Il lamento. Un percorso verso l’intimità con Dio

Il lamento. Un percorso verso l’intimità con Dio

Bert Williams – I cristiani sono esortati a mantenere uno spirito positivo anche di fronte alle difficoltà. I Salmi invitano a lodare il Signore in numerose circostanze. Le lettere dell’apostolo Paolo sono intrecciate con inviti alla gioia, anche quando era in prigione. Lodare Dio nei momenti difficili è un'importante disciplina spirituale che rafforza il nostro cammino con il Signore. …

Ma è possibile che, a volte, anche cristiani più forti si trovino in un luogo dove la gioia sembra impossibile?

Il Libro dei Salmi, per quanto ricco di lodi, include almeno 65 salmi di lamenti, che esprimono rabbia, protesta, dubbio e disperazione, ma non sono lamentele di eretici o miscredenti. Ecco la realtà: in tempi di intensa sofferenza, un lamento può essere un percorso importante verso l'intimità con Dio. Considera questa parte del Salmo 44: 
“Risvègliati! Perché dormi, Signore? 
Dèstati, non respingerci per sempre! 
Perché nascondi il tuo volto 
e ignori la nostra afflizione e la nostra oppressione? 
Poiché l'anima nostra è abbattuta nella polvere; 
il nostro corpo giace per terra. 
Ergiti in nostro aiuto, 
liberaci nella tua bontà”. 
(vv. 23-26).

Il teologo D. A. Carson osserva: “Non c'è nessun tentativo nella Scrittura di nascondere l’angoscia del popolo di Dio quando soffre. Le persone discutono con Dio, si lamentano con Dio, piangono davanti a Dio. La loro non è una fede che porta a uno stoicismo asciutto, ma a una fede così solida da lottare con Dio”.[1]
In effetti, discutere, lamentarsi, piangere davanti a Dio a volte può essere la nostra migliore adorazione perché è tutto ciò che abbiamo da offrire. 
Il più cupo dei Salmi è l’88, che conclude: "le tenebre sono la mia compagnia” (v. 18). Ma questo grido non esce dalle labbra di un non credente. Il Salmo inizia con le parole: “O Signore, Dio della mia salvezza, io grido giorno e notte davanti a te” (88:1).

Penso sia probabile che Gesù, mentre era in croce, stesse recitando a memoria il lamento che conosciamo come Salmo 22, alcuni versi li disse ad alta voce mentre la sua vita svaniva. Sicuramente, quando i tempi sono brutti, possiamo trovare nell'esempio di Cristo la nostra esperienza. 

Nota
[1] D. A. Carson, How Long, O Lord? Reflections on Suffering and Evil, seconda edizione, Grand Rapids: Baker Academic, 2006, p. 67.

(Bert Williams, ora in pensione, ha lavorato come pastore, insegnante e giornalista).

[Fonte: Adventist Review. Traduzione: L. Ferrara]

 

Il santuario, Gesù e noi

Il santuario, Gesù e noi

Michele Abiusi – Nella vita dell’Israelita aveva una grande importanza il Santuario, divenuto tempio all’epoca del re Salomone e ricostruito da Zorobabele. Ricordiamo che nel cortile vi era l’altare dei sacrifici e la vasca per le abluzioni. Nel luogo Santo: la tavola dei pani, il candelabro a sette braccia e l’altare dei profumi. Infine, nel luogo Santissimo: l’arca dell’alleanza con all’interno le tavole del patto, la manna ed il bastone fiorito di Aaronne, e sul propiziatorio lo shekinah che mostrava la gloria di Dio. Nel tempio si svolgevano i servizi quotidiani e quello annuale dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione).

Gesù realizza tutto ciò che era una parabola nei servizi del tempio. Nel Vangelo di Giovanni dice: “Distruggete questo tempio, e in tre giorni lo farò risorgere!” (2:19). Il suo sacrificio è una volta e per sempre, ci insegnerà la Lettera agli Ebrei.

Possiamo fare un accostamento tra il tempio e noi? “Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Corinzi 3:16). Allora riflettiamo…

Il cortile 
Altare dei sacrifici:
– il nostro corpo, “Vi esorto… a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio” (Romani 12:1);
– labbra lodanti, “offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome” (Ebrei 13:15).

Vasca abluzioni:
– battesimo cristiano

Il luogo Santo 
Tavola dei pani: nutrirci del pane di Dio, Gesù Cristo, Giovanni 6:32-35.
Candelabro: luce del mondo (riflessa), Matteo 5:14.
Altare dei profumi: preghiere, Apocalisse 8:3-4.

Il luogo Santissimo 
Nuovo patto nel sangue di Cristo.

Noi possiamo essere tempio di Dio se lo vogliamo. Nella Lettera agli Ebrei, Gesù è presentato come il nostro Sommo Sacerdote che garantisce la nostra salvezza nel giorno del giudizio e che ci introdurrà nell’eternità al suo glorioso ritorno.

E in cielo vi sarà un Santuario?
“Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio” (Apocalisse 21:3).

Viviamo come tempio di Dio per essere con lui nell’eternità.

Il suo volto brillò come il sole

Il suo volto brillò come il sole

Michele Abiusi – L’evangelista Matteo presenta la risposta di Gesù alle tentazioni nel deserto. La terza, l’ultima tentazione, avvenne quando il diavolo aveva portato Gesù su un monte alto (Luca 4:5), che indica la condizione divina, e gli offre tutti i regni e la gloria del mondo. È l’invito, la seduzione, la tentazione rivolta a Gesù di conquistare la condizione divina e ottenere il potere per dominare. Per comprendere questa tentazione bisogna ricordare che all’epoca, tutti coloro che detenevano il potere si consideravano di condizione divina, come il faraone che era un dio, l’imperatore romano che era figlio di un dio. Quindi il diavolo offre a Gesù la condizione divina attraverso il potere.

