Dalla depressione a una nuova vita

Dalla depressione a una nuova vita

Kevin Breel è un ragazzo canadese che ha attraversato un lungo periodo buio durante l’adolescenza. Era incastrato in un ruolo di facciata. Nulla sembrava avere più senso. Un giorno qualcosa è cambiato: ha trovato la forza di chiedere aiuto.

Andreea Irimia – Una forza invisibile, in agguato, che grava pesantemente dentro, convincendoti in modo graduale che la vita non vale molto, è meglio lasciarla andare. Dalle profondità della depressione, il viaggio di ritorno è incredibilmente difficile ma non impossibile. Kevin Breel è una di quelle persone che possono testimoniarlo.

Aveva poco più di cinque anni quando si rese conto che la sua famiglia non era poi così normale come avrebbe dovuto essere. Kevin non aveva mai assistito ad alcun gesto di affetto tra sua madre e suo padre, a differenza di quello che vedeva nelle case dei suoi amici. I suoi genitori dormivano in stanze separate e quella di suo padre era piena di bottiglie di birra e posacenere. Sua sorella maggiore tornava a casa di rado; trovava sempre qualcos’altro da fare con gli amici o con il suo ragazzo.

La loro casa era carina e in un bel quartiere della città canadese di Victoria, ma nulla di più traspariva all’esterno dalle grandi finestre. Kevin avrebbe voluto che qualcuno potesse vedere quanto si sentisse solo. Trascorreva ore nella sua camera, sognando a occhi aperti situazioni in cui si sentiva felice. Gli sembrava di essere diverso e fuori posto, e la sua personalità introversa, a scuola lo rese bersaglio delle battute dei bambini. Le cose iniziarono a cambiare quando fece amicizia con Jordan, suo compagno di classe. Con Jordan poteva parlare; non si sentiva più solo e la famiglia del suo amichetto divenne la sua seconda casa.

All’età di 12 anni Jordan morì in un incidente d’auto insieme a sua madre. Con la scomparsa del suo amico, quella nuova felicità svanì insieme al rapporto con la famiglia di Jordan e la figura di suo padre. Cominciò a sentirsi di nuovo solo e invisibile, così saltava la scuola e sprofondò nella tristezza. Non poteva andare in classe dove tutti sapevano della sua perdita; perciò, si iscrisse in un altro istituto dove non conosceva nessuno.

Allora più che mai, l’idea che qualcuno del nuovo liceo potesse percepire quanto stesse soffrendo lo portò a cercare un altro modo per nascondere meglio la sua depressione. Kevin divenne uno degli studenti più popolari grazie alla sua intelligenza, al suo umorismo e al suo talento atletico. In poco tempo fu nominato capitano della squadra di basket ed era considerato un ragazzo che aveva sempre la battuta pronta. Da fuori sembrava l’adolescente più soddisfatto e felice. Solo lui sapeva quanto tutto ciò fosse lontano dalla verità. "Mi odiavo e il modo che avevo trovato per nasconderlo sembrava una radicale accettazione di me stesso".[1]

I momenti di depressione, anche se non costanti, tornarono a ondate rendendo angosciante la sua esistenza. Durante il giorno riusciva a controllare i pensieri suicidi, di notte invece lo colpivano con tutta la loro forza. Non solo. Anche il senso di colpa aveva messo il suo carico. “Mi sono sempre sentito colpevole per quei sentimenti depressivi. Soprattutto perché capivo di non avere una valida ragione per sentirmi in quel modo".

Cercò di sfuggire agli episodi depressivi ma nulla funzionò. Leggeva libri che promettevano la guarigione, cambiò anche le sue abitudini alimentari e teneva un diario per provare a liberarsi da quei pensieri ed emozioni. "Come un pesce tirato fuori dall’acqua, annaspavo in tutte le direzioni, cercando di mettermi al sicuro ed esaurendomi allo stesso tempo" racconta Kevin.

A 17 anni, durante la vigilia di Natale, decise di aspettare un altro anno, un periodo di tempo in cui sperava di superare la depressione. L’alternativa era il suicidio ma non gli ci volle molto per considerare seriamente quell’opzione. Era metà febbraio e si trovava a una festa dove tutti sembravano divertirsi. Guardandosi intorno era sopraffatto dalla sensazione che non avrebbe mai potuto essere come loro e che tutta la sua vita di facciata era insopportabile. Tornò a casa, prese una bottiglia di vodka e una confezione di potenti antinfiammatori, risoluto a porre fine alla sua vita.

Paradossalmente, la salvezza arrivò dal biglietto di addio. Quando iniziò a scriverlo, tutte le ragioni che lo portavano a quel gesto non sembravano così forti. In un modo che non aveva mai realizzato, con un’obiettività che la depressione aveva messo in ombra, capì che tutte le sue difficoltà non erano insormontabili, c’era un’alterativa che non aveva provato: chiedere aiuto.

Confessò tutto a sua madre che lo sostenne e lo portò da uno psicologo. I problemi non si risolsero immediatamente, ma imparò a essere paziente e a non nascondere la sua depressione. Oggi, Kevin non ne parla come qualcosa di cui avere vergogna né nega il suo passato perché, racconta, "il passato è sempre in agguato, in attesa; sperimenta modi per scavare la sua strada nella nostra vita. Anche se riesci a prenderne le distanze, non puoi mai negare le esperienze del passato. Forse la verità è che non c’è fuga, solo accettazione”.

In occasione di una conferenza Ted, Kevin ha condiviso la sua storia. Aveva la speranza di far capire alle persone presenti (circa 80 partecipanti) che lo stigma attribuito alla depressione dalla società fa sì che la maggior parte di chi ne soffre non cerca aiuto. Il suo discorso è stato seguito su YouTube da centinaia di migliaia di persone e ripreso dai principali giornali online. Kevin approfitta della popolarità che ha guadagnato per sensibilizzare sulla necessità di parlare della depressione come di qualsiasi altra patologia, senza vergogna o paura; un modo per sostenere quanti si trovavano nella stessa situazione che lui viveva cinque anni fa. Kevin esprime la sua gratitudine verso la depressione: gli ha insegnato a vivere davvero. “So cosa significa voler morire. E ora posso dire onestamente che so cosa significa voler vivere”.

Note  
[1] K. Breel, Boy meets depression (Il ragazzo incontra la depressione), Google Books.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ridefinire l’impossibile

Ridefinire l’impossibile

La straordinaria storia di Rick Hoyt, un ragazzo tetraplegico diventato maratoneta correndo con il suo papà. Una testimonianza di fiducia, entusiasmo e amore per la vita, d’ispirazione per tanti.

Andreea Irimia – L’insieme di emozioni che una famiglia vive quando aspetta un bambino è allo stesso tempo meraviglioso e spaventoso. Appena tutto sembra essere a posto, l’immaginazione inizia a ipotizzare le prime parole, i primi passi e tutti i momenti straordinari che seguiranno. Per Dick e Judy Hoyt, quei sogni sono stati rimpiazzati dalla tragedia. Hanno imparato, però, a trasformare la tragedia in amore, e la loro vita è diventata d’ispirazione per milioni di persone.

Prima che Rick Hoyt nascesse il 10 gennaio 1962, nulla avrebbe potuto preannunciare quello che sarebbe successo. La gravidanza di Judy era stata normale ma alla nascita il cordone ombelicale si era stretto intorno al collo del bambino, lasciando il cervello senza ossigeno. In seguito a questo evento, Rick nacque con una paralisi cerebrale. Per i medici era un "vegetale", incapace di muoversi o pensare; raccomandarono ai suoi genitori di lasciarlo alle cure degli assistenti sociali. Invece, la mamma e il papà portarono Rick a casa perché era loro, era parte della famiglia.

Dopo Rick, i coniugi Hoyt hanno avuto altri due maschietti. Durante la crescita, i suoi genitori notarono che Rick seguiva le loro conversazioni e rideva persino delle loro battute. I medici si erano sbagliati nel dire che non c’era alcun impulso nel suo cervello. Così, sua madre iniziò a insegnargli l’alfabeto. Dopo cercarono un modo per comunicare e gli fecero usare un computer che gli permettesse di parlare attraverso uno speciale software. Le sue prime parole fecero ridere tutti: “Forza Bruins!” (Boston Bruins era la sua squadra di hockey preferita). 
Ma Judy non si fermò qui. Lottò con le autorità del Massachusetts per assicurare ai bambini disabili il diritto all’istruzione. Grazie a lei, venne approvata una legge che permise a Rick di andare a scuola e contare su lezioni adeguate alle sue esigenze. Da allora poté frequentare i corsi come qualsiasi altro bambino normodotato.

Nella loro famiglia ogni attività doveva coinvolgere anche Rick. Una delle regole della casa era questa: nulla è impossibile. Escogitarono modi per sciare, giocare a hockey e nuotare insieme; viaggiarono attraverso gli Stati Uniti e visitarono innumerevoli posti. Rick andò al ballo del liceo e si esibì in una danza su sedia a rotelle con una compagna di classe.

Tuttavia, la sua vita cambiò quando sentì parlare di una gara per raccogliere fondi per un giocatore di lacrosse (sport nordamericano, ndr) paralizzato. Desideroso di offrire il suo aiuto, chiese a suo padre di spingere la sedia a rotelle di corsa per partecipare alla gara. Papà Dick racconta che riusciva a malapena a camminare da solo, figuriamoci a spingere Rick sulla sua sedia a rotelle. Ma aveva accettato la sfida ed era riuscito quasi a completare la corsa di due chilometri. Alla fine della giornata, Rick aveva scritto a suo padre sul computer quanto si sentisse felice quando correva. Si sentiva libero, non immobilizzato.

