoperto o vissuto, prima o poi torniamo a quella dipendenza originaria e infelice.

La perfidia di questa dipendenza risiede nella trasformazione di un desiderio naturale e lodevole di crescita e di sviluppo in una pulsione che lega perennemente la nostra felicità al passo successivo. L’ideale umano include intrinsecamente la ricerca dell’eccellenza, ma per ragioni completamente diverse. La Bibbia lo riassume così: “Siate santi, perché io sono santo” (1 Pietro 1:16; cfr. Matteo 5:48). In altre parole, Dio ha sempre voluto che gli esseri umani fossero come lui; li ha creati in questo modo e voleva che rimanessero così per l’eternità. Sorprende, quindi, che il diavolo sia riuscito a convincere i nostri progenitori di non essere come Dio bensì mancanti di qualcosa per raggiungere quello status; qualcosa che avrebbero ottenuto addentando un frutto proibito. Il ridicolo della situazione può essere riassunto così: qualcuno, a cui Dio aveva rivelato e messo a disposizione tutto ciò che era necessario per la felicità, è stato convinto da un altro di aver bisogno di qualcosa di più.

Questo meccanismo di manipolazione è ben noto nello studio della pubblicità. Poiché abbiamo un limitato bisogno di beni, a livello pratico, le aziende si impegnano creare nuove esigenze per noi. Bisogni che devono essere soddisfatti dai loro prodotti. L’inutilità, come diceva Einstein, sta nel fatto che questa giostra ci sospinge del continuo alla ricerca della felicità ma non mantiene davvero le sue promesse. È ciò che la Bibbia definisce chiaramente “un correre dietro al vento” (Ecclesiaste 1:17).

Quindi, nonostante gli acquisti compulsivi, rimaniamo depressi. I momenti di felicità che accompagnano un nuovo acquisto non fanno altro che allargare l’abisso del bisogno di avere di più. Un nuovo vestito, una nuova macchina, una nuova casa offrono alcuni momenti o giorni di soddisfazione e una lunga serie di rimpianti per ciò che non possiamo avere.

Allo stesso tempo, mangiare meno e in modo frugale, guadagnare di meno e possedere meno oggetti sono visti spesso come dettagli di un quadro noioso e monocromatico. Mentre la semplicità costosa è una tendenza di moda, la semplicità economica e facilmente raggiungibile è generalmente considerata vergognosa, un segno di debolezza e incapacità.

Ma se hanno ragione Einstein e tanti altri che pensavano e parlavano come lui, allora la semplicità ha il potere di costruire una casa per la felicità.

Il bello è che la semplicità non ha una formula unica. Non è uniforme. Può assumere tante fogge quanti sono gli individui ed è per questo che svaluta la concorrenza. La sua essenza rimane la stessa, e questo non significa sacrificio o sopravvivenza, ma spogliazione di tutto ciò che è gravoso o nasce dall’ingannevole bisogno di avere di più, di apparire più ricco o più potente. Si tratta di mettere da parte tutto ciò che ha un valore creato artificialmente per vedere ciò che conta intrinsecamente, dimenticando gli oggetti che richiedono adorazione per fare spazio a quelli che servono senza schiavizzare. La semplicità agisce sulle nostre menti e sui nostri cuori proprio come la natura ripristina un ecosistema dopo che cessa l’intervento umano. Inoltre, la semplicità regala tempo. In assenza di elementi ridondanti, riscopriamo l’essenziale: le persone, la bellezza delle relazioni, il potere trasformativo dell’amore e la semplicità della ricetta per la felicità.

Il Sabato biblico, vissuto come suggerisce la Scrittura stessa e non secondo le tradizioni umane che ne hanno snaturato l’essenza, incarna la semplicità e i suoi benefici. Il Dio che ha creato gli esseri umani a sua immagine li invita a una celebrazione settimanale della loro relazione; è un momento di completo recupero e riconnessione, un’opportunità per ricaricare e riaffermare le convinzioni e i sentimenti che alimentano una vita equilibrata, sana e appagante. In realtà, non abbiamo bisogno di più oggetti o risultati. Abbiamo bisogno di più fiducia, pace, amore e scopo. Non si tratta di inseguire disperatamente la felicità, ma di fermarsi e di stabilirsi con soddisfazione nel luogo in cui risiede la felicità.