Bene, l’episodio della trasfigurazione è la risposta di Gesù a questa tentazione. Il testo dice: “Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte. E fu trasfigurato davanti a loro; la sua faccia risplendette come il sole e i suoi vestiti divennero candidi come la luce. E apparvero loro Mosè ed Elia che stavano conversando con lui. E Pietro prese a dire a Gesù: ‘Signore, è bene che stiamo qui; se vuoi, farò qui tre tende; una per te, una per Mosè e una per Elia’. Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa li coprì con la sua ombra, ed ecco una voce dalla nuvola che diceva: ‘Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo’. I discepoli, udito ciò, caddero con la faccia a terra e furono presi da gran timore. Ma Gesù, avvicinatosi, li toccò e disse: ‘Alzatevi, non temete’. Ed essi, alzati gli occhi, non videro nessuno, se non Gesù tutto solo (Matteo 17:1-8).

Ripercorriano il testo.

Sei giorni dopo”, questa indicazione è preziosa perché ricorda due importanti avvenimenti: la creazione dell’uomo nel libro della Genesi e quando Dio manifesta la sua gloria sul monte Sinai. Quindi la cifra “sei giorni” richiama due cose: la creazione dell’uomo e la gloria di Dio. L’evangelista vuole dimostrare che in Gesù si manifesta la pienezza della creazione e, con essa, la gloria di Dio. E vedremo il perché. 

Gesù prese con sé Pietro (il discepolo viene presentato con il suo soprannome negativo, che significa ‘l’ostinato, il testardo’), Giacomo e Giovanni suo fratello”. Sono i tre discepoli difficili, quelli che lo tentano al potere. Quando Gesù annunzierà che a Gerusalemme sarà messo a morte, saranno Giacomo e Giovanni che gli chiederanno di condividere con loro i posti più importanti. Ebbene, Gesù prende con sé Pietro, colui che nell’episodio precedente era stato oggetto della più violenta denuncia, del più violento epiteto rivolto da Gesù a un suo discepolo. Gesù l’aveva chiamato “satana”. “Vattene… satana!” (Matteo 16:23). Le stesse parole con le quali Gesù aveva respinto la tentazione nel deserto. Ma gli dà una possibilità, “Vattene satana, torna a metterti dietro di me”, perché Pietro voleva lui indicare la via di Gesù, e soprattutto Pietro rifiutava l’idea di morte di Gesù, perché per lui la morte era la fine di tutto. Allora Gesù prende ora con sé il suo “satana” e risponde alla tentazione di Pietro e a quella del deserto. 

E li condusse in disparte”. La formula “in disparte” è un’espressione tecnica adoperata dagli autori dei Vangeli per indicare ostilità, incomprensione, da parte dei discepoli o di altri, verso Gesù e il suo messaggio.

Su un alto monte”. Ecco, come il diavolo aveva portato Gesù su un monte altissimo, ora Gesù porta il suo “diavolo”, il suo tentatore, Pietro, su un alto monte, il luogo della condizione divina.

e fu trasfigurato davanti a loro”. La condizione divina, per Gesù, non si ottiene attraverso il potere, ma attraverso l’amore; non dominando, ma servendo; non togliendo la vita, ma offrendo la propria. L’effetto di questo orientamento della vita per il bene degli altri è la trasformazione.

il suo volto brillò come il sole”. Questo indica la condizione divina. Gesù aveva detto che i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre.

e i suoi vestiti divennero candidi come la luce”. È il colore dell’angelo che annuncia la risurrezione (Matteo 28:3). Quindi in Gesù si manifestano gli effetti della risurrezione; la morte non distrugge la vita, ma è ciò che le permette di fiorire in una forma nuova, piena, completa e definitiva. Una forma che nell’esistenza terrena non è possibile raggiungere.

E apparvero loro Mosè ed Elia”. Questi due personaggi raffigurano rispettivamente la legge e i profeti, quello che noi chiamiamo Antico Testamento.

che conversavano con lui”. Mosè ed Elia sono coloro che, nell’Antico Testamento, hanno parlato con Dio e adesso parlano con Gesù. Non hanno nulla da dire ai discepoli.

E Pietro prese a dire a Gesù”. Qui il testo dice “prese la parola” ma in realtà l’evangelista scrive “reagì”, quindi è una reazione di Pietro, il discepolo dall’atteggiamento ostinato.

Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè, e una per Elia. Esiste una festa in Israele tanto importante che non ha bisogno di essere nominata. È chiamata semplicemente “la festa”. È la festa per eccellenza, più importante anche della Pasqua. È la festa delle capanne che ricorda l’esodo e la liberazione dalla schiavitù egiziana. Si celebrava per una settimana, tra settembre e ottobre, e in quei giorni si viveva sotto le capanne. Ebbene, in ricordo dell’antica liberazione, vi era l’attesa e la speranza che si sarebbe manifestato e sarebbe giunto il liberatore. Quindi il Messia si sarebbe manifestato durante la festa delle capanne. Allora ecco che Pietro continua nel suo ruolo di tentatore, il “satana” di Gesù.

Perché, direte, cosa fa Pietro? Dice “se vuoi farò qui tre capanne”, era la festa nella quale il Messia si sarebbe manifestato, e notiamo l’ordine di queste capanne, “una per te, una per Mosè¨, una per Elia”. Quando ci sono tre personaggi, il più importante sta sempre al centro. Per Pietro l’importante è Mosè, non Gesù. Pietro riconosce in Gesù il Messia, ma secondo la linea dell’osservanza della legge imposta da Mosè. Il Messia sarebbe stato un pio devoto osservante di tutte le regole della legge e soprattutto come Elia, profeta zelante, forse anche troppo, che scannò personalmente quattrocentocinquanta sacerdoti di un’altra divinità. Quindi il Messia che vuole Pietro è questo: uno che osservi la legge e la imponga con la violenza come Elia.

Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa”. Nell’Antico Testamento, la nube è immagine della presenza divina.

li coprì con la sua ombra”. Quindi Dio non è d’accordo con quello che dice Pietro.

ed ecco una voce dalla nuvola che diceva. È la voce di Dio.

Questo è il mio Figlio diletto”. Figlio indica colui che assomiglia al Padre nel comportamento e non solo. È l’amato, l’erede, colui che eredita tutto, quindi colui che ha tutto del Padre.

nel quale mi sono compiaciuto”. È la stessa identica espressione che Dio pronunziò su Gesù al momento del battesimo. L’evangelista vuole dimostrare in questo modo qual è l’effetto del battesimo. Nel battesimo Gesù aveva preso l’impegno di manifestare la fedeltà all’amore del Padre, anche a costo della sua vita. La risposta di Dio a questo impegno è la vita capace di superare la morte.

ascoltatelo”. Ecco l’imperativo. Quindi non devono ascoltare né Mosè, né tanto meno Elia, ma soltanto Gesù. Mosè ed Elia vengono relativizzati e posti in relazione con l’insegnamento e la vita di Gesù. Quello che della legge o dei profeti concorda con Gesù è ben accolto, quello che si distanzia, o è contrario, viene tralasciato.

I discepoli, udito ciò, caddero con la faccia a terra”. È la reazione dei discepoli. Cadere con la faccia a terra è segno di sconfitta, di fallimento, quindi sentono di aver fallito. Non è questo il Messia che loro stanno seguendo.

e furono presi da gran timore”. Quindi si sentono sconfitti perché il Messia che loro seguono è il Messia che non muore ma trionfa; invece devono accettare le parole di Gesù quando aveva annunziato che a Gerusalemme sarebbe stato messo a morte. Per loro è un segno di sconfitta e ora hanno anche timore di quale può essere la reazione di Gesù che è stato da loro così contraddetto.

Ma Gesù, avvicinatosi, li toccò”. Come aveva fatto con gli infermi e le persone morte, e disse “Alzatevi e non temete”. La risposta di Gesù è sempre una comunicazione di vita.

Alzando gli occhi non videro nessuno”. Pietro, Giacomo e Giovanni ancora cercano Mosè ed Elia, perché è il passato, è la tradizione. È questo che dà loro sicurezza; quindi, cercano una conferma dei valori del passato.

se non Gesù solo”. D’ora in poi dovranno affidarsi solo a Gesù.

Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: ‘Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti’”. Questa immagine di un Gesù che passa attraverso la morte, una morte che, non solo non lo distrugge, ma lo potenzia, poteva essere male interpretata, come un segno in senso trionfalistico da parte dei discepoli. Non sanno ancora che questa condizione Gesù la otterrà passando attraverso la morte più infamante, quella riservata ai maledetti da Dio, la morte sulla croce.

Il Signore ci aiuti ad accettarlo pienamente nella nostra vita e ad eliminare tutti quei falsi miti che ci siamo creati nella nostra fede.

 

 

 

Il pane secco

Il pane secco

Imparare a vedere le cose sempre da un’altra angolazione.

Michele Abiusi – A volte ci avanza un pezzo di pane, magari dopo aver fatto colazione, e il giorno dopo diciamo: “Questo pane è duro”. E spesso è proprio così. Ma, pensandoci bene, e pensando a una riflessione che ho letto dello psicologo Wilder Hernadez, oggi vedo le cose da un’altra angolazione. 

“Il pane non è duro; duro, è non avere pane”. 
Sembra una cosa assurda, ma siamo specialisti nel lamentarci e la maggior parte delle volte senza ragione, senza pensarci, per superficialità, per egoismo…
Il pane non è duro; duro è non avere pane. Cosa significa? Prova a pensare alla tua vita. 
Il lavoro che fai non è duro; duro è non avere un lavoro. 
Avere la macchina rotta, non è duro; duro, è non avere una macchina. 
E avere la macchina rotta e dover andare a prendere l’autobus a piedi è duro? 
No, duro è non aver gambe, duro è non poter camminare. 
Mangiare riso e sardine non è duro; duro è non aver nulla da mangiare. 
Perdere una discussione in famiglia non è duro; duro (e credetemi, questo sì che è duro!) è perdere una persona della propria famiglia. 
Dire “Ti amo” guardando negli occhi un’altra persona, non è duro. 
Duro è doverlo dire davanti a una lapide o a una bara, quando ormai sono inutili le parole. 
Lamentarsi non è duro; duro è non saper essere riconoscenti.

Oggi è un buon giorno per ringraziare Dio per la vita, per tutto ciò che abbiamo e per non lasciare che la nostra felicità dipenda da qualcosa o da qualcuno. La nostra felicità dipende solo da noi e da quante volte alziamo gli occhi al cielo per ringraziare il Signore. 
La vita non è perfetta, però è meravigliosa quando la viviamo in Cristo.

Caro Dio, non importa ciò che sto passando in questo momento della mia vita, ti ringrazio del privilegio di essere vivo oggi.

Duro non è condividere questa riflessione con un buon amico; duro è non aver un amico con cui condividerla… 

 

 

Pentecoste. Il più grande bisogno della chiesa

Pentecoste. Il più grande bisogno della chiesa

Michele Abiusi – Nel discorso profetico di Matteo 24, Gesù indica una serie di segni che precederanno il suo maestoso ritorno, segni che annunciano la fine dei tempi e che possiamo così sintetizzare:

– molti falsi cristi (v. 5); 
– guerre, ma non sarà ancora la fine (v. 6); 
– nazione contro nazione, terremoti (v. 7); 
– non sarà che inizio di dolori (v. 8);
– vi tortureranno e vi faranno morire, sarete odiati (v. 9);
– si odieranno a vicenda (v. 10);
– molti falsi profeti sorgeranno (v. 11); 
– l’amore della maggioranza si raffredderà (v. 12);
– chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato: è il preambolo al v.14 che rappresenta l’ultimo segno (v. 13);   
– il vangelo predicato in tutto il mondo…(v. 14).