Avevano trascorso così tanti anni a cercare un modo per far sentire Rick come tutti gli altri e l’avevano trovato! Suo padre iniziò ad allenarsi costantemente. Quando Rick era a scuola, Dick posizionava dei sacchi di cemento equivalenti al peso di Rick sulla speciale sedia a rotelle.

Nel 1979 erano pronti per la loro prima corsa ma non li autorizzarono a partecipare alla maratona di Boston. Continuarono comunque a correre al fianco dei partecipanti ufficiali. Alla fine, nel 1983, fu loro concesso di correre e segnarono un tempo sufficiente per qualificarsi alla maratona di Boston che gli era stata negata quattro anni prima.

Dopo pochi anni, gli organizzatori della maratona, colpiti dalla storia del team Hoyt, accettarono la loro iscrizione. Ma come sempre, gli Hoyt non avevano l’abitudine di riposare sugli allori. Rick e Dick iniziarono a correre ultramaratone e a partecipare a gare di triathlon costruendo una bicicletta e un’imbarcazione speciali.

Tra una competizione e l’altra, Rick era uno studente modello alla Boston University. I suoi genitori sostengono, con orgoglio, che la decisione di frequentare l’ateneo era stata totalmente del figlio. Desideravano per lui un college più vicino a casa, ma Rick aveva scelto la Boston University. Le sfide che affrontò furono impegnative. Aveva bisogno che lo Stato mettesse a disposizione degli assistenti sociali per aiutarlo nel campus e in classe, e non fu facile. Ancora una volta sua madre fece causa e dimostrò che l’onere finanziario a carico dello Stato era molto meno gravoso rispetto a quello che avrebbe dovuto sostenere se Rick fosse stato in un istituto per disabili. Di nuovo Judy vide riconosciuto il diritto di Rick di usufruire del sistema scolastico.

Nel 1993, all’età di 31 anni, Rick è stato il primo tetraplegico senza la capacità di parlare a laurearsi. Aveva ideato metodi di educazione speciale per aiutare le persone come lui. Si era trasferito poi in un appartamento, con l’aiuto dei suoi genitori e delle autorità.

Non solo. Rick non ha mai smesso di correre; era il suo modo per sentirsi libero. E suo padre lo ha sostenuto in ogni fase del percorso. Per Dick, è Rick a correre per davvero. “Rick mi fa andare avanti. Mi motiva e mi ispira” racconta il papà “Gli presto le mie braccia e le mie gambe in modo che possa gareggiare. Qualcosa di inspiegabile nasce in me e sono in grado di correre più velocemente. È una sensazione incredibile”.

Nell’aprile del 2014, anno del loro ritiro dalle competizioni, il team Hoyt aveva partecipato a 1.108 eventi sportivi, tra cui 255 triathlon e 72 maratone. Corsero la loro ultima maratona di Boston quando Dick aveva 74 anni.

In occasione di una celebrazione speciale, alla coppia di atleti è stata dedicata una statua: un modo per celebrare l’ispirazione che Rick e Dick donano a milioni di persone, a riprova che nulla è impossibile.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non c’è limite al dolore e alla sofferenza

Non c’è limite al dolore e alla sofferenza

La storia umana, l’annuncio evangelico e l’indifferenza. Il presidente Cretu commenta, in chiave pastorale, l’anno che volge al termine, su radio Rvs.

Notizie Avventiste – “Sicuramente quest’anno ci ha insegnato che purtroppo non c’è limite al dolore e alla sofferenza, perché quello che sta accadendo in Europa, in Palestina e così via, potremmo continuare con l’elenco, non fa altro che riportare la nostra attenzione su quanto l’uomo può far del male”. Esordisce con queste parole Andrei Cretu, presidente dell’Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del Settimo Giorno, nel suo intervento ai microfoni di radio Rvs-Accendi la Speranza.

Volge al termine un anno complicato, sia per le due guerre dentro e vicino all’Europa, sia per la questione climatica (il 2023 sarà ricordato come l’anno più caldo da quando esistono le misurazioni), sia per altre criticità come la povertà e le migrazioni. A queste situazioni difficili Cretu aggiunge altro e rivolge il suo sguardo pastorale ai più giovani, alla Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2011) che “sono quelli che hanno sofferto di più le limitazioni imposte dal Covid, e molti di loro ne sono usciti più fragili e diffidenti nei confronti della società”; e alla Generazione Alfa (i nati dal 2012 a oggi)… definita “come probabilmente una delle generazioni più infelici che ci siano mai state”.

In Dio la soluzione
Da pastore, dice Cretu, di fronte a tutto questo, “non posso non pensare a colui che la Bibbia descrive come un Padre amorevole, un Padre che è presente, che soffre insieme ai suoi figli e per i quali ha preparato una soluzione diversa da tutto quello che noi potremmo fare. Nonostante non dobbiamo abbandonare la lotta per raggiungere obiettivi ben determinati, sia per quanto riguarda la situazione ambientale, sia per quanto riguarda i conflitti, non dimentichiamo che la soluzione finale che la Bibbia presenta è l’intervento di Dio, un Dio che ama i suoi figli e che desidera per loro il meglio".

“Ed è in un simile contesto” prosegue “che abbiamo anche la capacità di rinunciare a certi aspetti del nostro orgoglio, delle nostre motivazioni, lasciando che sia Dio a intervenire nella nostra vita, e mettendoci al servizio del prossimo, per dimostrare quello che può fare un amore disinteressato nei confronti degli altri. È una soluzione che oggi deve essere applicata e credo che, come chiesa, abbiamo anche la responsabilità di comunicare questo e insegnare a farlo”.

Vegliare e agire per il bene
Nella nostra società dilaga l’indifferenza, che di recente il Censis ha definito “sonnambulismo”, vale a dire il pensare solo al proprio interesse. Questo è in netto contrasto con l’insegnamento di Gesù che dice di vegliare, di stare svegli. Un messaggio rivolto alla chiesa. 
“Gesù stesso era consapevole di questo rischio che la comunità di credenti può vivere, e cioè di addormentarsi e quindi non credo che dobbiamo parlare di altri, ma dobbiamo parlare di noi stessi” sottolinea Cretu.

E vegliare significa anche occuparsi del prossimo, come invita Gesù.. 
“Le parole oggi non bastano più” spiega il presidente “soltanto nel mettersi al servizio di coloro che sono intorno a noi possiamo in qualche modo trasmettere quello che è il messaggio essenziale del vangelo. Le persone sono stanche e possono anche essere indifferenti nell’ascoltare semplicemente delle parole che non sono seguite da un atteggiamento coerente”. La chiesa deve essere “un luogo primario dove vengono affrontati quelli che sono i problemi esistenziali costanti nella società, dove si parla dei valori in una prospettiva positiva, dove si offre un messaggio di speranza attraverso gesti concreti di amore”.

Clicca qui per ascoltare l’intera intervista di Rvs.

 

 

 

 

 

 

Oltre quello che gli occhi possono vedere

Oltre quello che gli occhi possono vedere

La testimonianza di Ben Underwood che da bambino ha perso la vista a causa del cancro. Con uno straordinario spirito di forza e adattamento, ha saputo osservare e percepire il mondo con gli occhi della mente e del cuore.

Andreea Irimia – Ci sono momenti nei quali sentiamo che la vita è dura e che alcune sfide vanno oltre le nostre possibilità. Quando ci guardiamo intorno e vediamo persone come Ben Underwood, ci rendiamo conto che non solo non siamo consapevoli dei doni che ci sono stati offerti, ma anche dell’immenso potere di godere della vita anche quando questi doni ci sono negati.

Ben Underwood è nato in un giorno d’inverno del 1992 nella soleggiata California. Fino all’età di due anni la sua infanzia è stata comune, segnata dalla personalità energica e allegra di sua madre Aquanetta. Una sera però Aquanetta ha notato una macchia bianca nell’occhio destro di Ben, simile a una piccola perla. Nel giro di pochi giorni la macchia era cresciuta, quindi ha portato il bambino da un oculista con una certa preoccupazione. I test rivelarono un cancro agli occhi chiamato retinoblastoma, una patologia che di solito colpisce i bambini di età inferiore ai due anni. La notizia è stata devastante per Aquanetta, il cui padre era morto di cancro.

I medici lottarono per un anno per rimuovere il tumore maligno con la chemioterapia e la radioterapia ma i risultati furono insoddisfacenti e lasciarono alla madre una soluzione estrema: rimuovere i bulbi oculari per evitare che il cancro si diffondesse al nervo ottico e poi al cervello. A soli tre anni, il piccolo Ben fu accolto nella sala di rianimazione post-operatoria da sua mamma che cercava di nascondere le lacrime e di distrarlo dalla paura di non rivederla mai più. Gli mise le mani sul viso, gliele fece annusare e disse: “Ben, puoi ancora vedermi, piccolo. Puoi guardarmi con le mani: puoi toccarmi. Puoi ancora vedermi, Ben, con il naso: puoi annusarmi. E anche con le orecchie. Ben, puoi guardarmi con le orecchie. Puoi sentirmi”. In quel momento, si ripromise di aiutare il bambino a non pensare mai a sé come limitato dalla sua disabilità.