E la felicità, come i fiocchi di neve così leggeri da non posarsi su chi è in movimento, cade su chi, pur essendo in movimento, in realtà si è fermato.

(Norel Iacob è direttore di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

Hai dei doni, che tu lo sappia o no

Hai dei doni, che tu lo sappia o no

Ogni persona, con i propri talenti, è come un piccolo pezzo dell’immenso puzzle di Dio. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poterlo sperimentare.

Karen Holford – C’è qualcosa su un tavolo enorme. È un grande quadro. Ti avvicini e vedi che il disegno è composto da singoli pezzi, come un puzzle. Ma lo schema è insolito. Non è un’immagine che riconosci, come una montagna svizzera o un mazzo di tulipani e, mentre ti concentri sui dettagli, noti che il modello si muove e cambia costantemente in modo quasi impercettibile.

I minuscoli pezzi sono collegati da un’intricata rete di attività, come il sistema nervoso, i vasi sanguigni, i muscoli del corpo e, al centro del disegno, c’è un cuore che brilla di pura luce, pulsando fresche forniture d’amore attraverso le arterie, le vene e i capillari. I muscoli si muovono e i nervi trasmettono messaggi. Tutto funziona insieme. Ogni pezzo è vitale.

Ora immagina che a tutti coloro che seguono Gesù sia stato dato almeno un pezzo di questo puzzle. Insieme, creiamo un’immagine del carattere di Dio, del suo amore straordinario, gentile, premuroso e generoso. Quando tutti i frammenti sono intrecciati, creano qualcosa di molto più incredibile di quanto potrebbero fare da soli.

Ma ora immagina che manchino alcuni pezzi. Se qualcuno nasconde il proprio pezzo, lo perde, non si preoccupa di utilizzarlo o lo tiene in tasca, quella meravigliosa immagine sarà rovinata e gli altri pezzi dovranno essere aggiustati affinché il flusso dell’amore di Dio sia ininterrotto. Per i pezzi isolati è più difficile riflettere il carattere di Dio.

Sperimentare Dio 
Questo incredibile puzzle è una metafora dell’interconnessione che hanno i discepoli di Gesù. Nessuna persona può riflettere perfettamente il carattere di Dio perché siamo tutti imperfetti. Ancora più importante: nessuno di noi da solo può riflettere Dio perché il suo amore si sperimenta nelle relazioni. Il carattere di Dio si rivela perfettamente nella misteriosa collaborazione tra Dio Padre, Gesù Figlio e lo Spirito Santo.

Inoltre, l’amore può essere sperimentato solo quando è messo in azione. Dio ci ha creato per vivere in relazioni – famiglia, chiesa e comunità – perché sa che non è bene per noi essere soli. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poter sperimentare l’amore di Dio con braccia, orecchie e voci umane. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poter vivere l’amore del Signore che fluisce da loro a noi e da noi a loro. Ogni cristiano è come un piccolo pezzo del puzzle che aiuta gli altri a conoscere maggiormente il carattere di Dio.

Utilizzare i doni spirituali 
I doni spirituali sono i doni speciali che Dio ci fa quando scegliamo di appartenere alla sua famiglia. È come se tirasse fuori dalla scatola l’enorme puzzle del suo amore – compreso tutte le cose che fa per noi aiutandoci, insegnandoci e guidandoci – e lo dividesse in piccoli pezzi che gli esseri umani possono gestire più facilmente. Poi li distribuisce per adattarli alla nostra situazione di vita, alle nostre preferenze personali, alle cose che ci portano gioia, ai bisogni delle nostre comunità, ai nostri talenti naturali e alle abilità che abbiamo imparato.