Di cosa abbiamo bisogno perché questo ultimo segno si compia e il Signore ritorni? “Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra”(Atti 1:8). Il più grande bisogno della chiesa, oggi, è quello di ricevere la potenza dello Spirito Santo, secondo la promessa profetica. “Voi, figli di Sion, gioite, rallegratevi nel Signore, vostro Dio, perché vi dà la pioggia d'autunno in giusta misura, e fa scendere per voi la pioggia, quella d'autunno e quella di primavera, come prima (Gioele 2:23).

Il popolo di Dio che proclama il triplice messaggio di Apocalisse 14, dev’essere investito di una straordinaria potenza affinché possa illuminare la terra intera della gloria di Dio. “La grande opera dell’Evangelo non si concluderà con meno potenza di quella che ha caratterizzato il suo inizio” – E. G. White, Il gran conflitto, Ed. Adv, p.612. 

Perché Dio promette la pioggia dello Spirito Santo? Dio accorda lo Spirito Santo a colui che vuole essergli fedele. È nella misura in cui ci consacriamo all’opera di Dio che egli ci accorda le sue benedizioni. “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il ricupero della vista ai ciechi; per rimettere in libertà gli oppressi” (Luca 4:18).

Per evangelizzare i poveri, ossia i mansueti. 
Per guarire coloro che hanno il cuore ferito.
Per proclamare la libertà ai prigionieri.
Per proclamare la grazia di Dio.
Per proclamare il giudizio di Dio.

Il Signore ha affidato al suo popolo un compito molto importante, per preparare le persone ad attendere il suo glorioso ritorno. “I tuoi ricostruiranno sulle antiche rovine; tu rialzerai le fondamenta gettate da molte età e sarai chiamato il riparatore delle brecce, il restauratore dei sentieri per rendere abitabile il paese” (Isaia 58:12).

Riedificare le antiche rovine. 
Rialzare le fondamenta gettate.
Riparatore delle brecce, restauratore degli antichi sentieri.

“Dio ha atteso tanto che lo spirito di servizio si impossessi di tutta la chiesa e che ognuno possa lavorare per lui, secondo i suoi talenti” – E. G. White, Conquistatori di pace, Ed. Adv, p. 97. 
“La promessa dello Spirito è destinata a noi che viviamo oggi come i discepoli di allora. Dio accorderà la potenza dall’alto a degli uomini e a delle donne come lo ha fatto a coloro che nei giorni della Pentecoste hanno capito la predicazione della salvezza. Oggi il suo Spirito e la sua grazia sono a disposizione di tutti coloro che ne hanno bisogno e che hanno fiducia in lui” – E. G. White, Testimonies for the Church, vol. 8, p. 20.

Tutti i segni del ritorno di Cristo si sono adempiuti, tranne l’ultimo: la proclamazione del vangelo a tutti gli esseri umani. Lo Spirito Santo è impaziente di riempire il cuore di ogni credente e di investirlo della sua potenza, affinché egli possa essere pienamente utile per terminare il lavoro di evangelizzazione.

Non possiamo non prendere coscienza che questo è il più grande bisogno della chiesa oggi e che dobbiamo gridare: ”Vieni Santo Spirito!”

 

 

 

Il salmo del sabato

Il salmo del sabato

Michele Abiusi – Il Salmo 36 è definito “il salmo del sabato”. Il salmista, dopo aver considerato l'empio che si lascia guidare dall'iniquità e aver riflettuto sulla bontà di Dio che sazia delle sue delizie i suoi figli, particolarmente quando frequentano il tempio (e soprattutto di sabato), esclama: “Poiché in te è la fonte della vita, e per la tua luce noi vediamo la luce” (Salmo 36:9).

La sorgente della vita e la luce divina, associate in questo verso 9, ci riportano a Cristo, la Parola di cui è scritto: “In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini” (Giovanni 1:4).

Il Signore è la fonte della vita materiale e spirituale, e non solo; è colui che dà vero significato alla nostra esistenza! Il Signore sazia e disseta chi lo cerca nella preghiera, e lo rende partecipe della sua vita piena.

L’altra immagine è data dal simbolo della luce. È una luminosità che si irradia quasi “a cascata” ed è un segno dello svelamento di Dio al credente. Così era avvenuto a Mosè sul Sinai. 
“Poi Mosè scese dal monte Sinai. Egli aveva in mano le due tavole della testimonianza quando scese dal monte. Mosè non sapeva che la pelle del suo viso era diventata tutta raggiante mentre egli parlava con il Signore. Aaronne e tutti i figli d'Israele guardarono Mosè, e videro che la pelle del suo viso era tutta raggiante. Perciò ebbero paura di avvicinarsi a lui” (Esodo 34:29, 30).

Così accade al cristiano nella misura in cui, “a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, viene trasformato in quella medesima immagine” (2 Corinzi 3:18).

Nel linguaggio dei Salmi, “vedere la luce del volto di Dio” significa concretamente incontrare il Signore nel tempio, dove si celebra la preghiera liturgica e si ascolta la parola divina. Anche il cristiano compie questa esperienza quando celebra le lodi del Signore all’aprirsi della giornata, prima d’incamminarsi per le strade, non sempre lineari, della vita quotidiana, e quando incontra il Signore nella comunità dei fedeli.

Il mio augurio è che ogni giornata segni un passo in avanti nella nostra vita, che sia più piena e nella luce che dissipa le tenebre. Che il nostro volto rispenda della gloria del Signore che ci dà vita e luce.