Subito dopo aver lasciato l’ospedale, Ben sarebbe sempre stato con i suoi fratelli Derius e Isaiah, toccando tutto ciò che gli capitava e riconoscendo gli oggetti con il loro aiuto. Dal momento che sua madre gli diceva sempre che era un bambino normale, Ben partecipava a tutte le attività con i suoi fratelli e i compagni di classe. Era al campeggio e aveva solo sette anni quando sperimentò una modalità inedita di muoversi.

In una maniera che nessuno può spiegare, Ben ha imparato da solo a usare l’ecolocalizzazione per identificare gli oggetti intorno a sé. Con uno schiocco della lingua, emetteva suoni che, di rimando, si trasformavano in immagini rappresentative dell’ambiente circostante. L’ecolocalizzazione è utilizzata soprattutto da alcuni mammiferi e, teoricamente, è possibile negli esseri umani ma solo pochi sono in grado di padroneggiarla. Ben si è dimostrato il più capace. Quando i medici hanno esaminato l’area del cervello attivata dall’ecolocalizzazione, hanno scoperto che l’area visiva decodificava le informazioni. Ben è stato quindi in grado di guardare di nuovo, letteralmente. Per sua madre, l’ecolocalizzazione è stata la risposta alla sua preghiera di vedere Ben felice e indipendente.

Senza mai usare il bastone per i non vedenti, Ben ha imparato a camminare, andare in bicicletta, sui rollerblade e sullo skateboard, a giocare a basket e a calcio, e ad arrampicarsi sugli alberi senza grosse difficoltà. "Il bambino più felice del mondo", come lo chiamava sua mamma quando era piccolo, non aveva perso nulla della sua curiosità, energia e buon umore. In effetti, sono state tante le volte in cui la gente non gli ha creduto quando diceva di essere cieco.

La sua straordinaria abilità lo ha reso popolare e Ben è apparso in celebri spettacoli come quelli di Oprah Winfrey e Ellen DeGeneres. Il suo messaggio è semplice ed è orientato ad aiutare e a dare una prospettiva diversa sulle possibilità illimitate delle persone con disabilità. Per sostenere gli altri in modo pratico, Ben ha preso parte a vari test organizzati da ricercatori che volevano scoprire il più possibile sulle sue capacità e sui modi in cui potevano essere acquisite.

Appassionato di videogiochi e di cultura giapponese, Ben ha iniziato a studiare in un’università in Giappone quando è ricomparso lo stesso cancro che gli aveva strappato la vista. Tra una seduta di chemioterapia e l’altra, ha continuato a partecipare a degli eventi per ispirare il prossimo. Secondo sua madre, Ben non è mai stato arrabbiato né infelice sino alla fine. Durante il suo ultimo viaggio di ritorno dall’ospedale, in auto canticchiava una canzone mentre sua madre piangeva accanto. Le ha promesso che si sarebbero rivisti, ed entrambi ci credevano con tutto il cuore.

Aquanetta racconta che una delle eredità che Ben ci ha consegnato è la capacità di vedere sempre le cose da dentro. Era in grado di percepire i sentimenti di una persona meglio di coloro che le erano attorno, perché le prestava attenzione. Quando sentiva che qualcuno non era contento del proprio aspetto, Ben diceva sempre: "Ecco cosa c’è di sbagliato nelle persone vedenti: vi guardate l’un l’altro e giudicate la vostra esteriorità”. Da questa prospettiva, il mondo sarebbe sicuramente un posto migliore se non potessimo vedere.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

Pantofole straordinarie

Pantofole straordinarie

A volte basta poco per cambiare prospettiva e affrontare le difficoltà con uno sguardo nuovo. La storia del piccolo Braden e del dono sorprendente ricevuto dalla sua mamma.

Braden Blyde – Sono stato un bambino cagionevole. Se non avessi preso un banale raffreddore, sarebbe stato qualcosa di più esotico, come la pertosse o la bronchite. 
A questo si aggiungeva una lotta costante contro l’asma. Per molti anni il mio compagno più fedele è stato un inalatore di Ventolin: era diventato naturale usarlo al primo segno di attacco.

Mi ero abituato a stare sdraiato sul divano mentre gli amici lavoravano in classe e come ogni bambino mi piaceva (ho addirittura finto almeno una o due volte). Ben presto, però, mi sono stancato di quei cartoni animati infiniti e senza senso, e il mio tempo libero si è trasformato nella tana più solitaria che si potesse immaginare.

Quando non sono più andato a scuola, i miei compagni di classe hanno imparato a non sorprendersi. Il mio soprannome “Snotty” (moccioso ndr) resiste ancora oggi. Snotty ero, e snotty sono.

Avevo appena cominciato le scuole superiori quando sono stato colpito da una diagnosi: una combinazione di mononucleosi e febbre da virus Ross River. E mi ero appena ripreso da un attacco di pertosse avuta l’anno prima. Insomma, ero all’altezza della mia fama: quando mi ammalavo, lo facevo per bene.

Il malanno mi ha reso stanco e sofferente, con un dolore incessante alle ossa e articolazioni rigide e scricchiolanti. Ancora oggi tirarsi su dal letto è come svegliarsi con un rullo di tamburi: scricchiolii, crepe e schiocchi dappertutto. Ogni giorno mi alzavo tardi la mattina in una casa vuota; mi trascinavo stancamente con la mia trapunta davanti al televisore, mi appisolavo lì, mi svegliavo per il pranzo, dormivo ancora un po’, mi alzavo per la cena e poi tornavo a letto.

Mentre i giorni diventavano settimane, guardare le lancette dell’orologio girare lentamente era troppo doloroso; quindi, il tempo era scandito dalla triste progressione della televisione durante il giorno, da Oprah (celebre conduttrice televisiva statunitense, ndr) ai film del mezzogiorno fino alle telenovele e al palinsesto iperattivo dedicato ai bambini.

I miei genitori erano al lavoro e mio fratello e tutti i miei amici a scuola. Non c’era niente che potessi fare per unirmi a loro, sempre bloccato nel mio stato di semi-veglia e sfiancato da una passeggiata sino alla cassetta della posta. La monotona routine settimanale si è trasformata in mesi. Pareva che niente potesse tirarmi fuori da questa situazione. Il tempo era l’unica terapia che qualsiasi medico potesse prescrivermi, quindi ho aspettato. Ho atteso il giorno in cui avrei potuto dare un calcio a un pallone o ridere con i miei amici.

Era un giovedì sera ventoso all’inizio dell’inverno e mia mamma era appena rientrata da una puntatina di shopping dopo il lavoro. Entrando in salotto mi ha salutato come ogni giorno con un sorriso comprensivo e un abbraccio. Si è avvicinata tenendo qualcosa di nascosto tra le mani e un sorriso la illuminava.

"Ti ho comprato una cosa" ha detto.

Uno stanco "Ohhh" mi è sfuggito dalle labbra ma non esprimeva bene la curiosità che provavo mentre la mamma svelava il suo regalo. Davanti a me c’era un paio di pantofole, le più grandi e sgargianti che avessi mai visto! A forma di zampa di leone con dei grossi artigli che spuntavano dai ditoni arancioni.

“Oh, forti!” le ho risposto rimanendo seduto, nel modo più convincente possibile. Tenevo quelle zampone tra le mani esaminando la pelliccia morbida e gli artigli curvi prima di indossarle. Era la prima volta che sorridevo da molto tempo e almeno per un istante la nuvola scura della monotonia si era diradata. Forse, dimenticai persino di essere malato.

Nei giorni seguenti le pantofole non hanno mai lasciato i miei piedi e quando lo hanno fatto si sentiva un odore di sudore stantio. Penso che questa esperienza abbia segnato l’inizio della mia strada verso il recupero. Quella che credevo fosse una malattia senza fine, ora era diventata superabile; quelli che una volta erano giorni bui e solitari, adesso erano rischiarati dalla presenza di quei nuovi amici ai miei piedi.

Sorprendentemente, nel giro di poche settimane sono rientrato a scuola e lentamente la mia vita è tornata alla normalità. Dopo molti anni, conservo ancora quelle pantofole nell’armadio. Certo, ora sono troppo piccole per i miei piedi ma mi è capitato di provare a indossarle semplicemente per ricordare quanto significassero per me.

Anche se continuo a beccarmi quel tipo particolare di raffreddore e devo stare attento alla giusta quantità di sonno, sono una persona molto più sana. Strano a dirsi le malattie non mi mancano, ma ogni volta che indosso quelle pantofole arancioni mi chiedo: “Se sono state in grado di curare me, i medici non dovrebbero prescrivere qualcosa di simile ai tanti bambini ammalati del nostro mondo?”.

(Braden Blyde è uno scrittore freelance che risiede ad Adelaide, in Australia. Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul sito web di Signs of the Times Australia/Nuova Zelanda ed è ripubblicata dietro autorizzazione).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

L’amore non si arrende

L’amore non si arrende

La commovente testimonianza di una giovane coppia che ha vissuto il dramma della malattia mano nella mano con Dio.

