La felicità lasciata alle spalle

La felicità lasciata alle spalle

Un nuovo vestito, una nuova macchina, una nuova casa… Offrono alcuni momenti di soddisfazione e una lunga serie di rimpianti per ciò che non possiamo possedere. La vera felicità risiede altrove, nell’amore di Dio.

Norel Iacob – “Una vita calma e modesta porta più felicità della ricerca del successo combinata con una costante irrequietezza”. Questa frase fu scritta in tedesco da Albert Einstein su una banconota data come mancia a un corriere giapponese nel 1922, poco dopo aver saputo di essere stato insignito del premio Nobel.

Nell’ottobre 2017, la banconota è stata messa all’asta e ha raggiunto l’incredibile cifra di 1,56 milioni di dollari, ma la filosofia di Einstein sulla felicità non è mai stata così tanto apprezzata. Questo perché va contro una tendenza da tutti manifestata e risalente a Adamo ed Eva: il fascino costante di voler essere qualcosa che non siamo o di avere ciò che non possediamo. È la droga più antica della storia umana e crea una dipendenza praticamente universale.

L’ironia sta nel fatto che nel nostro intimo passiamo gran parte della vita credendo a qualcosa di diverso, o almeno sospettandolo, anche quando riconosciamo pubblicamente la saggezza di Einstein. E ciò spiega perché, nonostante tutto quello che abbiamo scoperto o vissuto, prima o poi torniamo a quella dipendenza originaria e infelice.

La perfidia di questa dipendenza risiede nella trasformazione di un desiderio naturale e lodevole di crescita e di sviluppo in una pulsione che lega perennemente la nostra felicità al passo successivo. L’ideale umano include intrinsecamente la ricerca dell’eccellenza, ma per ragioni completamente diverse. La Bibbia lo riassume così: “Siate santi, perché io sono santo” (1 Pietro 1:16; cfr. Matteo 5:48). In altre parole, Dio ha sempre voluto che gli esseri umani fossero come lui; li ha creati in questo modo e voleva che rimanessero così per l’eternità. Sorprende, quindi, che il diavolo sia riuscito a convincere i nostri progenitori di non essere come Dio bensì mancanti di qualcosa per raggiungere quello status; qualcosa che avrebbero ottenuto addentando un frutto proibito. Il ridicolo della situazione può essere riassunto così: qualcuno, a cui Dio aveva rivelato e messo a disposizione tutto ciò che era necessario per la felicità, è stato convinto da un altro di aver bisogno di qualcosa di più.

Questo meccanismo di manipolazione è ben noto nello studio della pubblicità. Poiché abbiamo un limitato bisogno di beni, a livello pratico, le aziende si impegnano creare nuove esigenze per noi. Bisogni che devono essere soddisfatti dai loro prodotti. L’inutilità, come diceva Einstein, sta nel fatto che questa giostra ci sospinge del continuo alla ricerca della felicità ma non mantiene davvero le sue promesse. È ciò che la Bibbia definisce chiaramente “un correre dietro al vento” (Ecclesiaste 1:17).

Quindi, nonostante gli acquisti compulsivi, rimaniamo depressi. I momenti di felicità che accompagnano un nuovo acquisto non fanno altro che allargare l’abisso del bisogno di avere di più. Un nuovo vestito, una nuova macchina, una nuova casa offrono alcuni momenti o giorni di soddisfazione e una lunga serie di rimpianti per ciò che non possiamo avere.

Allo stesso tempo, mangiare meno e in modo frugale, guadagnare di meno e possedere meno oggetti sono visti spesso come dettagli di un quadro noioso e monocromatico. Mentre la semplicità costosa è una tendenza di moda, la semplicità economica e facilmente raggiungibile è generalmente considerata vergognosa, un segno di debolezza e incapacità.

Ma se hanno ragione Einstein e tanti altri che pensavano e parlavano come lui, allora la semplicità ha il potere di costruire una casa per la felicità.

Il bello è che la semplicità non ha una formula unica. Non è uniforme. Può assumere tante fogge quanti sono gli individui ed è per questo che svaluta la concorrenza. La sua essenza rimane la stessa, e questo non significa sacrificio o sopravvivenza, ma spogliazione di tutto ciò che è gravoso o nasce dall’ingannevole bisogno di avere di più, di apparire più ricco o più potente. Si tratta di mettere da parte tutto ciò che ha un valore creato artificialmente per vedere ciò che conta intrinsecamente, dimenticando gli oggetti che richiedono adorazione per fare spazio a quelli che servono senza schiavizzare. La semplicità agisce sulle nostre menti e sui nostri cuori proprio come la natura ripristina un ecosistema dopo che cessa l’intervento umano. Inoltre, la semplicità regala tempo. In assenza di elementi ridondanti, riscopriamo l’essenziale: le persone, la bellezza delle relazioni, il potere trasformativo dell’amore e la semplicità della ricetta per la felicità.

Il Sabato biblico, vissuto come suggerisce la Scrittura stessa e non secondo le tradizioni umane che ne hanno snaturato l’essenza, incarna la semplicità e i suoi benefici. Il Dio che ha creato gli esseri umani a sua immagine li invita a una celebrazione settimanale della loro relazione; è un momento di completo recupero e riconnessione, un’opportunità per ricaricare e riaffermare le convinzioni e i sentimenti che alimentano una vita equilibrata, sana e appagante. In realtà, non abbiamo bisogno di più oggetti o risultati. Abbiamo bisogno di più fiducia, pace, amore e scopo. Non si tratta di inseguire disperatamente la felicità, ma di fermarsi e di stabilirsi con soddisfazione nel luogo in cui risiede la felicità.

E la felicità, come i fiocchi di neve così leggeri da non posarsi su chi è in movimento, cade su chi, pur essendo in movimento, in realtà si è fermato.

(Norel Iacob è direttore di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

Hai dei doni, che tu lo sappia o no

Hai dei doni, che tu lo sappia o no

Ogni persona, con i propri talenti, è come un piccolo pezzo dell’immenso puzzle di Dio. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poterlo sperimentare.

Karen Holford – C’è qualcosa su un tavolo enorme. È un grande quadro. Ti avvicini e vedi che il disegno è composto da singoli pezzi, come un puzzle. Ma lo schema è insolito. Non è un’immagine che riconosci, come una montagna svizzera o un mazzo di tulipani e, mentre ti concentri sui dettagli, noti che il modello si muove e cambia costantemente in modo quasi impercettibile.

I minuscoli pezzi sono collegati da un’intricata rete di attività, come il sistema nervoso, i vasi sanguigni, i muscoli del corpo e, al centro del disegno, c’è un cuore che brilla di pura luce, pulsando fresche forniture d’amore attraverso le arterie, le vene e i capillari. I muscoli si muovono e i nervi trasmettono messaggi. Tutto funziona insieme. Ogni pezzo è vitale.

Ora immagina che a tutti coloro che seguono Gesù sia stato dato almeno un pezzo di questo puzzle. Insieme, creiamo un’immagine del carattere di Dio, del suo amore straordinario, gentile, premuroso e generoso. Quando tutti i frammenti sono intrecciati, creano qualcosa di molto più incredibile di quanto potrebbero fare da soli.

Ma ora immagina che manchino alcuni pezzi. Se qualcuno nasconde il proprio pezzo, lo perde, non si preoccupa di utilizzarlo o lo tiene in tasca, quella meravigliosa immagine sarà rovinata e gli altri pezzi dovranno essere aggiustati affinché il flusso dell’amore di Dio sia ininterrotto. Per i pezzi isolati è più difficile riflettere il carattere di Dio.

Sperimentare Dio 
Questo incredibile puzzle è una metafora dell’interconnessione che hanno i discepoli di Gesù. Nessuna persona può riflettere perfettamente il carattere di Dio perché siamo tutti imperfetti. Ancora più importante: nessuno di noi da solo può riflettere Dio perché il suo amore si sperimenta nelle relazioni. Il carattere di Dio si rivela perfettamente nella misteriosa collaborazione tra Dio Padre, Gesù Figlio e lo Spirito Santo.

Inoltre, l’amore può essere sperimentato solo quando è messo in azione. Dio ci ha creato per vivere in relazioni – famiglia, chiesa e comunità – perché sa che non è bene per noi essere soli. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poter sperimentare l’amore di Dio con braccia, orecchie e voci umane. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro per poter vivere l’amore del Signore che fluisce da loro a noi e da noi a loro. Ogni cristiano è come un piccolo pezzo del puzzle che aiuta gli altri a conoscere maggiormente il carattere di Dio.

Utilizzare i doni spirituali 
I doni spirituali sono i doni speciali che Dio ci fa quando scegliamo di appartenere alla sua famiglia. È come se tirasse fuori dalla scatola l’enorme puzzle del suo amore – compreso tutte le cose che fa per noi aiutandoci, insegnandoci e guidandoci – e lo dividesse in piccoli pezzi che gli esseri umani possono gestire più facilmente. Poi li distribuisce per adattarli alla nostra situazione di vita, alle nostre preferenze personali, alle cose che ci portano gioia, ai bisogni delle nostre comunità, ai nostri talenti naturali e alle abilità che abbiamo imparato.

Non possiamo vedere come Dio distribuisce questi doni, ma Egli vede sempre il quadro generale in continua evoluzione. Tiene gli occhi puntati su ciascuno di noi, su ciascuna chiesa e comunità, e mescola continuamente i suoi doni spirituali per creare la più grande rete di benedizioni per il mondo intero. Il modo in cui Dio gestisce il tutto va oltre la mia comprensione, ma non ho bisogno di sapere come funziona; devo solo assicurarmi che il mio tassello del puzzle sia vibrante e in crescita.

Il mio pezzo del puzzle 
Avevo sei anni quando sapevo di voler diventare una scrittrice e otto quando un pezzo fu pubblicato sul nostro giornale locale. All’inizio, scrivere era semplicemente qualcosa che mi piaceva. Poi ho pensato che, forse, era un talento che Dio mi aveva donato. Quando ho saputo dei doni spirituali, non ho visto quello della "scrittura" negli elenchi della Bibbia (Romani 12; 1 Corinzi 12; Efesini 4), ma alcuni dei momenti più sorprendenti della mia vita sono accaduti quando mi è stato chiesto di scrivere su un argomento che non mi era mai passato per la mente prima.

Mi siedo davanti al mio portatile, senza parole, senza sapere da dove cominciare o cosa dire. Tutto quello che posso fare è pregare, chiedendo a Dio di mostrarmi ciò che vuole che scriva, aprendomi per essere un canale del suo amore per il mondo. E poi arrivano le parole, fluiscono le idee e so che quello che scrivo viene totalmente da Lui. L’esperienza va oltre le parole. Oggi, scrivere è il mio talento e il mio lavoro, e i miei momenti preferiti sono quando so che Dio sta usando la mia scrittura come suo dono spirituale nella mia vita.