 

 

La stella del mattino

La stella del mattino

Michele Abiusi – Fin dall'antichità il cielo ha sempre affascinato gli esseri umani. Nell'antico paganesimo, il ciclo regolare degli astri permetteva agli uomini di misurare il tempo. I corpi luminosi apparivano come potenze soprannaturali da adorare. Il sole (dio Mitra), la luna, Venere e le costellazioni stesse disegnavano in cielo figure enigmatiche a cui dare nomi mitici. Gli Egiziani e i popoli mesopotamici erano rinomati per le loro conoscenze astronomiche, ma questa scienza era associata alle arti divinatorie.

Leggendo la Bibbia il quadro cambia repentinamente: gli astri non si distinguono ancora bene dagli angeli. Giobbe vede le stelle dare in gridi di giubilo alla creazione e Giovanni vede cadere un terzo delle stelle in Apocalisse 12. Gli astri sono visti come creature di Dio. 
Il popolo d'Israele non sfugge, però, alla tentazione dei culti astrali; il re Giosia interviene drasticamente per estirparne le pratiche. Sarà necessario l'esilio perché gli Israeliti si stacchino da questa forma di idolatria. La stella a sei punte, o scudo di David o sigillo di Salomone, rimane comunque il simbolo del giudaesimo.

Particolare attrazione aveva, nei popoli antichi, la stella che si vedeva all'alba; per gli Egiziani era Sirio, per i greci, Venere. 
In Apocalisse 22:16, Gesù si definisce la lucente stella del mattino. Perché? 
Gesù insegna che non c'è determinismo astrale, non ci sono destini scritti nel cielo. Una stella ha guidato i magi alla grotta di Betlemme e la croce ha liberato gli uomini dall'angoscia cosmica! 
Con la sua venuta, il vero “sole” illumina gli uomini; il cantico di Zaccaria, in Luca 1:76-79, afferma che l’Aurora visiterà la terra. 
La risurrezione di Cristo: fu quello il mattino che sancì per l'uomo l'inizio di una nuova creazione. Il Risorto divenne per tutti la stella radiosa del mattino!

E allora chiediamoci: cosa significa essere cristiano? 
Tutta la Scrittura deve condurmi a Cristo che splende in me, e il mio carattere lo riflette. In Apocalisse 2:28 c’è la promessa che ai “vincitori” Cristo si offre come stella del mattino, perché non saranno più gli astri ad illuminare il nuovo mondo, ma la sua gloria e quella del Padre. Nell'attesa di quel giorno radioso, lasciamo che questa “Stella” brilli nei nostri cuori. 

 

 

 

 

 

 

Togliere la pietra dalla tomba

Togliere la pietra dalla tomba

Michele Abiusi – Vorrei rievocare, in occasione della Pasqua, il sabato particolare che i discepoli e i nemici del Signore vissero a Gerusalemme dopo la crocifissione di Gesù. Mentre tutti sembravano confusi… “C'era un uomo, di nome Giuseppe, che era membro del Consiglio, uomo giusto e buono, il quale non aveva acconsentito alla deliberazione e all'operato degli altri. Egli era di Arimatea, città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. E, trattolo giù dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo mise in una tomba scavata nella roccia, dove nessuno era ancora stato deposto. Era il giorno della Preparazione, e stava per cominciare il sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea, seguito Giuseppe, guardarono la tomba, e come vi era stato deposto il corpo di Gesù. Poi, tornarono indietro e prepararono aromi e profumi. Durante il sabato si riposarono, secondo il comandamento” (Luca 23: 50-56).

La pietra era un sistema usato normalmente, a quel tempo, per chiudere un’apertura. Ben presto tutti si misero in agitazione a causa di quella pietra. 
“L'indomani, che era il giorno successivo alla Preparazione, i capi dei sacerdoti e i farisei si riunirono da Pilato, dicendo: ‘Signore, ci siamo ricordati che quel seduttore, mentre viveva ancora, disse: Dopo tre giorni, risusciterò. Ordina dunque che il sepolcro sia sicuramente custodito fino al terzo giorno; perché i suoi discepoli non vengano a rubarlo e dicano al popolo: È risuscitato dai morti; così l'ultimo inganno sarebbe peggiore del primo’. Pilato disse loro: ‘Avete delle guardie. Andate, assicurate la sorveglianza come credete’. Ed essi andarono ad assicurare il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia” (Matteo 27:62-66).

La logica dei nemici di Gesù era la stessa di Gamaliele: anche Giuda e Teuda evevano detto di essere il Messia, ma con la loro morte tutto era finito nel nulla. Se Gesù era veramente morto, allora il cristianesimo sarebbe morto con lui! La pietra doveva rimanere al suo posto. I nemici di Gesù avevano voluto ucciderlo ed ora lo volevano mantenere morto. La tomba venne sigillata con il sigillo di Cesare, segno della più alta autorità. Una guardia corazzata, con la sua lancia, avrebbe certo scoraggiato qualche fanatico… La pietra sarebbe rimasta al suo posto!

Vi era un altro gruppo che si preoccupava di quella pietra. “Passato il sabato, Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo, e Salome comprarono degli aromi per andare a ungere Gesù. La mattina del primo giorno della settimana, molto presto, vennero al sepolcro al levar del sole. E dicevano tra di loro: ‘Chi ci rotolerà la pietra dall'apertura del sepolcro?’ (Marco 16:1-3).

Esse sapevano di non avere sufficiente forza fisica. Il fatto che portavano aromi dimostra che non si aspettavano una risurrezione, né tantomeno pensavano di rubare il corpo. Queste donne ci insegnano qualcosa: se una religione è basata su un fondatore morto, tutto quello che si può sperare è di ungerne il corpo e divenire dei nostalgici. Molte persone adorano un Cristo morto, circondato da una liturgia artistica, ma che non è il Salvatore. E se non lo desideriamo, allora dovremmo cercare di tenere anche noi quella pietra chiusa!