Andreea Irimia – L’amore, l’argomento per eccellenza. Vogliamo bene alle persone per quello che sono. Tuttavia, c’è un tipo di amore a tal punto elevato da comprendere davvero tutte le sfumature; un amore che si manifesta verso gli altri indipendentemente da chi siano o da cosa sono diventati. Un amore così esprime e racchiude in modo meraviglioso la storia di Ian e Larissa.

I due si sono conosciuti al college nel 2005. Dieci mesi furono sufficienti perché Ian si convincesse che fosse proprio lei la donna della sua vita. Erano felici insieme e si completavano a vicenda. Sapevano che questo amore non sarebbe diminuito perché avevano posto Dio al centro della loro relazione. Così, decisero di sposarsi.

Il 30 settembre 2006 è la data impressa nella memoria di Larissa perché in quel giorno cambiò definitivamente la loro vita serena e libera dai problemi. Sulla strada da casa al lavoro, Ian venne coinvolto in un grave incidente d’auto. "Abbiamo visto il nostro futuro schiantarsi con lui in quella station wagon bianca", avrebbe detto più tardi Larissa. O almeno quell’avvenire che avevano immaginato.

Ferite multiple alla testa lasciarono Ian in coma profondo, dal quale nessuno credeva che si sarebbe svegliato. I medici avevano già informato la famiglia di prepararsi per il funerale dopo che quattro esami cerebrali su cinque negarono ogni possibilità di recupero. Tuttavia, la famiglia si rifiutò di staccarlo dal respiratore, e la loro fede fu ricompensata con un miracolo. Ian si risvegliò dal coma ma non riusciva a parlare, la sua memoria a breve termine era gravemente compromessa, così come le sue capacità cognitive, e non ce la faceva nemmeno a muoversi.

Sette mesi dopo, quando Ian fu riportato a casa, Larissa si trasferì dai genitori di lui per prendersene cura. Non pensò neanche per un istante di porre fine alla loro relazione. "Allontanarmi dal mio migliore amico non è mai stata un’opzione", ha affermato. Sapeva che Ian non l’avrebbe lasciata se la situazione fosse stata ribaltata. Era ancora determinata a sposarlo se avesse riacquistato la voce. Due anni e mezzo dopo, Ian riuscì a pronunciare le sue prime parole. Poco dopo, chiese a Larissa di sposarlo.

“So che scegliere di convolare a nozze può sollevare dubbi e paure per qualcuno. Penso che una disabilità moltiplichi quei timori comuni" racconta Larissa in merito alla sua decisione di sposare Ian. Tuttavia, la paura non è stata più forte del loro amore e dell’impegno preso. Quattro anni dopo l’incidente i due furono uniti in matrimonio, accompagnati da amici e familiari. Mancava qualcuno di speciale però, una persona che era stata con loro nei momenti più difficili: il padre di Ian, morto di cancro al cervello solo pochi mesi prima.

L’amore non cancella le difficoltà. Larissa lo sa molto bene. Ha un marito che non può mai essere lasciato solo e che a sera dimentica quello che ha fatto durante il giorno. È lei che si deve occupare di tutte le faccende e dei problemi familiari. Ammette che non è facile, ma l’incoraggiamento e l’amore di Ian la risollevano ogni volta. Insieme sono riusciti a scrivere un libro in cui raccontano la loro esperienza e il meraviglioso modo in cui il loro amore si è evoluto. All’inizio del 2017, Ian ha mosso i suoi primi passi da solo. I miracoli accadono ancora nella loro vita, ma nemmeno uno equivale al miracolo dell’amore che Dio ha posto nei loro cuori e cresce ogni giorno. 

(Andreea Irimia insegna informatica e educazione tecnologica)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

L’amore non si arrende

L’amore non si arrende

La commovente testimonianza di una giovane coppia che ha vissuto il dramma della malattia mano nella mano con Dio.

Andreea Irimia – L’amore, l’argomento per eccellenza. Vogliamo bene alle persone per quello che sono. Tuttavia, c’è un tipo di amore a tal punto elevato da comprendere davvero tutte le sfumature; un amore che si manifesta verso gli altri indipendentemente da chi siano o da cosa sono diventati. Un amore così esprime e racchiude in modo meraviglioso la storia di Ian e Larissa.

I due si sono conosciuti al college nel 2005. Dieci mesi furono sufficienti perché Ian si convincesse che fosse proprio lei la donna della sua vita. Erano felici insieme e si completavano a vicenda. Sapevano che questo amore non sarebbe diminuito perché avevano posto Dio al centro della loro relazione. Così, decisero di sposarsi.

Il 30 settembre 2006 è la data impressa nella memoria di Larissa perché in quel giorno cambiò definitivamente la loro vita serena e libera dai problemi. Sulla strada da casa al lavoro, Ian venne coinvolto in un grave incidente d’auto. "Abbiamo visto il nostro futuro schiantarsi con lui in quella station wagon bianca", avrebbe detto più tardi Larissa. O almeno quell’avvenire che avevano immaginato.

Ferite multiple alla testa lasciarono Ian in coma profondo, dal quale nessuno credeva che si sarebbe svegliato. I medici avevano già informato la famiglia di prepararsi per il funerale dopo che quattro esami cerebrali su cinque negarono ogni possibilità di recupero. Tuttavia, la famiglia si rifiutò di staccarlo dal respiratore, e la loro fede fu ricompensata con un miracolo. Ian si risvegliò dal coma ma non riusciva a parlare, la sua memoria a breve termine era gravemente compromessa, così come le sue capacità cognitive, e non ce la faceva nemmeno a muoversi.

Sette mesi dopo, quando Ian fu riportato a casa, Larissa si trasferì dai genitori di lui per prendersene cura. Non pensò neanche per un istante di porre fine alla loro relazione. "Allontanarmi dal mio migliore amico non è mai stata un’opzione", ha affermato. Sapeva che Ian non l’avrebbe lasciata se la situazione fosse stata ribaltata. Era ancora determinata a sposarlo se avesse riacquistato la voce. Due anni e mezzo dopo, Ian riuscì a pronunciare le sue prime parole. Poco dopo, chiese a Larissa di sposarlo.

“So che scegliere di convolare a nozze può sollevare dubbi e paure per qualcuno. Penso che una disabilità moltiplichi quei timori comuni" racconta Larissa in merito alla sua decisione di sposare Ian. Tuttavia, la paura non è stata più forte del loro amore e dell’impegno preso. Quattro anni dopo l’incidente i due furono uniti in matrimonio, accompagnati da amici e familiari. Mancava qualcuno di speciale però, una persona che era stata con loro nei momenti più difficili: il padre di Ian, morto di cancro al cervello solo pochi mesi prima.

L’amore non cancella le difficoltà. Larissa lo sa molto bene. Ha un marito che non può mai essere lasciato solo e che a sera dimentica quello che ha fatto durante il giorno. È lei che si deve occupare di tutte le faccende e dei problemi familiari. Ammette che non è facile, ma l’incoraggiamento e l’amore di Ian la risollevano ogni volta. Insieme sono riusciti a scrivere un libro in cui raccontano la loro esperienza e il meraviglioso modo in cui il loro amore si è evoluto. All’inizio del 2017, Ian ha mosso i suoi primi passi da solo. I miracoli accadono ancora nella loro vita, ma nemmeno uno equivale al miracolo dell’amore che Dio ha posto nei loro cuori e cresce ogni giorno. 

(Andreea Irimia insegna informatica e educazione tecnologica)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

Il Dio che si prende cura di tutti i miei bisogni

Il Dio che si prende cura di tutti i miei bisogni

Indipendentemente dalla minaccia o dall’incertezza che incombe su di noi, il nostro Padre in cielo ci conduce ancora ai "pascoli erbosi" (Salmo 23:2), e la sua pace ci segue anche nelle tenebre della "valle dell’ombra della morte" (v. 4).

Carmen Lăiu – “Il mio Dio provvederà a ogni vostro bisogno, secondo la sua gloriosa ricchezza, in Cristo Gesù" (Filippesi 4:19). 
La Bibbia è piena di promesse di Dio che si prenderà cura di noi. Se guardiamo indietro al nostro passato, con i suoi momenti sereni e tempestosi, possiamo vedere la sua mano scrivere tranquillamente la nostra storia, imperturbabile dal clamore degli eventi.

Nonostante tutte le occasioni in cui abbiamo visto la bontà divina agire nella nostra vita, ci preoccupiamo ancora quando attraversiamo una "stagione delle piogge" che copre le strade che abbiamo percorso insieme. Iniziamo a inciampare, come osserva un autore cristiano, in una moltitudine di "se" e "come". 
Indipendentemente dalla minaccia o dall’incertezza che incombe su di noi, Dio ci conduce ancora ai "pascoli verdeggianti" e alle "acque calme" (Salmo 23:2), e la sua pace ci segue anche nelle tenebre della "valle dell’ombra della morte" (v. 4).

Scrivendo della necessità di affidare a Dio il futuro e qualsiasi problema che erode la nostra pace interiore, la nota autrice cristiana Ellen G. White dice: " L’ansia è cieca e non vede il futuro, ma Gesù scorge la fine sin dal principio. Ci aiuta in ogni difficoltà” – La speranza dell’uomo, p. 283.

Il Dio, che moltiplicò la farina e l’olio della vedova di Sarepta sino alla fine della siccità, che nutrì il profeta Elia usando i corvi, che fece scendere la manna dal cielo e fornì l’acqua da una roccia agli israeliti nel loro viaggio nel deserto, è lo stesso che promette di portare i nostri fardelli e soddisfare i nostri bisogni.