Il tuo pezzo del puzzle 
Puoi cercare su Internet vari questionari che ti aiutino a identificare i tuoi doni spirituali. A volte i nomi biblici di questi doni possono creare confusione perché sono termini generici che descrivono una gamma di talenti e potresti non essere del tutto sicuro di dove collocarti. Quindi, come puoi saperlo?

Se sei già un discepolo di Gesù, pensa a quello che fai solo perché ami Dio e vuoi aiutare gli altri a sperimentare il suo amore. Pensa alle volte in cui hai provato la sensazione pacifica e gioiosa di fare proprio ciò per cui Dio ti ha creato. Pensa a quelle volte in cui ti sei sentito realizzato, quando hai avuto la sensazione di essere adoperato da Dio al 100% e la consapevolezza che stavi “vivendo il tuo scopo” attraverso ogni centimetro del tuo essere. È in quei momenti di pura ispirazione connessa che puoi veramente scoprire i tuoi doni spirituali.

Se non sei un seguace di Gesù, c’è una buona notizia: se scegli di diventare cristiano, Dio ti aiuterà a scoprire i tuoi doni. Forse, intuitivamente, sai già cosa sono. Sono le cose che ti rendono felice quando le usi e le altre persone si sentono benedette quando lo fai. Più usi i tuoi doni, più forti saranno.

Una volta identificati i modi in cui condividi l’amore di Dio con gli altri, inizierai a vedere dove si inseriscono in una delle categorie bibliche dei doni spirituali. Tuttavia, potrebbero emergere altri doni che non rientrano perfettamente in questo elenco originale, come i doni della comunicazione, del design grafico, della musica, dell’arte, della gestione delle crisi, del soccorso in caso di calamità, della risoluzione dei conflitti, della consulenza e sì, della scrittura! Quando l’apostolo Paolo scrisse ai cristiani di Roma, Corinto ed Efeso, il suo elenco di doni spirituali era diverso, quindi, sono suggerimenti piuttosto che un elenco vincolante di dettagli.

Forse il modo migliore per assicurarti che i tuoi pezzi si inseriscano nel puzzle di Dio è lasciare che Egli riveli il suo carattere a te e attraverso di te. Può utilizzarti per creare un quadro chiaro del suo amore in un mondo confuso e sofferente. 

(Karen Holford, terapista familiare, è la direttrice dei Dipartimenti Ministeri in favore dei Bambini, Ministeri Femminili e Ministeri della Famiglia presso la Regione transeuropea della Chiesa avventista)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

Compie 35 anni la legge 516

Compie 35 anni la legge 516

Regola i rapporti tra lo Stato e la chiesa avventista.

Lina Ferrara – Oggi ricordiamo un anniversario importante per la chiesa avventista in Italia. Compie 35 anni la legge 22 novembre 1988, n. 516 che, con i suoi 38 articoli, regola i rapporti tra lo Stato italiano e la denominazione. Ne parliamo con Davide Romano, responsabile del Dipartimento Affari Pubblici e Libertà Religiosa dell’Unione italiana (Uicca) e direttore dell’Istituto avventista “Villa Aurora” di Firenze.

Lina Ferrara: Puoi dirci brevemente come è nata la legge 22 novembre 1988 n. 516? 
Davide Romano: La legge di intesa è nata dopo una lunga e travagliata gestazione. Se è nota a molti la battaglia per la piena attuazione dei principi proclamati nella Carta costituzionale, non molti sanno che proprio l’attuazione dell’art. 8 co. 3 della Costituzione fu tra quelli che maggiormente ebbero bisogno di una lunga metabolizzazione politica. Si giunse così intorno alla metà degli anni ‘80 alle prime intese con i valdesi, gli avventisti e le Assemblee di Dio, nel quadro di una contemporanea revisione del concordato con la Santa sede e al culmine di un intenso lavoro di sensibilizzazione politica che le minoranze evangeliche, con un indubbio protagonismo della nostra chiesa e della chiesa valdese, seppero promuovere.

L. F.: Cosa pensi in generale di questa legge? 
D. R.: Beh, ogni legge è migliorabile, se il quadro politico lo consente. Oggi, alla luce dell’esperienza accumulata in sede applicativa e giurisprudenziale alcuni emendamenti agli artt. 14 e 17 li suggerirei. Negli anni alcune piccole modifiche sono già state introdotte. Oggi siamo alle prese con nuove istanze che richiedono, appunto, ulteriori integrazioni.

L. F.: Cosa ha significato per la chiesa avventista? 
D. R.: Direi che non solo per la chiesa avventista ma per tutte le minoranze religiose presenti nel nostro Paese, la legge di intesa ha rappresentato un prezioso strumento di attuazione formale della Costituzione e ha permesso loro di uscire da un cono d’ombra cui erano state relegate a causa della soverchiante centralità della chiesa cattolica romana.
Se penso nello specifico a noi avventisti non posso non constatare come la fruizione del riposo sabatico nelle scuole e nell’ambito lavorativo, pur con persistenti criticità, e il pieno e automatico riconoscimento dei ministri di culto hanno permesso alla nostra chiesa di svolgere la propria missione di annuncio del vangelo con pienezza di prerogative.

L. F.: Nel 2009 è intervenuta una modifica che riguarda l’Istituto avventista, di cui sei attualmente il direttore. Ce ne puoi parlare? 
D. R.: La modifica ha riguardato il riconoscimento giuridico dei titoli di laurea rilasciati dall’Istituto avventista di Firenze per il tramite della sua Facoltà di teologia. Si è trattato di un passaggio importante che ha finalmente reso giustizia alla caratura accademica degli studi condotti presso la Facoltà “Villa Aurora”.
Oggi siamo alle prese con ulteriori integrazioni di quel riconoscimento relativamente ai titoli di dottorato, che speriamo possano giungere a compimento.

L. F.: Da oltre tre decenni, noi avventisti godiamo di questa legge. Cosa ne è delle altre confessioni? Possiamo fare qualcosa? 
D. R.: La chiesa avventista ha, come dire, nel suo Dna, la vocazione a difendere la libertà religiosa e di culto di tutte le fedi. Chi rivendica diritti solo per sé, nuoce alla causa dei diritti umani. Siamo dunque già impegnati a far sì che altre chiese e altre religioni ottengano ciò che la nostra Costituzione garantisce loro agli artt. 3, 8, 19 e 20.

Nel frattempo, occorre riconoscere che il quadro religioso, sociale e politico è oggi profondamente mutato. Il meccanismo delle intese, che rappresentava nel 1946 (quando si discuteva della Costituzione) una declinazione miniaturizzata del modello pattizio tra Stato e chiesa cattolica ribadito all’art. 7, mal si concilia con l’estrema pluralità del fenomeno religioso nel nostro Paese, per un verso, e con la crisi dei grandi partiti politici ideologicamente radicati, per un altro verso.

Urge, ormai da molti anni, una legge quadro che salvi le intese e ne specifichi meglio l’iter, ma che garantisca, nel contempo, un livello accettabile di certezza giuridica a tutte le confessioni religiose (o non religiose) anche senza intesa. Questo traguardo è parso vicino negli anni ’90 e soprattutto nel primo decennio del nuovo secolo, ed è sempre sfumato per un soffio. Oggi sembra, per molti motivi, allontanarsi. Ma non possiamo permetterci riluttanze e cedimenti senza che la fede e le coscienze di milioni di persone vengano violate. Occorrerà dunque nuova passione e nuovo slancio per essere presenti nello spazio pubblico e nell’agone politico con una propria proposta di libertà e un profilo riconoscibile.

Luci e ombre nel nostro mondo di parole

Luci e ombre nel nostro mondo di parole

Anche se intangibili e apparentemente fragili, le parole modellano la nostra visione del mondo, della vita e di noi stessi. Diventando un balsamo o un’arma che ferisce mente e corpo.

Carmen Lăiu – “Le parole sono senza dubbio la droga più potente usata dall’umanità” (Rudyard Kipling). “Esprimersi male non è solo difettoso per quanto riguarda la lingua, ma crea danni all’anima”, diceva Platone. Basandosi su questa riflessione, Gabriel Liiceanu sottolinea l’importanza di un discorso corretto ed elegante, sostenendo che la corruzione del linguaggio (un bene comune che non appartiene solo a noi) porti al disprezzo di altre regole su cui è costruita la società. In definitiva, il filosofo sostiene che: “L’esigenza del rigore sarà bandita dalle nostre anime e tutte le successive convenzioni della vita ricadranno nello schema del ‘va bene qualsiasi cosa’”.

Esprimersi correttamente non è un semplice capriccio. Dovremmo tutti preoccuparci di conoscere le corrette norme del discorso (e della scrittura). Ma perché non trattiamo con lo stesso zelo l’impiego positivo delle parole? Coloro che ci circondano hanno bisogno di comprensione, apprezzamento, incoraggiamento e, quando possibile, di un riscontro positivo. Forse possediamo un vocabolario ricco e sfumato, ma quanto siamo consapevoli, quando parliamo, che le nostre parole possono essere un balsamo per l’anima o un’arma con cui feriamo?

Sappiamo per esperienza quanto sia sorprendente il potere delle parole, anche quando esse sembrano volatili. Le parole possono far rivivere teneramente i bei giorni; cancellare i dolori incisi nel cuore e riempire di luce i momenti scuri di una giornata. Ma possono frantumare altrettanto facilmente la tranquillità dell’anima, con il loro passo pesante, spazzando via la gioia di un momento e avendo il potere di deviare una persona dal suo percorso e di condannarla a brancolare nel buio.

Ci si parla con termini di vari tipi: parole di benedizione, parole di guarigione, parole pungenti, parole memorabili e non poche parole pesanti. Visto l’impatto di questa ragnatela di parole che ci avvolge l’un l’altro, dovremmo pesare attentamente ciò che diciamo agli altri (e anche a noi stessi).

Parole che ci guariscono
“Il dolore è l’habitat ideale per la crescita delle preoccupazioni” affermano gli autori di uno studio del 2007 che esamina la connessione tra il dolore cronico e la preoccupazione.
Basandosi su questa associazione, i ricercatori David Hauser e Norbert Schwarz hanno condotto una nuova ricerca nel 2016 in cui hanno evidenziato la sensibilità dei pazienti alle parole che in genere hanno un significato neutro. Quando interpretavano un referto medico ambiguo, i partecipanti allo studio tendevano a vederlo negativamente se il medico usava i verbi “causare” o “scatenare”, e positivamente se il verbo scelto era “produrre”. In un nuovo contesto, le persone tendono a trasferire significato tra le parole (alcune con connotazione positiva diventano negative e viceversa, a causa dell’uso frequente di questi termini in contesti positivi o negativi). I ricercatori chiamano questo fenomeno “prosodia semantica”.

In un articolo pubblicato nel 2018 sul Journal of Orthopaedic & Sports Physical Therapy, Hauser e Schwarz raccomandano agli operatori sanitari di usare, se possibile, frasi e parole che non enfatizzano l’idea di sofferenza e disagio quando si discute di procedure di recupero medico.