I discepoli erano scoraggiati dopo la crocifissione; nessuno credeva realmente alla risurrezione. “Ed ecco si fece un gran terremoto; perché un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e vi sedette sopra. Il suo aspetto era come di folgore e la sua veste bianca come neve. E, per lo spavento che ne ebbero, le guardie tremarono e rimasero come morte” (Matteo 28:2-4).

Quando Dio decise di rotolare via la pietra, non fu un problema. Egli risuscitò suo Figlio e l’angelo si sedette su quella pietra per dimostrare che gli accorgimenti umani non sono nulla per Dio. Ciò che Roma aveva sigillato fu abbattuto in un momento.

La Pasqua è il sigillo infranto, la pietra rotolata, le guardie tramortite e Gesù risorto.

È il nostro passaggio a Dio attraverso l’unico mediatore vivente. L’opera di Dio vuole continuare con noi.
“Io darò loro un medesimo cuore, metterò dentro di loro un nuovo spirito, toglierò dal loro corpo il cuore di pietra, e metterò in loro un cuore di carne, perché camminino secondo le mie prescrizioni e osservino le mie leggi e le mettano in pratica; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio” (Ezechiele 11:19-20).    Forse finora abbiamo impedito a Dio di regnare nella nostra vita. Ora lui vuole smuovere la pietra dal nostro vecchio cuore. Abbiamo bisogno di cambiare e Dio è pronto ad aiutarci, a rotolare via la pietra per darci un cuore di carne e renderci creature nuove.

La Pasqua è la nostra risurrezione spirituale.

Chiediamo a Dio: “Signore, porta via la pietra della porta del mio cuore ed entra come Signore e colui che perdona”.

 

 

 

Perdona loro

Perdona loro

Michele Abiusi – Gesù è ormai in croce. Il suo destino è scritto non solo nei testi sacri più antichi, ma anche nel programma dei capi religiosi del tempo. Dalla croce Gesù ancora parla, annuncia, consiglia, prega il Padre; continua ad essere padrone della situazione, anche se sembra succube degli eventi. Benché inchiodato e sofferente come difficilmente si potrebbe immaginare, pensa ancora una volta agli altri, a coloro che sono intorno al Golgota.

Al Golgota 
Ma chi c’è quel giorno sul Golgota? Ci sono i religiosi, i notabili di Gerusalemme, coloro che hanno deciso la sua morte e istigato la folla per raggiungere il loro scopo. Ci sono i giudei, il popolo che in genere segue e crede a chi grida più forte. Ci sono anche alcuni parenti e amici di Gesù, che non hanno avuto paura né vergogna di essere presenti. C’è Maria, la madre che Gesù affida alle cure del suo discepolo Giovanni, anche lui presente. C’è Maria Maddalena che Gesù aveva liberato dal suo passato difficile, perdonandole i peccati; e poi altre donne e uomini, amici e curiosi.

Ci sono persone che deridono colui che si definiva il Messia, il Salvatore, e che adesso è incapace di salvare se stesso; persone che piangono nel vedere un amico soffrire ingiustamente. Infine, c’i sono i soldati romani che eseguono la sentenza del condannato. Loro eseguono gli ordini, da bravi militari pagati per questo. Non devono porsi domande né provare sentimenti. Quindi, ognuno ha le sue ragioni per essere presente quel giorno ai piedi di quelle croci.

Però, nessuno di loro è consapevole di ciò che accade veramente. Gesù oramai è sfinito, le forze lo abbandonano. Ha perso troppo sangue. Le ferite sono aperte. Ha sete. La gola è secca. Fa una fatica immane per parlare. Eppure, lascia indicazioni per Giovanni e per sua madre, assicura un condannato a morte, come lui, del suo amore, parla con il Padre.

Perdona loro 
Tutti gli sguardi sono verso di lui. E Gesù parla ancora. Sembra una preghiera. Pare una richiesta rivolta al Padre. Cosa dice? “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Luca 23:34).
Prima di morire ha ancora un pensiero, una parola in favore degli altri. Perché Gesù? Ci aspettavamo parole diverse per tante persone senza rispetto, senza riconoscenza, senza Dio. Una parola di giudizio, di condanna! Oppure ci un gesto miracoloso richiesto da molti. Saresti stato in grado di farlo, lo sappiamo. Sono tanti i segni da te compiuti durante i pochi anni trascorsi in mezzo a noi. Avevi moltiplicato i pani e i pesci, avevi camminato sulle acque del lago, avevi calmato la tempesta con una sola parola, avevi guarito i malati da ogni malattia, i morti avevano aperto gli occhi a una tua parola. Sì, avresti potuto scendere da quella croce e mettere lo scompiglio tra quella folla di ignoranti… E invece, niente di tutto questo, solo parole di perdono e di comprensione per l’ignoranza generale.

Pensiero rivoluzionario 
“Padre, perdona loro…”. Queste ultime parole sembrano una preghiera. In realtà sono molto più di questo.

Gesù non aveva bisogno di chiedere al Padre di perdonare gli esseri umani, perché era venuto fra di noi proprio per questo. Il nome Gesù gli era stato dato perché doveva esprimere la sua missione: salvare il popolo dai peccati. Gesù non stava intercedendo per l’uomo peccatore. Non aveva bisogno di supplicare il Padre, come se Dio non fosse abbastanza buono. Infatti, Gesù aveva già detto ai suoi discepoli: “Non crediate che io preghi il Padre per voi. Dio stesso vi ama” (Giovanni 16:26-27). Che pensiero rivoluzionario: Dio non ha bisogno di mediatori o intercessori.

Mi spiego meglio. Dio non ha bisogno dell’intervento di nessuno per essere clemente, misericordioso, sensibile ai nostri bisogni, per perdonarci. E questo proprio perché è Dio. Lui ci ama di un amore così profondo, così grande, che nessuno può superarlo!