Vale la pena fidarsi di Dio 
In quelle mattine in cui il dolore è così acuto che anche alzarsi dal letto sembra una missione impossibile, la scrittrice cristiana Jeana Stuart – affetta da sindrome del dolore miofasciale – condivide il pensiero che deve scegliere a quali voci credere nella sua mente: quella che sussurra che la sofferenza la accompagnerà sempre e le spese mediche si accumuleranno fino a quando diventeranno insostenibili, o quella che le ricorda che Dio rimane lo stesso, indipendentemente dalle circostanze?

In un articolo incentrato sulle promesse divine, Stuart elenca la moltitudine di bisogni di cui Dio si occupa nella nostra vita quotidiana. Il Dio che fornisce cibo agli animali (cfr. Salmo 104:27; Salmo 145:15-16) si prende molta più cura dei nostri bisogni fisici: “Dunque, non state a preoccuparvi troppo, dicendo: ‘Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Come ci vestiremo?’. Sono gli altri, quelli che non conoscono Dio, a cercare sempre tutte queste cose. Il Padre vostro che è in cielo sa che avete bisogno di tutte queste cose” (Matteo 6:31-32, Tilc).

Dio ci offre una guida in tutti i nostri crocevia, così come nei giorni ordinari (cfr. Salmo 32:8), e il modo provvidenziale in cui siamo guidati si intuisce meglio quando guardiamo indietro al nostro percorso. Inoltre, Dio fornisce conforto e aiuto nella sofferenza (cfr. 2 Corinzi 1:4); forza nella tentazione (cfr. 1 Corinzi 10:13); pace in ogni circostanza (cfr. Filippesi 4:7) e salvezza (cfr. Giovanni 14:6). Uno dei più grandi doni di Dio è il riposo, ricorda Jeana Stuart, sottolineando che viverlo è strettamente legato alla fiducia in Dio, alla volontà di cedere il controllo della nostra vita al Signore.

Il segreto per il riposo perfetto risiede nell’affidamento completo, sostiene Ellen G. White, insistendo sul privilegio che abbiamo di assaggiare la gioia del cielo anche qui, nella valle del pianto: “Il cielo inizia quaggiù quando, tramite il Cristo, entriamo nel riposo. […] Il cielo si trova nell’avvicinarsi continuamente a Dio attraverso il Cristo. […] Quanto più ampia sarà la nostra conoscenza di Dio, tanto più intensa sarà la nostra felicità” – La speranza dell’uomo, p. 283.

Il pastore Garrett Kell illustra quattro modi per rafforzare la nostra fede nelle cure di Dio, in un articolo in cui cerca risposte alla domanda che spesso ci preoccupa (che la esprimiamo o meno): "Dio soddisferà i miei bisogni?". 
– Prima di tutto, dobbiamo riposare nelle promesse del Signore per noi. Se Dio non dimentica nemmeno gli uccelli del cielo, che non raccolgono, non conservano e non hanno nulla su cui fare affidamento (cfr. Matteo 6:26), di certo si prenderà cura di noi, anche se non come fa con gli altri e, forse, nemmeno nel modo in cui ci ha abituati in passato, dice Kell.

– È cruciale ricordare a noi stessi la fedeltà con cui Dio ci ha condotti in passato (condividendo questo aspetto con gli altri o forse rivedendo la nostra preghiera) perché verranno giorni in cui l’aiuto divino sembrerà essere assente. Le circostanze cambieranno, il modo in cui Dio interverrà potrebbe essere diverso da quello a cui eravamo abituati, ma la lezione che dobbiamo imparare è fidarci di lui a prescindere.

– In terzo luogo, dobbiamo essere aperti e preparati agli interventi di Dio, anche se ci possono sembrare strani o impossibili. Consideriamo il profeta biblico Elia, per esempio. Se avesse pensato a come avere da mangiare nel periodo in cui si era nascosto, probabilmente l’ultimo scenario che avrebbe considerato sarebbe stato quello in cui un angelo avrebbe preparato il suo pasto (cfr. 1 Re 19:1-8), oppure che un corvo gli avrebbe consegnato regolarmente pane e carne (cfr. 1 Re 17:2-6).

– Ultimo ma non meno importante per rafforzare la nostra fiducia in Dio, dobbiamo essere grati per le benedizioni di oggi (il "desco" che ci mette davanti), invece di concentrarci ossessivamente sulle cose di cui temiamo di poter essere privati domani.

Il Dio che vuole farsi carico di tutte le nostre preoccupazioni 
Forse la preoccupazione (insieme alla frustrazione) è uno dei peccati che consideriamo meno perché non riusciamo a vedere quanto sottilmente ci distolga da una relazione intensa con Dio. È uno di quei peccati "rispettabili", come li chiama l’autore cristiano Jerry Bridges. 
Prima di tutto, la preoccupazione tradisce la nostra mancanza di fiducia in Dio. Sappiamo che il Signore si prende cura degli uccelli, degli animali e dei gigli del campo, e ci chiede di gettare tutte le nostre ansie su di lui – “Gettando su di lui ogni vostra preoccupazione perché egli ha cura di voi" (1 Pietro 5:7) – eppure dubitiamo della sua presenza con noi nelle circostanze che temiamo. In secondo luogo, la preoccupazione rappresenta un rifiuto della provvidenza divina. Siamo distratti dalle cause immediate della situazione che ci preoccupa, ignorando il fatto che tutte le cose sono sotto il controllo di Dio.

Nell’analizzare il testo del Vangelo di Matteo 6:25-34, che affronta la questione della preoccupazione, il pastore Kevin DeYoung riflette su alcune delle ragioni per cui non dovremmo lasciare che i nostri cuori siano turbati. "L’ansia è un affronto alla gentilezza di Dio e al valore di uomini e donne fatti a sua immagine" dice il pastore, notando che dovremmo permettere agli scoiattoli e agli uccelli, fuori dalle nostre finestre, di essere i nostri predicatori ogni volta che il futuro ci sconvolge.

Alcuni cristiani si preoccupano così tanto che vivono come se Dio non esistesse e devono tenere strettamente in mano le redini della loro vita. Questo è paganesimo, sostiene DeYoung senza mezzi termini, ricordandoci che Dio promette di donare non necessariamente abbondanza, ma ciò che ci serve per vivere finché sussiste il suo piano per noi. Vale la pena sottolinearlo ancora di più, perché Dio non ci ha nascosto il fatto che fino a quando il peccato non sarà sradicato, i cristiani vivranno gli stessi problemi di coloro che lo rifiutano e potrebbero anche essere perseguitati e uccisi per la loro fede.

Dio ci offre la grazia oggi solo per i problemi e le sfide del momento, non per quello che accadrà domani. Tuttavia, la nostra pace (o la sua mancanza) deriverà dalle cose per cui viviamo, dice DeYoung. Se lo scopo della nostra vita consisterà nella comodità, nell’aspetto fisico, nella carriera (o in qualsiasi altro aspetto temporale), allora la nostra preoccupazione avrà motivo di esistere. Ma se viviamo per il regno che sta arrivando, allora abbiamo la certezza che riceveremo il meglio che desideriamo.

Fino a quel giorno, il cuore del Padre ci sosterrà con tutto ciò di cui sa che necessitiamo, perché è il Dio per il quale non solo tutte le nazioni sono "come il pulviscolo sulla bilancia" (Isaia 40:15, Cei), ma anche colui che veglia teneramente su un fragile passerotto che cade senza che nessun altro se ne preoccupi (cfr. Matteo 10:29).

(Carmen Lăiu è redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

 

La felicità lasciata alle spalle

La felicità lasciata alle spalle

Un nuovo vestito, una nuova macchina, una nuova casa… Offrono alcuni momenti di soddisfazione e una lunga serie di rimpianti per ciò che non possiamo possedere. La vera felicità risiede altrove, nell’amore di Dio.

Norel Iacob – “Una vita calma e modesta porta più felicità della ricerca del successo combinata con una costante irrequietezza”. Questa frase fu scritta in tedesco da Albert Einstein su una banconota data come mancia a un corriere giapponese nel 1922, poco dopo aver saputo di essere stato insignito del premio Nobel.

Nell’ottobre 2017, la banconota è stata messa all’asta e ha raggiunto l’incredibile cifra di 1,56 milioni di dollari, ma la filosofia di Einstein sulla felicità non è mai stata così tanto apprezzata. Questo perché va contro una tendenza da tutti manifestata e risalente a Adamo ed Eva: il fascino costante di voler essere qualcosa che non siamo o di avere ciò che non possediamo. È la droga più antica della storia umana e crea una dipendenza praticamente universale.

L’ironia sta nel fatto che nel nostro intimo passiamo gran parte della vita credendo a qualcosa di diverso, o almeno sospettandolo, anche quando riconosciamo pubblicamente la saggezza di Einstein. E ciò spiega perché, nonostante tutto quello che abbiamo scoperto o vissuto, prima o poi torniamo a quella dipendenza originaria e infelice.