“Nella riabilitazione muscoloscheletrica, dovremmo rimanere sempre vigili su come le nostre parole possono essere interpretate” affermano gli autori, sottolineando che, mentre “gli esseri umani sono costituiti da muscoli, ossa e tessuti, (…) le parole che usiamo in terapia possono avere una profonda influenza su come le persone sentono i loro corpi e su come interpretano ciò che stanno vivendo”. Riferendosi a studi che mostrano come i fattori psicologici siano migliori indicatori di disabilità e livelli di dolore rispetto a quelli patologici, i due professori notano che ignorare i fattori psicologici può influenzare il processo di recupero dei pazienti. Le parole scelte dai medici hanno il potenziale per guarire o causare danni significativi, dicono Hauser e Schwarz. “Come le droghe, le parole hanno la capacità di cambiare il modo in cui un’altra persona pensa e sente” evidenziano i ricercatori.

L’incoraggiamento verbale ha migliorato le prestazioni in un test di equilibrio, secondo uno studio del 2021. I partecipanti alla ricerca, degli atleti dilettanti, sono stati selezionati tra gli studenti di un’università statale e divisi in due gruppi: soggetti sani e quelli che soffrivano di instabilità cronica della caviglia.

Lo studio ha rivelato che, nei testi di equilibrio, le prestazioni degli studenti con instabilità cronica della caviglia sono aumentate con l’incoraggiamento verbale (frasi come: “Dai, dai, dai!” o “Vai il più lontano possibile!”), mentre quelle dei soggetti sani sono rimaste invariate. I dati delle ricerche precedenti mostrano che le distorsioni della caviglia sono uno degli infortuni più comuni tra gli atleti e gli individui con queste lesioni hanno spesso difficoltà a recuperare il livello di funzionalità pre-infortunio e sperimentano più recidive.

Inoltre, il 40% di questi individui sviluppa instabilità cronica della caviglia. Altri studi hanno evidenziato la paura del movimento nei pazienti con instabilità cronica della caviglia, così come il fatto che lo stress peggiora l’instabilità posturale. Pertanto, gli autori dello studio del 2021 hanno concluso che l’incoraggiamento verbale ha aiutato gli studenti con questa condizione ad aumentare l’autostima e a controllare la loro paura.

Mentre gli allenatori o i tifosi usano, a volte, le critiche e i rimproveri per alimentare l’ambizione degli atleti,  è l’incoraggiamento che aumenta la motivazione e porta a risultati migliori. In uno studio condotto dall’Università dell’Essex, il dott. Paul Freeman ha fornito assistenza ai giocatori di golf ascoltando le loro preoccupazioni e offrendo incoraggiamento e rassicurazioni che tutto sarebbe andato bene prima delle competizioni sportive. Le prestazioni dei giocatori sono migliorate, in media, di 1,78 colpi per round, un risultato significativo per uno sport competitivo. Freeman ha dichiarato che i risultati dello studio sono rivelatori degli effetti del sostegno sociale, dato l’impatto che il supporto di uno sconosciuto ha avuto sulle prestazioni sportive.

Proprio come con le parole giuste, l’effetto di quelle negative può essere immediatamente evidente, ma spesso non ci rendiamo conto del loro impatto a lungo termine. Anche se intangibili e apparentemente fragili, le parole modellano la nostra visione del mondo, della vita e di noi stessi e, in giovane età, possono agire come uno scalpello che scolpisce letteralmente il nostro cervello.

Parole che ci paralizzano 
Anche un breve sguardo, solo per pochi secondi, a una lista di parole negative può peggiorare l’umore di una persona ansiosa o depressa. Se l’assalto dei pensieri negativi non viene fermato, può influenzare le strutture cognitive che regolano la memoria, le emozioni e i sentimenti.

Le parole negative possono dare origine a pregiudizi fin dalla tenera età, dice un recente studio che ha coinvolto bambini dai 4 ai 9 anni. I bimbi sono stati divisi in gruppi più piccoli e impegnati in un’attività. A un certo punto, un adulto nella stanza ha partecipato a una videochiamata in cui parlava di un gruppo immaginario di persone (denominato Flurps o Gearoos). Mentre alcuni gruppi di bambini non sono stati esposti a messaggi negativi su questi personaggi di fantasia, altri hanno ascoltato descrizioni negative su di loro (sono persone cattive, parlano male, indossano abiti strani e hanno una dieta disgustosa).

I bambini esposti a questa conversazione hanno mostrato atteggiamenti significativamente più negativi nei confronti del gruppo fittizio subito dopo aver assistito alla conversazione, così come due settimane dopo l’esperimento. Questo effetto era più pronunciato nei bambini tra i 7 e i 9 anni, ma trascurabile per quelli della fascia di età 4-5. La coordinatrice dello studio, Emily Conder, ha ammesso di non conoscere la spiegazione di queste differenze nella formazione dei pregiudizi, ma ha suggerito che potrebbe essere dovuto ai tempi di attenzione più brevi e alla ridotta capacità di assorbimento delle informazioni nei bambini piccoli.

Quando un bambino non è solo esposto a messaggi negativi e aggressivi, ma ne diventa anche il bersaglio, i danni a lungo termine possono essere notevoli. Il professore di psichiatria Martin Teicher ha condotto diversi studi che evidenziano le conseguenze fisiche ed emotive dell’abuso verbale.

Una ricerca ha scoperto che l’aggressione verbale è associata a sintomi psichiatrici e che gli effetti sullo sviluppo del bambino sono più gravi di quelli che si hanno crescendo in una famiglia con violenza domestica. I ricercatori hanno anche scoperto che l’abuso verbale ha effetti paragonabili a quelli dell’abuso sessuale.

L’esposizione ad abusi verbali da parte di coetanei è stata anche collegata a un rischio più elevato di sintomi psichiatrici. Gli effetti più dannosi sono stati osservati durante gli anni delle scuole medie: le molestie verbali hanno portato a cambiamenti nella materia bianca del cervello.

L’aggressività verbale può essere minimizzata rispetto ad altre forme di aggressione, ma non dovrebbe mai essere trattata con leggerezza, sostiene il professore di psichiatria Martin Teicher, sottolineando che le esperienze che attraversiamo modellano letteralmente il nostro cervello, un organo altamente adattabile.

Nel caso delle donne che hanno subito violenza domestica (quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama “violenza intima del partner”), gli studi hanno rilevato una forte associazione tra violenza verbale e depressione.

Per mantenere una relazione sentimentale armoniosa, lo psicologo John Gottman suggerisce che ci vogliano cinque interazioni positive per ogni negativa. Una singola interazione positiva non è sufficiente per contrastare una negativa; quindi, un rapporto 1 a 1 indica che la relazione è in pericolo. La ricerca di Gottman ha dimostrato che le relazioni coniugali possono essere gravemente danneggiate dalle critiche (così come dalla difensiva, dal disprezzo e dal muro contro muro) e che l’80% delle coppie che tollerano questi comportamenti è a rischio di divorzio.

Il nostro linguaggio quotidiano rivela più della semplice categoria socioeconomica a cui apparteniamo. Racconta delle nostre motivazioni, delle ferite radicate dentro di noi, dei modelli di comunicazione ereditati e dello sforzo che abbiamo (o non abbiamo) fatto per domare le nostre parole. E, in definitiva, svela la salute della nostra anima.

Se siamo già ben addentro nel labirinto della critica e del sarcasmo, se respiriamo con gusto il profumo delle parole rabbiose o scoraggianti, se ci cibiamo al banchetto tossico dei pettegolezzi, forse non dovremmo essere così preoccupati per gli additivi alimentari o l’eccesso di sale e zucchero.

Per avere uno stile di vita veramente sano, dovremmo pensare e parlare in un modo che non ci faccia vergognare di tutte le 16.000 parole che pronunciamo in un solo giorno.

(Carmen Lăiu è redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

Il capolavoro teologico della Riforma

Il capolavoro teologico della Riforma

Il testo Christianae religionis institutio, pubblicato da Giovanni Calvino nel 1536, ha avuto un impatto determinante sulla causa del protestantesimo. Lodato da alcuni e denigrato da altri, Calvino era e resta una delle figure più emblematiche della storia.

Lucian Ștefănescu – Scritto in latino da un ventiseienne francese in meno di un anno, Christianae religionis institutio (L’Istituzione della religione cristiana) è un libro di 516 pagine.[1] Pubblicato in Svizzera e dedicato al re francese da cui stava fuggendo, è l’opera teologica più importante della Riforma protestante.

La mezzaluna ottomana che sventolava sulle mura di Costantinopoli, la minaccia di piaghe devastanti, la crisi di autorità e credibilità della Chiesa, il ritorno alla Bibbia, l’invenzione di Gutenberg (della stampa a caratteri mobili, ndr) e la nascita del protestantesimo erano tutti elementi portanti nel panorama storico del XV e XVI secolo.

Fu in quel periodo, nel 1509, che il francese Jean Cauvin (Giovanni Calvino) nacque nella città di Noyon. Quando aveva solo 12 anni, suo padre lo mandò all’Università di Parigi a studiare filosofia e legge. Imparò il latino, il greco e l’ebraico, e acquisì familiarità con la retorica e la logica. A questo profilo umanistico si aggiunse l’influenza di Erasmo e di Lutero. La persecuzione in Francia lo costrinse a fuggire con l’intenzione di dedicare il resto della sua vita allo studio e alla scrittura. Malauguratamente, il suo futuro sarebbe stato più travagliato di quanto avesse sperato.

Una città, un solo destino 
Se nel 1536 Calvino considerava Ginevra solo un posto dove passare la notte, la città, invece, attraverso gli occhi di Guillaume Farel, vedeva nell’autore della Christianae religionis institutio un capo spirituale necessario alla causa della Riforma che era stata accolta lì soprattutto per ragioni politiche. Grazie a Farel, Calvino legò per sempre il suo destino a Ginevra. Il suo lavoro fu interrotto solo tra il 1538 e il 1541 quando fu mandato via a seguito di una disputa con il consiglio comunale.

L’espulsione di Calvino da Ginevra sembrò riaprire le porte al cattolicesimo. Dopo aver ricevuto un appello scritto da un cardinale di spicco, il Consiglio di Ginevra chiese a Calvino di rispondere. E così egli fece: "Perché, anche se sono per il momento sollevato dall’incarico della Chiesa di Ginevra, tale circostanza non mi impedisce di abbracciarla con affetto paterno: Dio, nell’affidarmi questo incarico, mi ha obbligato a esser fedele ad essa per sempre". Non sapeva quanto quelle parole si sarebbero rivelate vere. La risposta di Calvino alla lettera del cardinale stroncò l’ultimo tentativo cattolico di riprendere Ginevra.

Al suo ritorno in città, con un sostegno crescente ma non senza opposizione, Calvino perseguì con insistenza l’implementazione del suo sistema "teocratico" civile-religioso. Oltre a riformare l’organizzazione e il culto ecclesiastico, tenne più di 4.000 sermoni (circa 170 all’anno). Predicava dall’Antico Testamento durante la settimana, dal Nuovo Testamento la domenica mattina e dai Salmi nel pomeriggio. Nell’ultimo anno della sua vita, continuò a tenere sermoni anche quando era malato e dovevano accompagnarlo al pulpito. Sul letto di morte, menzionò le sue predicazioni prima dei suoi scritti.