La missione 
“Padre, perdona loro…”. Quindi Gesù non sta intercedendo per l’uomo, nel senso che questa parola tradizionalmente vuol dirci. Gesù dichiara la sua missione nel momento in cui la stessa missione volgeva al termine. Gesù dichiara a parole ciò che sta rivelando con la sua vita e con la sua morte. Sono parole che concludono e che riassumono tutto il suo ministero, la ragione della sua esistenza. Gesù è venuto per aiutare, per perdonare, per salvare l’uomo e questo lo ha fatto non solo per un giorno o un anno, ma durante tutta la sua esistenza, sino alla fine, anche in croce, anche sanguinando e rendendo il suo spirito.

Sono parole che ci assicurano che Dio è a nostro favore, ieri come oggi, domani e sempre, continuamente. Dio ci ama, ci comprende, ci perdona, ci salva, ci è vicino. Cosa sarebbe stata la storia se l’uomo avesse capito queste parole di Gesù? Parole di perdono per tutti, compresi i giudei che lo hanno condannato a morte.

Perdono non vendetta 
“Padre, perdona loro…” sono parole che sembrano voler evitare vendette contro coloro che lo avevano condannato. Gesù voleva impedire proprio quello che la storia ha registrato! Con quel perdono dalla croce Gesù voleva prevenire tante intolleranze, discriminazioni, soprusi, vigliaccherie, torture, massacri, fatti magari col suo nome in bocca, da credenti, da cristiani o almeno da chi aveva la pretesa di essere tale.

“Padre, perdona loro…” Ancora queste parole risuonano nella nostra mente e ci parlano di tolleranza, di comprensione, di amore, di perdono verso chi è diverso, verso chi non la pensa come noi, verso chi professa un’altra religione, verso chi è di un’altra razza e anche verso chi ci potrebbe fare del male, verso chi non sa amare.

Padre, aiutami a perdonare, come tu perdoni.

Le palme. È Cristo la nostra pace

Le palme. È Cristo la nostra pace

Michele Abiusi – I quattro Vangeli [1] ricordano l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, accolto dalla folla che lo acclama come re, agitando fronde e rami presi dai campi. L’episodio rimanda alla celebrazione della festività ebraica di Sukkot, la “Festa delle Capanne”, in occasione della quale i fedeli arrivavano in massa in pellegrinaggio a Gerusalemme e salivano al tempio in processione. Ciascuno portava in mano e sventolava il lulav, un piccolo mazzetto composto dai rami di tre alberi – la palma, simbolo della fede, il mirto, simbolo della preghiera che s’innalza verso il cielo, e il salice, la cui forma delle foglie rimandava alla bocca chiusa dei fedeli, in silenzio di fronte a Dio – legati insieme con un filo d’erba (Levitico 23:40).

Il cammino era ritmato dalle invocazioni di salvezza (Osanna, in ebraico Hoshana) in quella che col tempo era divenuta una celebrazione corale della liberazione dall’Egitto. Dopo il passaggio del Mar Rosso, il popolo era vissuto sotto le tende, nelle capanne, per quarant’anni. Secondo la tradizione, il Messia atteso si sarebbe manifestato proprio durante questa festa.

Gesù, la pace 
Durante questa festa Gesù entrò trionfante a Gerusalemme, cavalcando una puledra d’asina. Inaugurava così il suo regno di giustizia e di pace. La palma [2] è solo un “piccolo segno” che invita a portare “la pace nel nostro cuore, nella nostra famiglia e nella nostra vita. Ma la pace è Gesù. È lui che ci dona la pace, la sua pace”.

Mai si è tanto parlato di pace come ai nostri giorni, in cui veramente la sentiamo instabile a causa della guerra che tocca l’Europa e il mondo. La sentiamo profondamente minacciata. La Bibbia parla molto della pace. 
Il saluto arabo salam e quello ebraico shalom significano essere intero, intatto, compiuto. Da qui, vivere in pace equivale ad essere in relazione amicale con gli altri. Il sostantivo significa benessere, inteso come salute, prosperità, ricchezza, lunga vita, ecc. 
Gli Ebrei usavano salutarsi con l’espressione “Pace a te” e congedarsi con “Va in pace”. Nel corso della sua storia, Israele imparerà che solo Dio concede la pace (benessere). 
“Io sono il Signore, e non ce n'è alcun altro; fuori di me non c'è altro Dio! Io ti ho preparato, sebbene non mi conoscessi, perché da oriente a occidente si riconosca che non c'è altro Dio fuori di me. Io sono il Signore, e non ce n'è alcun altro. Io formo la luce, creo le tenebre, do il benessere, creo l'avversità; io, il Signore, sono colui che fa tutte queste cose” (Isaia 45:5-7).

Il dono della pace è condizionato alla fedeltà al patto e dipende dall’attitudine morale verso Jaweh.
La pace è associata alla persona del Messia: “Poiché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato, e il dominio riposerà sulle sue spalle; sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace” (Isaia 9:5).

Paolo manifesta il legame che unisce la pace alla redenzione. Egli introduce tutte le sue lettere epistole con un augurio: grazia e pace a voi. Quella pace di cui i primi cristiani ameranno imprimere il monogramma sulle loro tombe (Pax), come garanzia di risurrezione. L’apostolo Paolo non ha mai dato una definizione della pace, non rientra nel suo stile, ma ci fa capire che Cristo è la nostra pace. La crea riconciliando i due popoli, unificandoli in un solo corpo. Egli stabilirà la concordia fra tutti gli esseri attraverso sé, creando la pace con il sangue della sua croce. Ogni credente è in pace con Dio e, attraverso Cristo, vive in pace con gli uomini.

Nelle beatitudini, Gesù dice: “Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Matteo 5:9). 
La pace cristiana è un modus vivendi, una maniera di essere e di comportarsi gli uni verso gli altri a causa di Cristo e per amore verso di lui.