La perfidia di questa dipendenza risiede nella trasformazione di un desiderio naturale e lodevole di crescita e di sviluppo in una pulsione che lega perennemente la nostra felicità al passo successivo. L’ideale umano include intrinsecamente la ricerca dell’eccellenza, ma per ragioni completamente diverse. La Bibbia lo riassume così: “Siate santi, perché io sono santo” (1 Pietro 1:16; cfr. Matteo 5:48). In altre parole, Dio ha sempre voluto che gli esseri umani fossero come lui; li ha creati in questo modo e voleva che rimanessero così per l’eternità. Sorprende, quindi, che il diavolo sia riuscito a convincere i nostri progenitori di non essere come Dio bensì mancanti di qualcosa per raggiungere quello status; qualcosa che avrebbero ottenuto addentando un frutto proibito. Il ridicolo della situazione può essere riassunto così: qualcuno, a cui Dio aveva rivelato e messo a disposizione tutto ciò che era necessario per la felicità, è stato convinto da un altro di aver bisogno di qualcosa di più.

Questo meccanismo di manipolazione è ben noto nello studio della pubblicità. Poiché abbiamo un limitato bisogno di beni, a livello pratico, le aziende si impegnano creare nuove esigenze per noi. Bisogni che devono essere soddisfatti dai loro prodotti. L’inutilità, come diceva Einstein, sta nel fatto che questa giostra ci sospinge del continuo alla ricerca della felicità ma non mantiene davvero le sue promesse. È ciò che la Bibbia definisce chiaramente “un correre dietro al vento” (Ecclesiaste 1:17).

Quindi, nonostante gli acquisti compulsivi, rimaniamo depressi. I momenti di felicità che accompagnano un nuovo acquisto non fanno altro che allargare l’abisso del bisogno di avere di più. Un nuovo vestito, una nuova macchina, una nuova casa offrono alcuni momenti o giorni di soddisfazione e una lunga serie di rimpianti per ciò che non possiamo avere.

Allo stesso tempo, mangiare meno e in modo frugale, guadagnare di meno e possedere meno oggetti sono visti spesso come dettagli di un quadro noioso e monocromatico. Mentre la semplicità costosa è una tendenza di moda, la semplicità economica e facilmente raggiungibile è generalmente considerata vergognosa, un segno di debolezza e incapacità.

Ma se hanno ragione Einstein e tanti altri che pensavano e parlavano come lui, allora la semplicità ha il potere di costruire una casa per la felicità.

Il bello è che la semplicità non ha una formula unica. Non è uniforme. Può assumere tante fogge quanti sono gli individui ed è per questo che svaluta la concorrenza. La sua essenza rimane la stessa, e questo non significa sacrificio o sopravvivenza, ma spogliazione di tutto ciò che è gravoso o nasce dall’ingannevole bisogno di avere di più, di apparire più ricco o più potente. Si tratta di mettere da parte tutto ciò che ha un valore creato artificialmente per vedere ciò che conta intrinsecamente, dimenticando gli oggetti che richiedono adorazione per fare spazio a quelli che servono senza schiavizzare. La semplicità agisce sulle nostre menti e sui nostri cuori proprio come la natura ripristina un ecosistema dopo che cessa l’intervento umano. Inoltre, la semplicità regala tempo. In assenza di elementi ridondanti, riscopriamo l’essenziale: le persone, la bellezza delle relazioni, il potere trasformativo dell’amore e la semplicità della ricetta per la felicità.

Il Sabato biblico, vissuto come suggerisce la Scrittura stessa e non secondo le tradizioni umane che ne hanno snaturato l’essenza, incarna la semplicità e i suoi benefici. Il Dio che ha creato gli esseri umani a sua immagine li invita a una celebrazione settimanale della loro relazione; è un momento di completo recupero e riconnessione, un’opportunità per ricaricare e riaffermare le convinzioni e i sentimenti che alimentano una vita equilibrata, sana e appagante. In realtà, non abbiamo bisogno di più oggetti o risultati. Abbiamo bisogno di più fiducia, pace, amore e scopo. Non si tratta di inseguire disperatamente la felicità, ma di fermarsi e di stabilirsi con soddisfazione nel luogo in cui risiede la felicità.

E la felicità, come i fiocchi di neve così leggeri da non posarsi su chi è in movimento, cade su chi, pur essendo in movimento, in realtà si è fermato.

(Norel Iacob è direttore di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

Hai dei doni, che tu lo sappia o no

Hai dei doni, che tu lo sappia o no

Ogni persona, con i propri talenti, è come un piccolo pezzo dell’immenso puzzle di Dio. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poterlo sperimentare.

Karen Holford – C’è qualcosa su un tavolo enorme. È un grande quadro. Ti avvicini e vedi che il disegno è composto da singoli pezzi, come un puzzle. Ma lo schema è insolito. Non è un’immagine che riconosci, come una montagna svizzera o un mazzo di tulipani e, mentre ti concentri sui dettagli, noti che il modello si muove e cambia costantemente in modo quasi impercettibile.

I minuscoli pezzi sono collegati da un’intricata rete di attività, come il sistema nervoso, i vasi sanguigni, i muscoli del corpo e, al centro del disegno, c’è un cuore che brilla di pura luce, pulsando fresche forniture d’amore attraverso le arterie, le vene e i capillari. I muscoli si muovono e i nervi trasmettono messaggi. Tutto funziona insieme. Ogni pezzo è vitale.

Ora immagina che a tutti coloro che seguono Gesù sia stato dato almeno un pezzo di questo puzzle. Insieme, creiamo un’immagine del carattere di Dio, del suo amore straordinario, gentile, premuroso e generoso. Quando tutti i frammenti sono intrecciati, creano qualcosa di molto più incredibile di quanto potrebbero fare da soli.

Ma ora immagina che manchino alcuni pezzi. Se qualcuno nasconde il proprio pezzo, lo perde, non si preoccupa di utilizzarlo o lo tiene in tasca, quella meravigliosa immagine sarà rovinata e gli altri pezzi dovranno essere aggiustati affinché il flusso dell’amore di Dio sia ininterrotto. Per i pezzi isolati è più difficile riflettere il carattere di Dio.

Sperimentare Dio 
Questo incredibile puzzle è una metafora dell’interconnessione che hanno i discepoli di Gesù. Nessuna persona può riflettere perfettamente il carattere di Dio perché siamo tutti imperfetti. Ancora più importante: nessuno di noi da solo può riflettere Dio perché il suo amore si sperimenta nelle relazioni. Il carattere di Dio si rivela perfettamente nella misteriosa collaborazione tra Dio Padre, Gesù Figlio e lo Spirito Santo.

Inoltre, l’amore può essere sperimentato solo quando è messo in azione. Dio ci ha creato per vivere in relazioni – famiglia, chiesa e comunità – perché sa che non è bene per noi essere soli. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poter sperimentare l’amore di Dio con braccia, orecchie e voci umane. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poter vivere l’amore del Signore che fluisce da loro a noi e da noi a loro. Ogni cristiano è come un piccolo pezzo del puzzle che aiuta gli altri a conoscere maggiormente il carattere di Dio.

Utilizzare i doni spirituali 
I doni spirituali sono i doni speciali che Dio ci fa quando scegliamo di appartenere alla sua famiglia. È come se tirasse fuori dalla scatola l’enorme puzzle del suo amore – compreso tutte le cose che fa per noi aiutandoci, insegnandoci e guidandoci – e lo dividesse in piccoli pezzi che gli esseri umani possono gestire più facilmente. Poi li distribuisce per adattarli alla nostra situazione di vita, alle nostre preferenze personali, alle cose che ci portano gioia, ai bisogni delle nostre comunità, ai nostri talenti naturali e alle abilità che abbiamo imparato.

Non possiamo vedere come Dio distribuisce questi doni, ma Egli vede sempre il quadro generale in continua evoluzione. Tiene gli occhi puntati su ciascuno di noi, su ciascuna chiesa e comunità, e mescola continuamente i suoi doni spirituali per creare la più grande rete di benedizioni per il mondo intero. Il modo in cui Dio gestisce il tutto va oltre la mia comprensione, ma non ho bisogno di sapere come funziona; devo solo assicurarmi che il mio tassello del puzzle sia vibrante e in crescita.

Il mio pezzo del puzzle 
Avevo sei anni quando sapevo di voler diventare una scrittrice e otto quando un pezzo fu pubblicato sul nostro giornale locale. All’inizio, scrivere era semplicemente qualcosa che mi piaceva. Poi ho pensato che, forse, era un talento che Dio mi aveva donato. Quando ho saputo dei doni spirituali, non ho visto quello della "scrittura" negli elenchi della Bibbia (Romani 12; 1 Corinzi 12; Efesini 4), ma alcuni dei momenti più sorprendenti della mia vita sono accaduti quando mi è stato chiesto di scrivere su un argomento che non mi era mai passato per la mente prima.

Mi siedo davanti al mio portatile, senza parole, senza sapere da dove cominciare o cosa dire. Tutto quello che posso fare è pregare, chiedendo a Dio di mostrarmi ciò che vuole che scriva, aprendomi per essere un canale del suo amore per il mondo. E poi arrivano le parole, fluiscono le idee e so che quello che scrivo viene totalmente da Lui. L’esperienza va oltre le parole. Oggi, scrivere è il mio talento e il mio lavoro, e i miei momenti preferiti sono quando so che Dio sta usando la mia scrittura come suo dono spirituale nella mia vita.

Il tuo pezzo del puzzle 
Puoi cercare su Internet vari questionari che ti aiutino a identificare i tuoi doni spirituali. A volte i nomi biblici di questi doni possono creare confusione perché sono termini generici che descrivono una gamma di talenti e potresti non essere del tutto sicuro di dove collocarti. Quindi, come puoi saperlo?