Un capolavoro della teologia riformata 
Monumento del classicismo francese, l’institutio di Calvino rappresenta una complessa miscela di dimostrazione, affermazione e apologetica. Senza limitarsi al testo biblico, Calvino arricchì l’opera con quello che conosceva dei testi della filosofia classica, dei Padri della Chiesa e degli strumenti retorici. In qualità di rettore, Calvino voleva essere "caldo, non freddo"[2] per massimizzare l’impatto del suo discorso. I suoi institutio erano rivolti a teologi e futuri pastori, così come ai laici che desideravano ampliare le loro conoscenze.

Il contributo di Giovanni Calvino  
L’opera di Calvino fu molto più ampia delle sue attività di riforma a Ginevra: fu autore di commentari su 56 libri della Bibbia, si tenne in contatto con molti referenti protestanti e seguì la situazione in atto in Europa e in Inghilterra. Si dice che fosse più informato di alcuni dei re del suo tempo.[3]

La particolare visione calvinista sull’educazione fu messa in pratica attraverso i suoi scritti, ma soprattutto con la fondazione dell’Accademia di Ginevra, nel 1559. In seguito a questi sforzi, l’albero del Calvinismo ha piantato radici profonde, gettando la sua ombra molto in là nello spazio e nel tempo.

Definita da John Knox come "la perfetta scuola di Cristo mai apparsa sulla terra dai tempi degli apostoli",[4] l’Accademia attrasse studenti entusiasti da tutta Europa. Grazie a Knox e ad altri come lui, i semi del calvinismo raggiunsero la Scozia, la Francia, i Paesi Bassi e l’Ungheria. Più tardi, solcarono l’oceano per arrivare in America, con Calvino stesso riconosciuto come uno dei padri del puritanesimo. Il calvinismo resta vivo ancora oggi nel patrimonio delle chiese riformate, inclusi i presbiteriani, delle chiese riformate olandesi e tedesche, oltre a molti battisti e congregazionisti. La sua opposizione all’esercizio del potere arbitrario da parte dei regnanti può essere considerata come un fattore chiave nello sviluppo dei moderni governi costituzionali.

Lodato da alcuni e denigrato da altri, Calvino era e rimane una delle figure più controverse della storia. Rispettato anche dai papi, fu ironicamente descritto come "il papa dei protestanti" (Voltaire) o "il crudele e incontrastato dittatore di Ginevra" (Oxford Dictionary of the Christian Church). Le critiche erano rivolte in particolare alla teologia della "doppia predestinazione" e al sistema "teocratico" per il quale Calvino si è battuto per imporlo a Ginevra, con le conseguenze implicite di ignorare la libertà di coscienza, il rapporto discutibile tra chiesa e Stato o la messa al rogo di Serveto.

Medievale e moderno, equilibrato e irremovibile, a volte insicuro della sua vocazione, tuttavia determinato ad affermarsi, Calvino rappresenta di per sé un paradosso, con alcuni che vedevano in lui "due Calvino che coesistevano scomodamente all’interno dello stesso personaggio storico". Sembra che sia proprio questo costante vacillare interiore a motivare "sia il successo del movimento che in definitiva porta il suo nome nel proprio tempo, che la sua durata nei secoli successivi in condizioni piuttosto diverse".[5]

Note 
[1] I sei capitoli del 1536 divennero, dopo quattro revisioni, quattro libri e 80 capitoli (l’edizione finale del 1559, quella conosciuta oggi). 
[2] W. J. Bouwsma, John Calvin. A Sixteenth Century Portrait (Giovanni Calvino. Un ritratto del XVI secolo), Oxford University Press, 1988, p. 126. 
[3] T. J. Davis, John Calvin (Giovanni Calvino. Della collana “Leader e pensatori spirituali”), Chelsea House Publishers, 2005, p. 49. 
[4] Bouwsma, Op. cit., p. 126. 
[5] Ivi, pp. 230-232.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

La comunicazione strategica nella lettera di Giuda

La comunicazione strategica nella lettera di Giuda

Tre lezioni da apprendere analizzando l’epistola del Nuovo Testamento.

Felipe Lemos – L’antico Impero romano disponeva di un sistema di comunicazione estremamente avanzato per quei tempi. I romani crearono quello che oggi conosciamo come sistema postale. Le lettere, o epistole, erano un modo efficiente e rapido per comunicare. Documenti, scambi epistolari privati e anche lettere comunitarie erano parte della comunicazione strategica dell’epoca.

Parlando del sistema postale romano, lo storico Mark Cartwright afferma che “inizialmente si utilizzavano i messaggeri (iuvenes) che viaggiavano dal mittente al destinatario; in seguito, si cominciò a usare un sistema di ritrasmissione di messaggeri. Ai messaggeri venivano offerti approvvigionamenti e nuovi mezzi di trasporto (vehicula) in punti regolari lungo i 120.000 chilometri della rete stradale, che permettevano loro di percorrere quasi 80 chilometri al giorno”.[1] In altre parole, i Romani crearono qualcosa di efficiente e veloce secondo gli standard di un’epoca senza Internet, fibra ottica, Bluetooth, ecc.

Scritti comunitari 
In questo contesto, risaliamo al primo secolo dell’era cristiana. Abbiamo il ben noto apostolo Paolo e le sue lettere indirizzate a varie comunità di credenti in Asia e in Europa. Si trattava di messaggi pensati per essere letti in pubblico; era, quindi, una strategia di comunicazione adeguata a chi aveva la responsabilità di gestire diverse chiese sparse in luoghi lontani. Kossar e Gadini, in un articolo sull’argomento, affermano che “il senso della comunità si presenta nel desiderio di Paolo che le lettere fossero lette in pubblico durante le funzioni, incontri che riunivano il maggior numero di membri della comunità, e da diffondere in altre chiese”.[2]

La stessa abitudine mantenuta da Paolo fu adottata da altri scrittori di epistole del Nuovo Testamento. Il canone biblico attesta la paternità di lettere attribuite a Giacomo, Giovanni e a un individuo noto come Giuda. Sicuramente non si trattava di Giuda Iscariota, ma probabilmente di un fratello di Giacomo e di Gesù Cristo.

Ciò che vorrei evidenziare in questo articolo è l’utilizzo di almeno tre strategie di comunicazione attraverso la lettera inviata da Giuda, probabilmente nel 67 d.C., a una comunità cristiana non identificata. E penso che il modo in cui è redatta l’epistola di questo apostolo e i retroscena che si possono dedurre siano lezioni importanti per i comunicatori.

Tre lezioni di comunicazione nella lettera  
Negli ambienti teologici si discute se la lettera di Giuda sia stata scritta prima o dopo la seconda lettera di Pietro, perché si riscontra un’incredibile somiglianza nell’approccio ai due contenuti. Alcuni credono che, poiché è un’epistola più breve, il materiale di Giuda sia più antico. Sta di fatto che la lettera pervenuta fino a oggi è composta da un solo capitolo di 25 versetti: sembra poco, ma la sua densità è evidente quando si studia il testo.

Nel versetto 3, Giuda dice: “Carissimi, avendo un gran desiderio di scrivervi della nostra comune salvezza, mi sono trovato costretto a farlo per esortarvi a combattere strenuamente per la fede, che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre”.

È chiaro che l’autore della lettera era consapevole di cosa avevano bisogno i suoi destinatari. Oggi diremmo che aveva studiato il suo target (o pubblico di riferimento) per valutare il tipo di messaggio da inviare. Aveva intenzione di scrivere su un altro argomento, ma ha cambiato tono e direzione. Ha poi scritto un’esortazione, un monito specifico contro i cosiddetti falsi maestri che mettevano a rischio l’integrità dottrinale della comunità cristiana.

Obiettività e centralità delle argomentazioni 
Un altro aspetto riscontrato nella lettera è che Giuda mette in pratica molto bene ciò che manca a molti comunicatori di oggi: l’obiettività e la centralità degli argomenti. Circolano testi, video e audio con argomenti così confusi e soggettivi da rendere difficile capire esattamente cosa si vuole comunicare. E si va dalle dichiarazioni di governi e aziende, ai video promozionali e alla vita degli influencer. L’impressione che ne deriva è che gli argomenti manchino di solidità, manchi l’articolazione per comunicare adeguatamente ciò che si desidera e manchi un pensiero strutturato.

L’epistola di Giuda, però, soprattutto dai versetti 4 a 16, rende del tutto esplicita la sua preoccupazione per i falsi maestri, i falsi insegnamenti e le relative conseguenze. Egli traccia anche un parallelo con esempi negativi noti al pubblico di lettori della Bibbia ebraica (il nostro Antico Testamento), e perfino di libri apocrifi o pseudoepigrafi. Leggendo Giuda, si capisce il problema centrale presentato dall’autore, cosa questo potrebbe causare nella comunità e viene anche ricordato che un problema del genere si era verificato in passato.

È del tutto strategico, dal punto di vista della comunicazione, chiarire quale messaggio si trasmette al pubblico. La chiarezza nasce da una conoscenza profonda di ciò che si vuole comunicare. In questa epistola scritta da Giuda è molto probabile che i destinatari capissero esattamente di cosa trattasse l’esortazione apostolica. L’autore utilizza espressioni comuni e riferimenti noti in modo che il suo pubblico venga connesso al contenuto della lettera.

I tempi bui esemplificati da alcune comunicazioni digitali rivelano un’incapacità, intenzionale o meno, di farsi capire. Spesso, in alcuni ambienti virtuali, le percezioni sono influenzate da discorsi, interventi e manifestazioni che appaiono in forma tronca, crittografica e dubbia.

Esortazioni finali e soluzioni 
Infine, l’epistola, che tende sempre a essere più formale, si conclude con parole che conducono a quelli che potremmo definire percorsi per la soluzione del problema, o ricerca di una soluzione. Giuda scrive: “Ma voi, carissimi, edificando voi stessi nella vostra santissima fede, pregando mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell’amore di Dio, aspettando la misericordia del nostro Signore Gesù Cristo, a vita eterna” (vv. 20, 21).

La comunità ha avuto accesso a una comunicazione positiva, espressa in un documento che si conclude con un appello alla riconsacrazione con Dio. E l’epistola chiarisce, ai versetti 22 e 23, che parte del gruppo dei cristiani pii e timorati del Signore dovrebbe dispiacersi per coloro che sono nel dubbio e seguono una strada considerata sbagliata.

La comunicazione strategica costruisce per educare, formare e stabilire qualcosa che sia migliore di quanto esisteva già. È ciò che fa Giuda nella sua epistola. Non si limita al problema, ma si muove verso la soluzione.

Questo articolo non ha l’intenzione di esaurire l’analisi della lettera di Giuda, ma ha cercato di indicare alcuni pensieri legati alla comunicazione strategica presenti in uno scritto destinato a essere letto e che serviva come mezzo di comunicazione per una comunità di cristiani nel primo secolo.