 

Note 
[1] Il racconto dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme è presente in tutti i quattro Vangeli, ma con alcune varianti. Matteo e Marco raccontano che la gente sventolava rami di alberi, o fronde prese dai campi; Luca non ne fa menzione; solo Giovanni parla di palme (Mt 21,1-9; Mc 11,1-10; Lc 19,30-38; Gv 12,12-16).

[2] Anche la palma è un forte elemento simbolico presente nel racconto: è la pianta che si rinnova ogni anno con una foglia, ma riporta anche all’immagine messianica di creazione di un ponte tra il monte e la città, tra Dio e l’uomo. Fino al IV secolo, a Gerusalemme, una tradizione locale indicava fisicamente la palma da dove erano stati staccati i rami con cui i fanciulli avevano inneggiato a Gesù. In Occidente – dove le palme non crescono – la palma è stata sostituita dall’ulivo, simbolo di pace e di Gesù stesso, che è l’unto del Signore. Addirittura, nell’Europa del nord, dove non ci sono neppure gli ulivi, per la celebrazione liturgica della processione che precede la messa, si usano rametti di fiori intrecciati. In Occidente, inoltre, la domenica precedente alla Pasqua era tradizionalmente riservata alle cerimonie pre-battesimali, perciò la processione con le palme in mano fece inizialmente fatica a introdursi.        

 

 

 

La creazione attende la liberazione

La creazione attende la liberazione

Michele Abiusi – “… nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio.” (Romani 8:21). Per meglio comprendere il pensiero che l’apostolo Paolo esprime in questo testo della Lettera ai Romani, leggiamo anche i versetti lo precedono: “Poiché la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta…” (vv.19, 20).

La teologia paolina sulla creazione è chiara: ogni cosa è scaturita perfetta dalle mani di Dio che ha creato un habitat ideale per l’uomo, che aveva il compito di custodire l'ambiente, come afferma Genesi 1. La scelta sbagliata dei nostri progenitori, che pensavano di raggiungere libertà e autonomia lontani e fuori da Dio (il peccato originale in Eden), ha coinvolto la creazione.

Oggi non bisogna essere cristiani per rendersi conto del degrado del nostro pianeta. Gli ambientalisti sono preoccupati per il clima, l'inquinamento, il disboscamento e molto altro ancora. Possiamo affermare di non essere stati buoni amministratori e, visto che abitiamo una casa comune, dobbiamo anche porci il problema di consegnarla abitabile ai nostri figli!

In questo brano, Paolo associa la redenzione alla creazione; anch’essa ha la speranza. Quella speranza che nel testo di Tito 2:13 definisce “la beata speranza”, ossia il ritorno di Cristo che porterà alla restaurazione di tutte le cose.

La creazione è stata coinvolta nel peccato, anche gli animali e le piante soffrono e muoiono! Aspettano quello stato di libertà di cui godrà il creato, allorquando i figli di Dio saranno glorificati. Per dirlo con le parole di Godet, antico e profondo teologo: “S'intende con questa libertà lo sviluppo senza impedimenti, il libero svolgimento di tutte le energie di vita, di bellezza, di perfezione di cui sarà dotata la natura rinnovellata; mentre la gloria è lo splendore della vita celeste dell'umanità santificata, sul teatro di quella natura restituita a libertà”.

La libertà della gloria sarà assenza totale di peccato, di ribellione a Dio, libertà dalla tentazione, dalla calamità, dalla morte. Libertà di esprimere tutte le proprie potenzialità in armonia con la volontà di Dio. 
La più grande libertà è quella di essere governati dal nostro grande Creatore.

Il mio augurio è che tutti, un giorno non molto lontano, possiamo essere nella terra restaurata per godere anche di una creazione perfetta.

 

 

Non vi chiamo servi ma amici

Non vi chiamo servi ma amici

Michele Abiusi – “Nessuno ha amore più grande di quello di dare la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio” (Giovanni 15:13-15).

Il rapporto di intimità fra Gesù e il discepolo non solo assicura stabilità e sicurezza, ma è alla base di una radicale trasformazione di quest'ultimo: da servo diventa amico. Questo cambiamento è significativo e ne possiamo cogliere il senso dalla tradizione biblica e dallo stesso Vangelo di Giovanni, tenendo presente che sia la figura del servo sia quella dell’amico esprimono un rapporto positivo e specifico nei confronti di Dio.

I profeti parlavano di se stessi come servi di Dio, fino a giungere alla figura del “Servo di Dio” tratteggiata nella seconda parte del libro di Isaia: è una figura la cui sorte è inseparabile da quella del suo popolo e che offre la sua vita per giustificare i popoli di tutte le nazioni.

Gesù stesso introduce l’incontro di addio con i discepoli lavando loro i piedi e assumendo così la funzione del servo. Anche i discepoli si considerano servi quando si rivolgono a lui con il titolo di “Signore”.

Senza negare il senso e il valore del rapporto di servizio, anzi, rafforzandolo, Gesù inserisce i discepoli in un nuovo rapporto: “non più servi, ma amici”. Quello di amico è un titolo che nell’Antico Testamento viene riservato solo ad Abramo e a Mosè, perché il Signore ha comunicato con loro a faccia a faccia.

Gesù trasforma i discepoli da servi in amici perché li ha amati fino al dono della vita e perché ha rivelato loro tutte le parole che ha udito dal Padre. Nella preghiera rivolta al Padre, Gesù dirà: “Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Giovanni 17:26).

Gli amici di Gesù sono coloro che hanno accolto tutte le sue parole e sono stati trasformati dall’amore ricevuto. La parola accolta e interiorizzata trasforma la vita in amore vissuto. Diventare amici e non più servi indica un rapporto di reciprocità nel quale non solo si accolgono i comandamenti, ma si condividono anche i sentimenti. È il recupero della libertà.

Il passaggio dalla condizione di servi a quella di amici spiega anche come il rapporto di intimità con Gesù Cristo sfoci nella gioia: “Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia completa” (Giovanni 15:11). 

 

 

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