Se sei già un discepolo di Gesù, pensa a quello che fai solo perché ami Dio e vuoi aiutare gli altri a sperimentare il suo amore. Pensa alle volte in cui hai provato la sensazione pacifica e gioiosa di fare proprio ciò per cui Dio ti ha creato. Pensa a quelle volte in cui ti sei sentito realizzato, quando hai avuto la sensazione di essere adoperato da Dio al 100% e la consapevolezza che stavi “vivendo il tuo scopo” attraverso ogni centimetro del tuo essere. È in quei momenti di pura ispirazione connessa che puoi veramente scoprire i tuoi doni spirituali.

Se non sei un seguace di Gesù, c’è una buona notizia: se scegli di diventare cristiano, Dio ti aiuterà a scoprire i tuoi doni. Forse, intuitivamente, sai già cosa sono. Sono le cose che ti rendono felice quando le usi e le altre persone si sentono benedette quando lo fai. Più usi i tuoi doni, più forti saranno.

Una volta identificati i modi in cui condividi l’amore di Dio con gli altri, inizierai a vedere dove si inseriscono in una delle categorie bibliche dei doni spirituali. Tuttavia, potrebbero emergere altri doni che non rientrano perfettamente in questo elenco originale, come i doni della comunicazione, del design grafico, della musica, dell’arte, della gestione delle crisi, del soccorso in caso di calamità, della risoluzione dei conflitti, della consulenza e sì, della scrittura! Quando l’apostolo Paolo scrisse ai cristiani di Roma, Corinto ed Efeso, il suo elenco di doni spirituali era diverso, quindi, sono suggerimenti piuttosto che un elenco vincolante di dettagli.

Forse il modo migliore per assicurarti che i tuoi pezzi si inseriscano nel puzzle di Dio è lasciare che Egli riveli il suo carattere a te e attraverso di te. Può utilizzarti per creare un quadro chiaro del suo amore in un mondo confuso e sofferente. 

(Karen Holford, terapista familiare, è la direttrice dei Dipartimenti Ministeri in favore dei Bambini, Ministeri Femminili e Ministeri della Famiglia presso la Regione transeuropea della Chiesa avventista)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

Compie 35 anni la legge 516

Compie 35 anni la legge 516

Regola i rapporti tra lo Stato e la chiesa avventista.

Lina Ferrara – Oggi ricordiamo un anniversario importante per la chiesa avventista in Italia. Compie 35 anni la legge 22 novembre 1988, n. 516 che, con i suoi 38 articoli, regola i rapporti tra lo Stato italiano e la denominazione. Ne parliamo con Davide Romano, responsabile del Dipartimento Affari Pubblici e Libertà Religiosa dell’Unione italiana (Uicca) e direttore dell’Istituto avventista “Villa Aurora” di Firenze.

Lina Ferrara: Puoi dirci brevemente come è nata la legge 22 novembre 1988 n. 516? 
Davide Romano: La legge di intesa è nata dopo una lunga e travagliata gestazione. Se è nota a molti la battaglia per la piena attuazione dei principi proclamati nella Carta costituzionale, non molti sanno che proprio l’attuazione dell’art. 8 co. 3 della Costituzione fu tra quelli che maggiormente ebbero bisogno di una lunga metabolizzazione politica. Si giunse così intorno alla metà degli anni ‘80 alle prime intese con i valdesi, gli avventisti e le Assemblee di Dio, nel quadro di una contemporanea revisione del concordato con la Santa sede e al culmine di un intenso lavoro di sensibilizzazione politica che le minoranze evangeliche, con un indubbio protagonismo della nostra chiesa e della chiesa valdese, seppero promuovere.

L. F.: Cosa pensi in generale di questa legge? 
D. R.: Beh, ogni legge è migliorabile, se il quadro politico lo consente. Oggi, alla luce dell’esperienza accumulata in sede applicativa e giurisprudenziale alcuni emendamenti agli artt. 14 e 17 li suggerirei. Negli anni alcune piccole modifiche sono già state introdotte. Oggi siamo alle prese con nuove istanze che richiedono, appunto, ulteriori integrazioni.

L. F.: Cosa ha significato per la chiesa avventista? 
D. R.: Direi che non solo per la chiesa avventista ma per tutte le minoranze religiose presenti nel nostro Paese, la legge di intesa ha rappresentato un prezioso strumento di attuazione formale della Costituzione e ha permesso loro di uscire da un cono d’ombra cui erano state relegate a causa della soverchiante centralità della chiesa cattolica romana.
Se penso nello specifico a noi avventisti non posso non constatare come la fruizione del riposo sabatico nelle scuole e nell’ambito lavorativo, pur con persistenti criticità, e il pieno e automatico riconoscimento dei ministri di culto hanno permesso alla nostra chiesa di svolgere la propria missione di annuncio del vangelo con pienezza di prerogative.

L. F.: Nel 2009 è intervenuta una modifica che riguarda l’Istituto avventista, di cui sei attualmente il direttore. Ce ne puoi parlare? 
D. R.: La modifica ha riguardato il riconoscimento giuridico dei titoli di laurea rilasciati dall’Istituto avventista di Firenze per il tramite della sua Facoltà di teologia. Si è trattato di un passaggio importante che ha finalmente reso giustizia alla caratura accademica degli studi condotti presso la Facoltà “Villa Aurora”.
Oggi siamo alle prese con ulteriori integrazioni di quel riconoscimento relativamente ai titoli di dottorato, che speriamo possano giungere a compimento.

L. F.: Da oltre tre decenni, noi avventisti godiamo di questa legge. Cosa ne è delle altre confessioni? Possiamo fare qualcosa? 
D. R.: La chiesa avventista ha, come dire, nel suo Dna, la vocazione a difendere la libertà religiosa e di culto di tutte le fedi. Chi rivendica diritti solo per sé, nuoce alla causa dei diritti umani. Siamo dunque già impegnati a far sì che altre chiese e altre religioni ottengano ciò che la nostra Costituzione garantisce loro agli artt. 3, 8, 19 e 20.

Nel frattempo, occorre riconoscere che il quadro religioso, sociale e politico è oggi profondamente mutato. Il meccanismo delle intese, che rappresentava nel 1946 (quando si discuteva della Costituzione) una declinazione miniaturizzata del modello pattizio tra Stato e chiesa cattolica ribadito all’art. 7, mal si concilia con l’estrema pluralità del fenomeno religioso nel nostro Paese, per un verso, e con la crisi dei grandi partiti politici ideologicamente radicati, per un altro verso.

Urge, ormai da molti anni, una legge quadro che salvi le intese e ne specifichi meglio l’iter, ma che garantisca, nel contempo, un livello accettabile di certezza giuridica a tutte le confessioni religiose (o non religiose) anche senza intesa. Questo traguardo è parso vicino negli anni ’90 e soprattutto nel primo decennio del nuovo secolo, ed è sempre sfumato per un soffio. Oggi sembra, per molti motivi, allontanarsi. Ma non possiamo permetterci riluttanze e cedimenti senza che la fede e le coscienze di milioni di persone vengano violate. Occorrerà dunque nuova passione e nuovo slancio per essere presenti nello spazio pubblico e nell’agone politico con una propria proposta di libertà e un profilo riconoscibile.

Luci e ombre nel nostro mondo di parole

Luci e ombre nel nostro mondo di parole

Anche se intangibili e apparentemente fragili, le parole modellano la nostra visione del mondo, della vita e di noi stessi. Diventando un balsamo o un’arma che ferisce mente e corpo.

Carmen Lăiu – “Le parole sono senza dubbio la droga più potente usata dall’umanità” (Rudyard Kipling). “Esprimersi male non è solo difettoso per quanto riguarda la lingua, ma crea danni all’anima”, diceva Platone. Basandosi su questa riflessione, Gabriel Liiceanu sottolinea l’importanza di un discorso corretto ed elegante, sostenendo che la corruzione del linguaggio (un bene comune che non appartiene solo a noi) porti al disprezzo di altre regole su cui è costruita la società. In definitiva, il filosofo sostiene che: “L’esigenza del rigore sarà bandita dalle nostre anime e tutte le successive convenzioni della vita ricadranno nello schema del ‘va bene qualsiasi cosa’”.

Esprimersi correttamente non è un semplice capriccio. Dovremmo tutti preoccuparci di conoscere le corrette norme del discorso (e della scrittura). Ma perché non trattiamo con lo stesso zelo l’impiego positivo delle parole? Coloro che ci circondano hanno bisogno di comprensione, apprezzamento, incoraggiamento e, quando possibile, di un riscontro positivo. Forse possediamo un vocabolario ricco e sfumato, ma quanto siamo consapevoli, quando parliamo, che le nostre parole possono essere un balsamo per l’anima o un’arma con cui feriamo?

Sappiamo per esperienza quanto sia sorprendente il potere delle parole, anche quando esse sembrano volatili. Le parole possono far rivivere teneramente i bei giorni; cancellare i dolori incisi nel cuore e riempire di luce i momenti scuri di una giornata. Ma possono frantumare altrettanto facilmente la tranquillità dell’anima, con il loro passo pesante, spazzando via la gioia di un momento e avendo il potere di deviare una persona dal suo percorso e di condannarla a brancolare nel buio.