Cos’altro noti in questa lettera che potrebbe essere interessante per quanto riguarda la comunicazione strategica? Prova a leggerla con questi occhi e a immaginare le reazioni delle persone nel ricevere una lettera con questo approccio e contenuto. E poi, pensa al tipo di comunicazione in cui sei coinvolto: nei rapporti interpersonali, nel tuo lavoro, nella comunicazione della tua chiesa, o anche in qualsiasi altro tipo di comunità.

Riepiloghiamo 
Giuda ci dà tre consigli riguardo alla comunicazione strategica:
1. L’autore della lettera ha fatto una lettura dei destinatari e ha cambiato argomento prima di scrivere. Comprendi il tuo pubblico.
2. Giuda preferisce una comunicazione obiettiva, con un focus centrale sugli argomenti. Sii consapevole di cosa vuoi comunicare e nel farlo cerca di essere il più chiaro possibile.
3. L’epistola si conclude con parole che indicano i modi per risolvere il problema. Genera una comunicazione che costruisca qualcosa, che insegni, che formi davvero le persone e non informi soltanto.

(Filippo Lemos, giornalista, specialista in marketing e comunicazione aziendale, gestisce l’Ufficio Comunicazioni della Chiesa avventista sudamericana che ha sede a Brasilia)

Note 
[1] https://www.worldhistory.org/trans/pt/2-1442/as-cartas-e-correspondencia-na-antiguidade/
[2] K. Furtado, K. W., & Gadini, “Cartas cristãs como mídia comunitária: o que Paulo de Tarso pode ensinar sobre comunicação popular?”, Revista Famecos, 22(4), S. L. (2015), p.8.

[Fonte: noticias.adventistas.org/pt. Traduzione: L. Ferrara]

Come prendere il meglio dagli ostacoli nella nostra vita

Come prendere il meglio dagli ostacoli nella nostra vita

Gli impedimenti e le difficoltà che costellano il nostro cammino possono rivelare un’altra faccia e insegnarci, nonostante tutto, qualcosa di buono.

Andreea Irimia – "Ciò che non ti uccide ti rende più forte" scriveva Nietzsche nel 1889, in uno dei suoi saggi. Più facile a dirsi che a farsi quando stai affrontando la disoccupazione, una malattia, un rifiuto o a un compito in classe lasciato in bianco. Tendiamo a vedere tutto questo come qualcosa di cui dobbiamo sbarazzarci. Non è possibile che sia la vita che volevamo.

Diversi studi confermano quello che forse abbiamo imparato dalle nostre esperienze: gli ostacoli sono i nostri migliori maestri. Quando diamo loro un’occhiata più da vicino, ci offrono degli "insegnamenti", iniziamo a sentirci più grati e può capitare persino di apprezzarli. Matthew Trinetti, dell’Huffington Post, ha compilato un elenco di proprietà che rendono gli ostacoli desiderabili:

– Ci svelano chi siamo veramente. Nei momenti di crisi, il nostro vero io traspare. In quegli istanti difficili, impariamo molto di più su quello che possiamo cambiare, sulle diverse modalità con le quali dovremmo guardare al mondo e alle persone che ci circondano.

– Danno un’indicazione per le decisioni future. Le esperienze negative ci forniscono un quadro più chiaro rispetto alle inevitabili conseguenze di certe scelte. Perciò, quando ci troviamo dinanzi a una decisione analoga, conosciamo già una strada da seguire per evitare altre sofferenze.

– Ci offrono la possibilità di diventare più forti. La paura fa parte della nostra natura e senza alcuna occasione di rafforzare il nostro coraggio, certi timori potrebbero perseguitarci per tutta la vita. Ecco perché gli ostacoli sono il modo ideale per testare e potenziare la nostra fermezza.

– Ci aiutano a trovare il nostro scopo nella vita. Lo scrittore cristiano C. S. Lewis, nel suo libro The Problem of Pain (Il problema della sofferenza), evidenzia come un’esistenza senza difficoltà ci porti a valorizzare aspetti senza un valore reale, un “pantano” in cui ci sentiamo a nostro agio e non ce ne andremmo se non per colpa di un problema. Quando gli ostacoli appaiono sul nostro sentiero, quando la sofferenza pesa su di noi, solo allora possiamo cogliere una prospettiva più ampia e impostare in modo corretto le nostre priorità di vita.

– Possono condurci alla pace interiore. Quando incappiamo in quelle difficoltà che superano la nostra capacità di andare oltre, ci rendiamo conto di quanto poco controllo abbiamo sulla nostra vita. Capiamo che non possiamo fare affidamento esclusivamente su noi stessi e allora intraprendiamo una ricerca sulla nostra origine e sul significato che vogliamo dare alla nostra esistenza. Una volta scoperto e interiorizzato, la sensazione di sapere da dove veniamo e dove siamo diretti ci donerà pace interiore.

– Ci preparano alla morte. Anche se questo ultimo punto può sembrare tetro, gli ostacoli ci ricordano che siamo di passaggio, ci troviamo qui per un breve periodo e che la morte è il capolinea del viaggio. Ci rendiamo conto che non possiamo vincere la fine da soli. Per i cristiani, questa consapevolezza rafforza la fede nella risurrezione che attende i credenti. Per coloro che non credono nella risurrezione e nella vita eterna, la morte è semplicemente una trasformazione o un passaggio nel nulla. In entrambi i casi, gli impedimenti che rivelano una prospettiva di morte ci trasformano e ci aiutano a considerare la vita in modo diverso.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

L’effetto domino di Enrico

L’effetto domino di Enrico

Spinto dal desiderio di assicurarsi un erede al trono, Enrico VIII scatenò un effetto domino che alla fine avrebbe cambiato il volto dell’America e del mondo.

Norel Iacob – Mettendosi a capo della Chiesa d’Inghilterra, Enrico VIII è stato il primo monarca europeo a negare, riuscendoci, la supremazia papale e il primo ad assumere la carica di capo della Chiesa. Una terza innovazione riguardava la natura della sua riforma ecclesiastica. Enrico VIII era contemporaneo di Lutero e di altri riformatori protestanti, ma "il protestantesimo non causò né fu raggiunto" dalla separazione della Chiesa d’Inghilterra dal Vaticano. Nel lungo periodo, tuttavia, "la negazione dell’autorità papale da parte di Enrico VIII fu probabilmente indispensabile per l’emergere finale del protestantesimo".[1]

L’aspetto più importante oggi, comunque, è il gesto di Enrico che mise in moto un effetto domino dall’esito notevole: il pluralismo religioso dell’America e la separazione tra Chiesa e Stato nel Nuovo Mondo. In altre parole, la libertà religiosa che caratterizza l’America oggi, e influenza il pianeta intero, trova le sue radici storiche negli eventi dell’Inghilterra di Enrico VIII.

Il grande problema del re 
Enrico era sposato con la principessa spagnola Caterina d’Aragona, vedova del fratello Arturo. Il matrimonio, che sembrava esprimere un’alleanza politica, aveva ricevuto una dispensa papale[2] e inizialmente non mancava di intensità.[3] All’età di 40 anni, però, la regina aveva avuto quattro aborti e perso un bambino nei primi giorni di vita. L’assenza di un erede si faceva sentire e, sebbene Caterina avesse dato alla luce una figlia (la futura regina Maria Tudor), Enrico non ripose le sue speranze in una simile successione.

Nel frattempo, l’alleanza con la Spagna non appariva più una buona idea, e il pio Enrico era sempre più ossessionato dal pensiero che la mancanza di un erede fosse dovuta alla natura contraria ai precetti biblici del suo matrimonio con Caterina.[4] Inoltre, Enrico amava Anna Bolena [5] e il fatto che voleva fosse sua moglie a tutti i costi, quando avrebbe potuto facilmente tenerla come amante,[6] dimostra che non è stata la passione a spingerlo sulla via del divorzio, ma la necessità di garantire la continuità dinastica.

Da “Difensore della fede” a scismatico 
La lealtà di Enrico al cattolicesimo era indiscutibile. Nel 1521 gli fu persino conferito dal papa il titolo di “Difensore della fede” per la sua confutazione teologica verso Martin Lutero. Ottenere l’approvazione del pontefice per il divorzio avrebbe dovuto essere cosa semplice. Caterina d’Aragona, però, era la zia dell’imperatore Carlo V e papa Clemente VII lo temeva. Così, Clemente rifiutò la richiesta di divorzio di Enrico e lo avvertì che sarebbe stato scomunicato se si fosse risposato.

Ma il re d’Inghilterra non poteva tornare indietro. Thomas Cranmer, che era a favore del divorzio reale, fu consacrato arcivescovo di Canterbury e poco dopo dichiarò nullo il matrimonio del monarca con Caterina, convalidando così le sue nozze con Anna Bolena, già incinta. Nel giugno 1533, Anna fu incoronata regina d’Inghilterra e il 7 settembre diede alla luce Elisabetta Tudor (la futura regina Elisabetta I).

Nel 1534, le macchinazioni politiche di Enrico furono completate con l’approvazione di diverse leggi. L’Atto di Successione assicurava che la corona passasse a suo figlio. L’Atto di Supremazia lo rese capo supremo della Chiesa e la Legge sul Tradimento stabiliva la pena di morte per chiunque negasse la sua supremazia. Seguendo quest’ultimo atto, Enrico giustiziò il suo migliore amico, Sir Thomas More. L’unione di Chiesa e Stato nella sola persona del re diede vita a un regime repressivo ancora più duro di quello medievale. Si è detto che l’immagine di sé del monarca come "arbitro" della Chiesa avrebbe potuto facilmente trasformarsi in una forma di paranoia.[7] Nel 1539, per esempio, nello stesso giorno mandò al rogo tre protestanti e altrettanti cattolici fedeli al papa, per dimostrare la sua imparzialità

Enrico è stato un riformatore? 
Enrico VII era un devoto cattolico che voleva preservare il cattolicesimo nella nuova Chiesa d’Inghilterra; le sue riforme basilari furono una conseguenza naturale della rottura con Roma: abolì le preghiere al papa, i monasteri (dai quali acquisì vaste proprietà e ricchezze), la venerazione dei santi (che includeva pellegrinaggi e reliquie) e il culto di icone o oggetti sacri. Al loro posto, posizionò una copia inglese della Bibbia in ogni chiesa, ma quando i fedeli mostrarono grande interesse nel leggerla, il re ne temette le conseguenze e limitò le possibilità di accesso alla Bibbia alla gente comune.

In termini dottrinali, la Chiesa d’Inghilterra fu plasmata sulla base delle credenze del re che nessuno osava contraddire. Di conseguenza, la teologia era “sia fluida che unica…. La fede personale idiosincratica di Enrico ha portato a una peculiare teologia ufficiale”.[8] Quando cercò il sostegno dei luterani tedeschi contro i regni cattolici che lo minacciavano di invasione, Enrico favorì temporaneamente alcune idee luterane, ma la sua chiesa scismatica non divenne mai protestante. 
Il protestantesimo avrebbe trovato dei sostenitori solamente nei suoi discendenti, Edoardo ed Elisabetta.