Non possiamo vedere come Dio distribuisce questi doni, ma Egli vede sempre il quadro generale in continua evoluzione. Tiene gli occhi puntati su ciascuno di noi, su ciascuna chiesa e comunità, e mescola continuamente i suoi doni spirituali per creare la più grande rete di benedizioni per il mondo intero. Il modo in cui Dio gestisce il tutto va oltre la mia comprensione, ma non ho bisogno di sapere come funziona; devo solo assicurarmi che il mio tassello del puzzle sia vibrante e in crescita.

Il mio pezzo del puzzle 
Avevo sei anni quando sapevo di voler diventare una scrittrice e otto quando un pezzo fu pubblicato sul nostro giornale locale. All’inizio, scrivere era semplicemente qualcosa che mi piaceva. Poi ho pensato che, forse, era un talento che Dio mi aveva donato. Quando ho saputo dei doni spirituali, non ho visto quello della "scrittura" negli elenchi della Bibbia (Romani 12; 1 Corinzi 12; Efesini 4), ma alcuni dei momenti più sorprendenti della mia vita sono accaduti quando mi è stato chiesto di scrivere su un argomento che non mi era mai passato per la mente prima.

Mi siedo davanti al mio portatile, senza parole, senza sapere da dove cominciare o cosa dire. Tutto quello che posso fare è pregare, chiedendo a Dio di mostrarmi ciò che vuole che scriva, aprendomi per essere un canale del suo amore per il mondo. E poi arrivano le parole, fluiscono le idee e so che quello che scrivo viene totalmente da Lui. L’esperienza va oltre le parole. Oggi, scrivere è il mio talento e il mio lavoro, e i miei momenti preferiti sono quando so che Dio sta usando la mia scrittura come suo dono spirituale nella mia vita.

Il tuo pezzo del puzzle 
Puoi cercare su Internet vari questionari che ti aiutino a identificare i tuoi doni spirituali. A volte i nomi biblici di questi doni possono creare confusione perché sono termini generici che descrivono una gamma di talenti e potresti non essere del tutto sicuro di dove collocarti. Quindi, come puoi saperlo?

Se sei già un discepolo di Gesù, pensa a quello che fai solo perché ami Dio e vuoi aiutare gli altri a sperimentare il suo amore. Pensa alle volte in cui hai provato la sensazione pacifica e gioiosa di fare proprio ciò per cui Dio ti ha creato. Pensa a quelle volte in cui ti sei sentito realizzato, quando hai avuto la sensazione di essere adoperato da Dio al 100% e la consapevolezza che stavi “vivendo il tuo scopo” attraverso ogni centimetro del tuo essere. È in quei momenti di pura ispirazione connessa che puoi veramente scoprire i tuoi doni spirituali.

Se non sei un seguace di Gesù, c’è una buona notizia: se scegli di diventare cristiano, Dio ti aiuterà a scoprire i tuoi doni. Forse, intuitivamente, sai già cosa sono. Sono le cose che ti rendono felice quando le usi e le altre persone si sentono benedette quando lo fai. Più usi i tuoi doni, più forti saranno.

Una volta identificati i modi in cui condividi l’amore di Dio con gli altri, inizierai a vedere dove si inseriscono in una delle categorie bibliche dei doni spirituali. Tuttavia, potrebbero emergere altri doni che non rientrano perfettamente in questo elenco originale, come i doni della comunicazione, del design grafico, della musica, dell’arte, della gestione delle crisi, del soccorso in caso di calamità, della risoluzione dei conflitti, della consulenza e sì, della scrittura! Quando l’apostolo Paolo scrisse ai cristiani di Roma, Corinto ed Efeso, il suo elenco di doni spirituali era diverso, quindi, sono suggerimenti piuttosto che un elenco vincolante di dettagli.

Forse il modo migliore per assicurarti che i tuoi pezzi si inseriscano nel puzzle di Dio è lasciare che Egli riveli il suo carattere a te e attraverso di te. Può utilizzarti per creare un quadro chiaro del suo amore in un mondo confuso e sofferente. 

(Karen Holford, terapista familiare, è la direttrice dei Dipartimenti Ministeri in favore dei Bambini, Ministeri Femminili e Ministeri della Famiglia presso la Regione transeuropea della Chiesa avventista)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

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