Ci si parla con termini di vari tipi: parole di benedizione, parole di guarigione, parole pungenti, parole memorabili e non poche parole pesanti. Visto l’impatto di questa ragnatela di parole che ci avvolge l’un l’altro, dovremmo pesare attentamente ciò che diciamo agli altri (e anche a noi stessi).

Parole che ci guariscono
“Il dolore è l’habitat ideale per la crescita delle preoccupazioni” affermano gli autori di uno studio del 2007 che esamina la connessione tra il dolore cronico e la preoccupazione.
Basandosi su questa associazione, i ricercatori David Hauser e Norbert Schwarz hanno condotto una nuova ricerca nel 2016 in cui hanno evidenziato la sensibilità dei pazienti alle parole che in genere hanno un significato neutro. Quando interpretavano un referto medico ambiguo, i partecipanti allo studio tendevano a vederlo negativamente se il medico usava i verbi “causare” o “scatenare”, e positivamente se il verbo scelto era “produrre”. In un nuovo contesto, le persone tendono a trasferire significato tra le parole (alcune con connotazione positiva diventano negative e viceversa, a causa dell’uso frequente di questi termini in contesti positivi o negativi). I ricercatori chiamano questo fenomeno “prosodia semantica”.

In un articolo pubblicato nel 2018 sul Journal of Orthopaedic & Sports Physical Therapy, Hauser e Schwarz raccomandano agli operatori sanitari di usare, se possibile, frasi e parole che non enfatizzano l’idea di sofferenza e disagio quando si discute di procedure di recupero medico.

“Nella riabilitazione muscoloscheletrica, dovremmo rimanere sempre vigili su come le nostre parole possono essere interpretate” affermano gli autori, sottolineando che, mentre “gli esseri umani sono costituiti da muscoli, ossa e tessuti, (…) le parole che usiamo in terapia possono avere una profonda influenza su come le persone sentono i loro corpi e su come interpretano ciò che stanno vivendo”. Riferendosi a studi che mostrano come i fattori psicologici siano migliori indicatori di disabilità e livelli di dolore rispetto a quelli patologici, i due professori notano che ignorare i fattori psicologici può influenzare il processo di recupero dei pazienti. Le parole scelte dai medici hanno il potenziale per guarire o causare danni significativi, dicono Hauser e Schwarz. “Come le droghe, le parole hanno la capacità di cambiare il modo in cui un’altra persona pensa e sente” evidenziano i ricercatori.

L’incoraggiamento verbale ha migliorato le prestazioni in un test di equilibrio, secondo uno studio del 2021. I partecipanti alla ricerca, degli atleti dilettanti, sono stati selezionati tra gli studenti di un’università statale e divisi in due gruppi: soggetti sani e quelli che soffrivano di instabilità cronica della caviglia.

Lo studio ha rivelato che, nei testi di equilibrio, le prestazioni degli studenti con instabilità cronica della caviglia sono aumentate con l’incoraggiamento verbale (frasi come: “Dai, dai, dai!” o “Vai il più lontano possibile!”), mentre quelle dei soggetti sani sono rimaste invariate. I dati delle ricerche precedenti mostrano che le distorsioni della caviglia sono uno degli infortuni più comuni tra gli atleti e gli individui con queste lesioni hanno spesso difficoltà a recuperare il livello di funzionalità pre-infortunio e sperimentano più recidive.

Inoltre, il 40% di questi individui sviluppa instabilità cronica della caviglia. Altri studi hanno evidenziato la paura del movimento nei pazienti con instabilità cronica della caviglia, così come il fatto che lo stress peggiora l’instabilità posturale. Pertanto, gli autori dello studio del 2021 hanno concluso che l’incoraggiamento verbale ha aiutato gli studenti con questa condizione ad aumentare l’autostima e a controllare la loro paura.

Mentre gli allenatori o i tifosi usano, a volte, le critiche e i rimproveri per alimentare l’ambizione degli atleti,  è l’incoraggiamento che aumenta la motivazione e porta a risultati migliori. In uno studio condotto dall’Università dell’Essex, il dott. Paul Freeman ha fornito assistenza ai giocatori di golf ascoltando le loro preoccupazioni e offrendo incoraggiamento e rassicurazioni che tutto sarebbe andato bene prima delle competizioni sportive. Le prestazioni dei giocatori sono migliorate, in media, di 1,78 colpi per round, un risultato significativo per uno sport competitivo. Freeman ha dichiarato che i risultati dello studio sono rivelatori degli effetti del sostegno sociale, dato l’impatto che il supporto di uno sconosciuto ha avuto sulle prestazioni sportive.

Proprio come con le parole giuste, l’effetto di quelle negative può essere immediatamente evidente, ma spesso non ci rendiamo conto del loro impatto a lungo termine. Anche se intangibili e apparentemente fragili, le parole modellano la nostra visione del mondo, della vita e di noi stessi e, in giovane età, possono agire come uno scalpello che scolpisce letteralmente il nostro cervello.

Parole che ci paralizzano 
Anche un breve sguardo, solo per pochi secondi, a una lista di parole negative può peggiorare l’umore di una persona ansiosa o depressa. Se l’assalto dei pensieri negativi non viene fermato, può influenzare le strutture cognitive che regolano la memoria, le emozioni e i sentimenti.

Le parole negative possono dare origine a pregiudizi fin dalla tenera età, dice un recente studio che ha coinvolto bambini dai 4 ai 9 anni. I bimbi sono stati divisi in gruppi più piccoli e impegnati in un’attività. A un certo punto, un adulto nella stanza ha partecipato a una videochiamata in cui parlava di un gruppo immaginario di persone (denominato Flurps o Gearoos). Mentre alcuni gruppi di bambini non sono stati esposti a messaggi negativi su questi personaggi di fantasia, altri hanno ascoltato descrizioni negative su di loro (sono persone cattive, parlano male, indossano abiti strani e hanno una dieta disgustosa).

I bambini esposti a questa conversazione hanno mostrato atteggiamenti significativamente più negativi nei confronti del gruppo fittizio subito dopo aver assistito alla conversazione, così come due settimane dopo l’esperimento. Questo effetto era più pronunciato nei bambini tra i 7 e i 9 anni, ma trascurabile per quelli della fascia di età 4-5. La coordinatrice dello studio, Emily Conder, ha ammesso di non conoscere la spiegazione di queste differenze nella formazione dei pregiudizi, ma ha suggerito che potrebbe essere dovuto ai tempi di attenzione più brevi e alla ridotta capacità di assorbimento delle informazioni nei bambini piccoli.

Quando un bambino non è solo esposto a messaggi negativi e aggressivi, ma ne diventa anche il bersaglio, i danni a lungo termine possono essere notevoli. Il professore di psichiatria Martin Teicher ha condotto diversi studi che evidenziano le conseguenze fisiche ed emotive dell’abuso verbale.

Una ricerca ha scoperto che l’aggressione verbale è associata a sintomi psichiatrici e che gli effetti sullo sviluppo del bambino sono più gravi di quelli che si hanno crescendo in una famiglia con violenza domestica. I ricercatori hanno anche scoperto che l’abuso verbale ha effetti paragonabili a quelli dell’abuso sessuale.

L’esposizione ad abusi verbali da parte di coetanei è stata anche collegata a un rischio più elevato di sintomi psichiatrici. Gli effetti più dannosi sono stati osservati durante gli anni delle scuole medie: le molestie verbali hanno portato a cambiamenti nella materia bianca del cervello.

L’aggressività verbale può essere minimizzata rispetto ad altre forme di aggressione, ma non dovrebbe mai essere trattata con leggerezza, sostiene il professore di psichiatria Martin Teicher, sottolineando che le esperienze che attraversiamo modellano letteralmente il nostro cervello, un organo altamente adattabile.

Nel caso delle donne che hanno subito violenza domestica (quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama “violenza intima del partner”), gli studi hanno rilevato una forte associazione tra violenza verbale e depressione.

Per mantenere una relazione sentimentale armoniosa, lo psicologo John Gottman suggerisce che ci vogliano cinque interazioni positive per ogni negativa. Una singola interazione positiva non è sufficiente per contrastare una negativa; quindi, un rapporto 1 a 1 indica che la relazione è in pericolo. La ricerca di Gottman ha dimostrato che le relazioni coniugali possono essere gravemente danneggiate dalle critiche (così come dalla difensiva, dal disprezzo e dal muro contro muro) e che l’80% delle coppie che tollerano questi comportamenti è a rischio di divorzio.

Il nostro linguaggio quotidiano rivela più della semplice categoria socioeconomica a cui apparteniamo. Racconta delle nostre motivazioni, delle ferite radicate dentro di noi, dei modelli di comunicazione ereditati e dello sforzo che abbiamo (o non abbiamo) fatto per domare le nostre parole. E, in definitiva, svela la salute della nostra anima.

Se siamo già ben addentro nel labirinto della critica e del sarcasmo, se respiriamo con gusto il profumo delle parole rabbiose o scoraggianti, se ci cibiamo al banchetto tossico dei pettegolezzi, forse non dovremmo essere così preoccupati per gli additivi alimentari o l’eccesso di sale e zucchero.

Per avere uno stile di vita veramente sano, dovremmo pensare e parlare in un modo che non ci faccia vergognare di tutte le 16.000 parole che pronunciamo in un solo giorno.

(Carmen Lăiu è redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

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