Enrico non è stato di per sé un riformatore, ma la sua battaglia per avere un erede ha posto le basi di un profondo cambiamento in Inghilterra. Nell’ultima fase del suo regno, nel Paese c’erano già gruppi interessati alle idee di Lutero, Zwingli, Calvino, Bucer e degli Anabattisti. La diversità religiosa aveva così permeato l’Inghilterra, fino ad allora uno dei Paesi cattolici più devoti: le rappresaglie del re non potevano più impedire alle idee protestanti di diffondersi in tutta l’isola e nel Nuovo Mondo grazie ai coloni inglesi.

(Norel Iacob è direttore di Signs of the Times Romania ST Network)

Note 
[1] D. Trim, “The Break from Rome” (La rottura con Roma), in Liberty Magazine, gennaio-febbraio 2009. 
[2] La dispensa papale era necessaria perché Caterina si era già sposata prima. 
[3] D. G. Newcombe, Henry VIII and the English Reformation (Enrico VIII e la riforma inglese), Londra, Routledge, 1995, pp. 22, 23. 
[4] “Se uno prende la moglie di suo fratello, è una impurità; egli ha scoperto la nudità di suo fratello; non avranno figli” (Levitico 20:21). 
[5] Diciassette lettere del re ad Anna Bolena sono raccolte in Vaticano. Mostrano la passione di Enrico per la futura regina, che ha giustiziato tre anni dopo il matrimonio. 
[6] Come altri monarchi europei, Enrico VIII aveva numerose amanti, tra le quali la sorella di Anna, Maria Bolena. 
[7] J. Guy, The Tudors, Oxford University Press, 2000, p. 41. 
[8] D. Trim, “The Beginnings of Religious Diversity” (Gli inizi della diversità religiosa), in Liberty Magazine, marzo-aprile 2009.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

L’effetto domino di Enrico

L’effetto domino di Enrico

Spinto dal desiderio di assicurarsi un erede al trono, Enrico VIII scatenò un effetto domino che alla fine avrebbe cambiato il volto dell’America e del mondo.

Norel Iacob – Mettendosi a capo della Chiesa d’Inghilterra, Enrico VIII è stato il primo monarca europeo a negare, riuscendoci, la supremazia papale e il primo ad assumere la carica di capo della Chiesa. Una terza innovazione riguardava la natura della sua riforma ecclesiastica. Enrico VIII era contemporaneo di Lutero e di altri riformatori protestanti, ma "il protestantesimo non causò né fu raggiunto" dalla separazione della Chiesa d’Inghilterra dal Vaticano. Nel lungo periodo, tuttavia, "la negazione dell’autorità papale da parte di Enrico VIII fu probabilmente indispensabile per l’emergere finale del protestantesimo".[1]

L’aspetto più importante oggi, comunque, è il gesto di Enrico che mise in moto un effetto domino dall’esito notevole: il pluralismo religioso dell’America e la separazione tra Chiesa e Stato nel Nuovo Mondo. In altre parole, la libertà religiosa che caratterizza l’America oggi, e influenza il pianeta intero, trova le sue radici storiche negli eventi dell’Inghilterra di Enrico VIII.

Il grande problema del re 
Enrico era sposato con la principessa spagnola Caterina d’Aragona, vedova del fratello Arturo. Il matrimonio, che sembrava esprimere un’alleanza politica, aveva ricevuto una dispensa papale[2] e inizialmente non mancava di intensità.[3] All’età di 40 anni, però, la regina aveva avuto quattro aborti e perso un bambino nei primi giorni di vita. L’assenza di un erede si faceva sentire e, sebbene Caterina avesse dato alla luce una figlia (la futura regina Maria Tudor), Enrico non ripose le sue speranze in una simile successione.

Nel frattempo, l’alleanza con la Spagna non appariva più una buona idea, e il pio Enrico era sempre più ossessionato dal pensiero che la mancanza di un erede fosse dovuta alla natura contraria ai precetti biblici del suo matrimonio con Caterina.[4] Inoltre, Enrico amava Anna Bolena [5] e il fatto che voleva fosse sua moglie a tutti i costi, quando avrebbe potuto facilmente tenerla come amante,[6] dimostra che non è stata la passione a spingerlo sulla via del divorzio, ma la necessità di garantire la continuità dinastica.

Da “Difensore della fede” a scismatico 
La lealtà di Enrico al cattolicesimo era indiscutibile. Nel 1521 gli fu persino conferito dal papa il titolo di “Difensore della fede” per la sua confutazione teologica verso Martin Lutero. Ottenere l’approvazione del pontefice per il divorzio avrebbe dovuto essere cosa semplice. Caterina d’Aragona, però, era la zia dell’imperatore Carlo V e papa Clemente VII lo temeva. Così, Clemente rifiutò la richiesta di divorzio di Enrico e lo avvertì che sarebbe stato scomunicato se si fosse risposato.

Ma il re d’Inghilterra non poteva tornare indietro. Thomas Cranmer, che era a favore del divorzio reale, fu consacrato arcivescovo di Canterbury e poco dopo dichiarò nullo il matrimonio del monarca con Caterina, convalidando così le sue nozze con Anna Bolena, già incinta. Nel giugno 1533, Anna fu incoronata regina d’Inghilterra e il 7 settembre diede alla luce Elisabetta Tudor (la futura regina Elisabetta I).

Nel 1534, le macchinazioni politiche di Enrico furono completate con l’approvazione di diverse leggi. L’Atto di Successione assicurava che la corona passasse a suo figlio. L’Atto di Supremazia lo rese capo supremo della Chiesa e la Legge sul Tradimento stabiliva la pena di morte per chiunque negasse la sua supremazia. Seguendo quest’ultimo atto, Enrico giustiziò il suo migliore amico, Sir Thomas More. L’unione di Chiesa e Stato nella sola persona del re diede vita a un regime repressivo ancora più duro di quello medievale. Si è detto che l’immagine di sé del monarca come "arbitro" della Chiesa avrebbe potuto facilmente trasformarsi in una forma di paranoia.[7] Nel 1539, per esempio, nello stesso giorno mandò al rogo tre protestanti e altrettanti cattolici fedeli al papa, per dimostrare la sua imparzialità

Enrico è stato un riformatore? 
Enrico VII era un devoto cattolico che voleva preservare il cattolicesimo nella nuova Chiesa d’Inghilterra; le sue riforme basilari furono una conseguenza naturale della rottura con Roma: abolì le preghiere al papa, i monasteri (dai quali acquisì vaste proprietà e ricchezze), la venerazione dei santi (che includeva pellegrinaggi e reliquie) e il culto di icone o oggetti sacri. Al loro posto, posizionò una copia inglese della Bibbia in ogni chiesa, ma quando i fedeli mostrarono grande interesse nel leggerla, il re ne temette le conseguenze e limitò le possibilità di accesso alla Bibbia alla gente comune.

In termini dottrinali, la Chiesa d’Inghilterra fu plasmata sulla base delle credenze del re che nessuno osava contraddire. Di conseguenza, la teologia era “sia fluida che unica…. La fede personale idiosincratica di Enrico ha portato a una peculiare teologia ufficiale”.[8] Quando cercò il sostegno dei luterani tedeschi contro i regni cattolici che lo minacciavano di invasione, Enrico favorì temporaneamente alcune idee luterane, ma la sua chiesa scismatica non divenne mai protestante. 
Il protestantesimo avrebbe trovato dei sostenitori solamente nei suoi discendenti, Edoardo ed Elisabetta.

Enrico non è stato di per sé un riformatore, ma la sua battaglia per avere un erede ha posto le basi di un profondo cambiamento in Inghilterra. Nell’ultima fase del suo regno, nel Paese c’erano già gruppi interessati alle idee di Lutero, Zwingli, Calvino, Bucer e degli Anabattisti. La diversità religiosa aveva così permeato l’Inghilterra, fino ad allora uno dei Paesi cattolici più devoti: le rappresaglie del re non potevano più impedire alle idee protestanti di diffondersi in tutta l’isola e nel Nuovo Mondo grazie ai coloni inglesi.

(Norel Iacob è direttore di Signs of the Times Romania ST Network)

Note 
[1] D. Trim, “The Break from Rome” (La rottura con Roma), in Liberty Magazine, gennaio-febbraio 2009. 
[2] La dispensa papale era necessaria perché Caterina si era già sposata prima. 
[3] D. G. Newcombe, Henry VIII and the English Reformation (Enrico VIII e la riforma inglese), Londra, Routledge, 1995, pp. 22, 23. 
[4] “Se uno prende la moglie di suo fratello, è una impurità; egli ha scoperto la nudità di suo fratello; non avranno figli” (Levitico 20:21). 
[5] Diciassette lettere del re ad Anna Bolena sono raccolte in Vaticano. Mostrano la passione di Enrico per la futura regina, che ha giustiziato tre anni dopo il matrimonio. 
[6] Come altri monarchi europei, Enrico VIII aveva numerose amanti, tra le quali la sorella di Anna, Maria Bolena. 
[7] J. Guy, The Tudors, Oxford University Press, 2000, p. 41. 
[8] D. Trim, “The Beginnings of Religious Diversity” (Gli inizi della diversità religiosa), in Liberty Magazine, marzo-aprile 2009.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

Perché i complimenti rendono la nostra giornata migliore

Perché i complimenti rendono la nostra giornata migliore

Rivolgere degli apprezzamenti sinceri, riceverli o farli a se stessi ha un enorme potere trasformativo. Il fondamento di una relazione che dona il sorriso e costruisce ponti

Genia Ruscu – Quando pensiamo ai molti impegni di un nuovo giorno, ogni mattina è una sfida mettere in moto le nostre risorse: una prova combinata di velocità e resistenza o una maratona contro il tempo costellata non solo di ostacoli conosciuti, ma anche di confronti inattesi che a volte ci travolgono.

In questo contesto, è naturale concentrare la nostra attenzione non tanto sugli altri quanto su noi stessi, sui doveri, sulla corsa al successo, com’è spesso chiamata la vita moderna alla ricerca continua di qualcosa. Gli altri sono le persone con cui veniamo in contatto quotidiano e la cui presenza, costante o fugace, fa parte dello scambio di esperienze che segnano la nostra traiettoria. In altre parole, è molto facile dimenticare il prossimo quando siamo troppo occupati o preoccupati dei problemi. E se questo è vero per noi, è facile vedere come gli altri possano cadere nella stessa trappola dell’indifferenza, generando, di conseguenza, un circolo vizioso di indisponibilità nelle nostre interazioni a casa, al lavoro, per strada, al supermercato o tra vicini.

Perché questo approccio è rischioso? Perché la vita non è una lunga serie di compiti da svolgere con precisione e costanza, ma una complessa manifestazione di stati d’animo in cui tutte le persone svolgono un ruolo importante. Dato che c’è molto da fare e la giornata è breve, come possiamo prestare attenzione a coloro che ci circondano in modo non troppo faticoso ma che esprima interesse e sincerità?

La risposta non rivela una formula "magica" o la necessità di uno sforzo sovrumano per accorgerci di coloro che ci circondano. Basta un’azione semplice e diretta, significativa nella sua apparente banalità: fare i complimenti.

I complimenti rallegrano i nostri giorni 
Sebbene si tenda a sottovalutare l’impatto positivo che le parole gentili hanno sul prossimo, il cervello elabora i complimenti come se fossero ricompense finanziarie, sostengono gli esperti.

Esprimere apprezzamento per una persona, la fa sentire stimata e solleva anche l’umore di chi fa il complimento. Per i dipendenti, il riscontro positivo dei manager riduce gli effetti dello stress sul posto di lavoro e migliora le prestazioni professionali. Praticamente, tutti ne beneficiano, lo dimostrano tanti esempi della vita reale che rafforzano l’idea secondo cui i complimenti trasformano davvero la propria giornata.

La Wayne Valley High School nel New Jersey rappresenta un perfetto esempio del potere dei complimenti. Seguendo una tradizione consolidata diversi anni fa, i dirigenti scolastici incoraggiano sia il personale che gli studenti a partecipare a un’attività nota come "Third Party Compliments (Complimenti da parte di terzi)". Questo tipo di attività annuale prevede che i partecipanti scrivano volontariamente, e in forma anonima, dei messaggi personalizzati di incoraggiamento, apprezzamento, rispetto o gratitudine a persone specifiche che li circondano (studenti, insegnanti, personale scolastico). I messaggi sono poi portati su una postazione interna, ordinati e preparati per essere distribuiti ai destinatari, che hanno l’opportunità di leggerli ad alta voce e condividere le loro reazioni spontanee in classe, durante la pausa o in qualsiasi altro momento in cui possono avere l’attenzione del pubblico.

Anche se il progetto richiede un grande impegno, la direzione della scuola ritiene che i risultati lo giustifichino. L’attività è attesa con impazienza dalla maggior parte degli studenti, i quali hanno la sensazione che i messaggi di apprezzamento espressi in un ambiente organizzato rendano l’atmosfera scolastica più piacevole e amichevole durante tutto l’anno.

La capacità di fare complimenti 
Un altro studio ha scoperto che il 90% degli intervistati ritiene che dovremmo complimentarci più spesso gli uni con gli altri perché è vantaggioso per tutti. Nella pratica, però, solo il 50% dei partecipanti, a cui è stato chiesto di scrivere un complimento a una persona nella loro più ampia cerchia di amici, ha avuto poi il coraggio di consegnarlo.

Studi simili hanno dimostrato che le persone hanno paura delle reazioni degli altri e mettono in discussione la loro capacità di fare un complimento. Secondo altre ricerche in questo settore, i timori possono essere superati se ci concentriamo sulla componente umana del messaggio, in modo che trasmetta calore, onestà e cordialità piuttosto che sulla capacità di comporre un messaggio grandioso, carico di grandi parole o espressioni sofisticate. Allo stesso tempo, la raccomandazione principale è che la lode che offriamo sia sincera e specifica, rifletta la nostra attenzione ai dettagli e sia autentica nella sua espressione, facendo attenzione a non andare oltre, al limite dell’adulazione o dell’elogio inutile.

La gente si preoccupa di un altro aspetto: che un’alta frequenza di complimenti possa svalutarne la sostanza o che funzionino solo se rimangono rari, come delle gemme. Contrariamente alle aspettative, ricevere complimenti sinceri ma regolari non rende nessuno immune alla valutazione che riceve, perché il bisogno di essere visto, valorizzato e incoraggiato è costante, come la necessità di cibo. A questo proposito, un esperimento condotto nel 2019 ha dimostrato quanto segue: nonostante le ipotesi pessimistiche dei partecipanti, i complimenti quotidiani che hanno ricevuto per una settimana non li hanno resi indifferenti alle parole di apprezzamento rivolte loro e nemmeno scettici sulla loro sincerità. Piuttosto li hanno rallegrati ogni volta.

Il bisogno di essere valorizzati 
Dal momento che "sentirsi valorizzati e apprezzati sono bisogni umani fondamentali" (Marcia Naomi Berger), è importante non solo imparare a fare i complimenti, ma anche riceverli, tenendo presente che in qualsiasi tipo di interazione, la formazione e l’espressione di opinioni positive su come è davvero una persona, sul suo carattere, le sue idee e azioni, sono il fondamento del desiderio di sviluppare una relazione cooperativa.

Questa raccomandazione vale anche per noi stessi: occorre imparare a ricevere i complimenti fatti da noi stessi. È un segno di auto-consapevolezza e un esercizio necessario per coltivare l’autostima (le persone che si sottovalutano hanno difficoltà ad accettare i complimenti). Possiamo iniziare abbracciando la nostra unicità, i doni che ci sono stati offerti, le competenze che abbiamo sviluppato nel tempo e le qualità che ci portano alla riuscita, così come quelle che ci permettono di accettare il fallimento.

La forza di ricevere e rivolgere complimenti dimostra che siamo in pace con noi stessi, che siamo in grado di riconoscere il successo o la realizzazione (propria o degli altri); è un buon modo per evitare la concorrenza dannosa con il prossimo, un modo per abbassare la guardia. Allo stesso tempo, i complimenti possono aiutarci a rompere il ghiaccio in una nuova conversazione, salvarci nei momenti chiave, motivarci a vedere il bene nelle cose e plasmarci per diventare più aperti, premurosi e fiduciosi verso il prossimo.

(Genia Ruscu ha un master in consulenza sul lavoro sociale)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

GAiN Europe 2023, media avventisti uniti nella missione

GAiN Europe 2023, media avventisti uniti nella missione


Nel mese di ottobre in Montenegro si è svolto il GAiN Europe 2023, un incontro a cui hanno partecipato esponenti dei media avventisti di tutta Europa, ma non solo. Lo scopo è stato quello di ricevere formazione, trovare ispirazione e fare network per portare avanti la missione di condividere il Vangelo.

Alessia Calvagno ne ha parlato con Lucas Treiyer di HopeMedia Italia, che ha preso parte all’evento.

La fine del mondo nella letteratura

La fine del mondo nella letteratura

Cosmogonie, apocalissi, esiti distopici e angosciosi oppure luminosi di speranza… La narrativa fantascientifica è da sempre attratta da scenari simili. Un genere che affascina molti e prefigura un bisogno universale: quello di un mondo migliore.

Laura Maftei – La fine del mondo è stata una preoccupazione umana duratura e, paradossalmente, è esistita fin dagli albori della civiltà. Aristotele scrisse che i mortali sono tali perché non possono incontrare il loro inizio e la loro fine; riescono solo a cercare significati per essi.[1] La paura di una fine completa è antica e perenne, e trascende lo spazio geografico e il tempo.

Narrativa e scenari apocalittici 
Riguardo all’emergere della narrativa apocalittica, lo storico Lucian Boia ha sostenuto che l’apocalisse è passata dall’essere il terreno di caccia privato della Chiesa, come era stato prima del XVIII secolo, a diventare un soggetto desacralizzato. La letteratura ha abbracciato l’argomento e la paura è già stata parzialmente fugata.[2]

I testi di fantasia che si concentrano sulla fine del mondo appartengono al genere consolidato della fantascienza o sci-fi (abbreviazione di science fiction, ndr), più precisamente al sottogenere della letteratura apocalittica o escatologica (immaginarie).

La fantascienza disegna una società sorpresa dall’impatto della tecnologia e della scienza sugli esseri umani. La materia prima di questa rappresentazione è data dagli eventi rilevanti della storia: la bomba atomica, l’esplorazione spaziale, le guerre mondiali, il progresso scientifico o la tecnologizzazione della società.

D’altra parte, la letteratura di fantascienza, molto prima che fosse attuata e confermata dalla scienza, immaginava concetti come “bioingegneria, architettura quantistica, grafica digitale, realtà virtuale, Internet e social media, tecnologie spaziali e militari e l’automazione della produzione”.[3]

Il sottogenere letterario apocalittico si concentra esclusivamente sul tema della fine del mondo. Alcuni di questi libri, che si riferiscano più o meno esplicitamente alla presenza della divinità, prendono come fonte l’Apocalisse biblica, trattandone temi e illustrazioni in modo immaginativo, come in Lord of the World (Il padrone del mondo), di Robert Hugh Benson (1907), che ha per argomento principale il regno dell’Anticristo e la fine del pianeta. Altri fanno a meno del racconto escatologico della Bibbia e costruiscono eventi incredibili che piombano come un giudizio sull’umanità, con catastrofi di ogni tipo, nucleari o tecnologiche, biologiche o astronomiche, fino all’estinzione dell’umanità. Molti testi fantascientifici rappresentano l’esistenza dell’ultimo essere umano sul pianeta come The Last Man (L’ultimo uomo) del 1826, a cura di Mary Shelley (autrice del celebre Frankenstein del 1818), in cui un’umanità giunta a un grado avanzato di civiltà viene distrutta da un’epidemia di peste tra il 2073 e il 2100, e l’ultimo essere umano vaga per la terra in attesa della propria estinzione.

La narrativa apocalittica tende a essere distopica, non utopista. La distopia è molto più popolare dell’utopia, soprattutto se è apocalittica (un’utopia in cui tutto è perfetto diventa banale).

Il mondo distopico raffigura una società governata da sistemi politici totalitari, uno stato-nazione sotto il dominio di un’élite disinteressata al benessere del popolo, con sistemi di propaganda statale e programmi educativi imposti che diffondono il messaggio che le politiche attuali sono la migliore opzione possibile. Queste distopie – come il romanzo di George Orwell 1984 (scritto nel 1948) o Brave New World (Il mondo nuovo) di Aldous Huxley (1932) oppure il recente 2084: The End of the World (2084: la fine del mondo) di Boualem Sansal, pubblicato nel 2015 (un ovvio riferimento al romanzo di Orwell) – mettono in guardia su uno sviluppo deviante dei sistemi sociali, politici o religiosi.

Come possiamo spiegare l’esistenza di una narrativa mirata al sentire moderno? 
Che piaccia o no da un punto di vista moderno, il declino del pensiero mitico è reversibile. Il mondo di oggi abbonda di mitologie e l’industria dell’intrattenimento è solo una fonte. Gli archetipi universali e i modelli di ruolo sono ben preservati nella narrativa moderna. I generi fantasy, horror e la fantascienza sono rilevanti in questo senso perché creano riferimenti per relazionarsi alla vita in modo appropriato rispetto al tempo presente. Il bisogno di miti o eroi resta comunque costante: in La nube purpurea (The Purple Cloud), un romanzo fantascientifico di Matthew Phipps Shiel del 1901, l’eroe che vaga come un sovrano in un mondo desolato è un altro Nerone trionfante alla vista delle rovine fumanti di Roma.[4]

I racconti sui supereroi, l’intelligenza artificiale, i mostri, le origini (cosmogonie) o la fine del mondo (apocalissi) ci vengono presentati regolarmente e simboleggiano vari aspetti della nostra comprensione della realtà; nuovi miti che cercano di spiegare l’inspiegabile. Contemplare l’apocalisse fa sembrare insignificanti i problemi quotidiani.

Per sua stessa natura, l’idea della fine del mondo (è stato detto che l’apocalisse è “un trauma culturale estremo”[5]) è una delle curiosità più affascinanti dell’umanità, perché soddisfa il nostro desiderio di mistero, interesse, meraviglia e orrore.

Sono nuove forme di miti escatologici? D’altro canto, i miti originali e tradizionali che riguardano il destino dell’umanità, secondo Mircea Eliade, avevano uno scopo diverso: condussero a movimenti collettivi cruciali nel Medioevo (le crociate, il millenarismo, la spedizione di Colombo, ecc.)[6].

Un mito  simile ha plasmato la cultura americana che si è sempre vista come apocalittica.[7] Il mondo americano è sempre sembrato aperto a tutte le speranze e utopie. I Padri Pellegrini e i puritani del New England erano convinti che la loro esistenza nel Nuovo Mondo facesse parte di un piano divino che avrebbe inevitabilmente portato all’istituzione della Nuova Gerusalemme nel continente americano; inoltre, i sermoni dei puritani erano pieni di riferimenti alla fine del mondo, e tutto questo portò gli americani, fin dall’inizio della loro nazione, a credere che la storia degli Stati Uniti non sarebbe stata casuale, ma parte della storia divina.

I temi della fine del mondo sono spesso esplorati nella narrativa letteraria contemporanea perché corrispondono a dilemmi reali e rappresentano un tipo di letteratura che è incisiva e provocatoria nelle sue domande: decadenza e restaurazione, progresso e catastrofe o potere politico.

Esiste uno stretto legame tra l’apocalisse e l’idea di potere statale, di impero, perché i concetti di crisi, decadenza e impero aiutano la società a vedere le nazioni, le guerre e gli imperi in relazione alla fine del mondo. Terreni storici instabili tendono a favorire soluzioni apocalittiche immaginarie.

Dal punto di vista della storia della letteratura, la fine del mondo ha incontrato il romanticismo letterario in linea con i suoi motivi artistici: mistero, fantasia, macabro, onirico, tenebroso, preoccupazione per il tempo e per lo spazio, personaggi e situazioni eccezionali. “Nel 1850” scrive Lucian Boia “tutte le formule erano in atto: fine immediata e a lungo termine, fine provvidenziale e fine naturale, fine definitiva e rinnovamento. La letteratura della fine del mondo aveva avviato la sua bellissima carriera”.[8]

Come finisce il mondo nella letteratura? 
Prima di terminare materialmente, il mondo è stato annientato con l’aiuto dell’immaginazione.[9] Si potrebbe dire che la fantasia apocalittica non conosce limiti. Nella letteratura, il mondo finisce a causa di guerre nucleari, drastici cambiamenti climatici, pandemie, carestie, eruzioni vulcaniche, invasioni aliene o animali, supremazia dei robot, rivoluzioni biologiche, collisioni di meteoriti e così via.

H.G. Wells, tra i principali scrittori britannici nel genere fantascientifico, ha pubblicato molti racconti che competono nel rappresentare la fine più catastrofica del mondo. The Time Machine (La macchina del tempo, 1895) presenta una distopia; The War of the Worlds (La guerra dei mondi, 1898), un’invasione aliena; The Island of Dr. Moreau (L’isola del dottor Moreau, 1896), la manipolazione genetica; The Shape of Things to Come (La forma delle cose che verranno, 1933), una guerra mondiale. Negli anni ’50 del Novecento, la cultura popolare americana ha conosciuto un boom esplosivo: il genere fantascientifico ha conquistato un pubblico crescente e più giovane, mentre il tema della fine del mondo è diventato comune grazie alla divulgazione della bomba atomica e all’interesse maggiore per l’esplorazione spaziale.[10] Così, molti scrittori della metà del secolo scorso hanno esasperato il tema della distruzione nucleare: Arthur C. Clarke in Childhood’s End (La fine dell’infanzia, 1953), Walter Miller in A Canticle for Leibowitz (Un cantico per Leibowitz, 1959), Kurt Vonnegut in Cat’s Cradle (La culla del gatto, 1963), Robert C. O’Brien in Z for Zachariah (Z come Zaccaria, 1974). In Ape and Essence (La scimmia e l’essenza, 1948) di Aldous Huxley, la guerra nucleare determina uno strano mondo di mutanti con regole difficili da immaginare.

Nel XX secolo, l’impatto dell’attività umana sull’equilibrio ecologico e sul cambiamento climatico è sempre più al centro della discussione. La narrativa apocalittica elabora in quel momento un nuovo modo per mettere fine all’umanità. Gli esempi includono George R. Stewart con Earth Abides (La terra sull’abisso, 1949), The Death of Grass di John Christopher (Morte dell’erba, 1956) e The Wind from Nowhere di J.G. Ballard (Il vento dal nulla, 1961), prima di suggerire nel suo ultimo romanzo, Kingdom Come (Regno a venire, 2006), che è il consumismo non il degrado ambientale a portare la civiltà alla sua fine. Nel 1954, in I Am Legend (Io sono leggenda), Richard Matheson immaginò un batterio capace di trasformare quasi tutti gli umani in vampiri, mentre in The Andromeda Strain (Andromeda, 1969), Michael Crichton descrive la traiettoria di un satellite che rientrava sulla Terra con un agente patogeno mortale.

Il tema è antico: Edgar Quinet, che aveva originariamente concepito un’opera sul modello religioso classico dal titolo Ahasvérus, scrisse La Création (La Creazione) nel 1870, in cui si chiedeva se l’umanità potesse essere rimpiazzata da una razza superiore. Anche Guy de Maupassant (in The Horla, 1887) era interessato alle stesse domande. Come loro, molti scritti del XIX secolo hanno un timbro darwiniano. Non sono mancate le pandemie apocalittiche poiché i viaggi internazionali rendevano possibile una rapida infezione da vari virus, facendo eco al tema biblico delle piaghe.

Nel 1900 l’angoscia sociale si è spostata su oggetti e pericoli nello spazio.[11] La collisione della terra con i meteoriti è diventata un altro modo di immaginare la fine del mondo. In The Conversation of Eiros and Charmion (La conversazione di Eiros e Charmion, 1839), Edgar Allan Poe parla di una cometa che avrebbe bruciato il pianeta. In The Martian Chronicles (Le cronache marziane, 1951 a cura di Ray Bradbury), la terra esplode e alcuni sopravvissuti continuano la loro esistenza su Marte (a metà del secolo scorso, l’idea di vivere su Marte era ancora presa in considerazione).

La letteratura apocalittica è semplicemente una forma di evasione, una fuga dal mondo? Oppure ha qualche significato?

La fantascienza, in particolare il suo sottogenere apocalittico, è quasi sempre allegorica e politica.[12] La narrativa apocalittica ha una visione fatalista ed è molto critica nei confronti della società, trasmettendo il messaggio secondo il quale la scomparsa dell’umanità è il risultato del proprio decadimento e della sua distruzione. Le peggiori pulsioni e i comportamenti umani sono rivelati in vista degli eventi finali.

Scrittori e lettori sono d’accordo: il mondo e l’umanità si stanno incamminando verso il caos finale; Armageddon o mondi distopici lo esprimono al meglio. Ecco perché il segnale di avvertimento è serio: ri-valutare la vita sociale e politica del mondo di oggi e lottare per un’esistenza migliore prima che sia troppo tardi. Le catastrofi raffigurano antiche ansie esistenziali.

War with the Newts (La guerra con i tritoni, 1936) è un celebre capolavoro satirico in cui Karel Čapek descrive l’amara lotta con una natura fuori controllo. I tritoni, usati a scopo di profitto, si moltiplicano e arrivano a dominare la terra, proprio come gli umani. Ma la storia è allegorica e socialmente impegnata. Il vero nemico dell’umanità non sono le creature narrate nella storia, ma l’invasione nazi-fascista che minaccia il mondo civilizzato. Che siano invasori di Marte, mostri mutanti, selvaggi, tecnocrati o in ultima analisi i nazisti, tutti rappresentano l’”altro”, il sé disumanizzato come nella commedia di Eugène Ionesco Rhinoceros, in cui la natura animata rivela l’alienazione che colpisce profondamente la condizione umana e la storia del mondo.[13]

Altre interpretazioni mostrano come le diverse varianti escatologiche, specialmente quelle causate da disastri naturali, possano essere una metafora dei conflitti umani interni. Si dice che simboleggino gli “impulsi distruttivi all’interno del sé: il desiderio di morte in tutte le sue forme omicide e suicide”.[14] In un certo senso gli scrittori richiamano la nostra attenzione sul nemico interiore, “delle forze che concepiscono i giorni del giudizio privati nel fango dell’Es” (cfr. M.P. Shiel, in La nuvola viola, 1901).

Nel suo articolo, “L’appello dell’Apocalisse”, Karen Renner scrive che le persone potrebbero cercare qualcosa di più del conforto temporaneo di un’amnesia indotta dall’adrenalina.[16] Oltre a una contemplazione pessimistica sulla corruzione del mondo, la narrativa invita a esperienze che rivelano un potenziale umano sconosciuto e, sicuramente, un altro mondo: necessariamente migliore.

(Laura Maftei è docente alla Facoltà di teologia e scienze sociali dell’Università Adventus, in Romania).

Note 
[1] V. F. Kermode, The Sense of an Ending. Studies in the Theory of Fiction, Oxford University Press, 2000, p. 4.
[2] L. Boia, Sfârșitul lumii. O istorie fără sfârșit (La fine del mondo. Una storia senza fine), Humanitas, Bucarest, 2007, p. 67.
[3] A. Borlan, Câteva idei SF despre SF (Alcune idee Sci-Fi riguardo allo Sci-Fi), in Fantastica, n. 16, 2016, https://fantastica.ro/cateva-idei-sf-despre-sf
[4] L. Boia, Op. cit., p. 67.
[5] J. Berger, After the End: Representations of Post-Apocalypse (Dopo la fine: rappresentazioni del post-apocalisse), University of Minneapolis Press, Minneapolis e Londra, 1999, p. 5.
[6] A. Prohin, Cărturarii Ţărilor Române-între istorie și profeţie-sec. XV-XVI (Gli studiosi della Romania tra storia e profezia-XV-XVI secolo), in Studia Universitatis Moldaviae, n. 4 (64), 2013, p. 24, https://humanities.studiamsu.md/wp-content/uploads/2022/01/02.-p.18-26.pdf
[7] J. C. Jolte, Imagining the End: The Apocalypse in American Popular Culture (Immaginare la fine: l’apocalisse nella cultura popolare americana), Santa Barbara, California, 2020, p. xvii.
[8] L. Boia, Op. cit., p. 69.
[9] Ivi, p. 87.
[10] J. C. Jolte, Op. cit., p. xviii.
[11] L. Boia, Op. cit., p. 93.
[12] M. M. Lisboa, The End of the World. Apocalypse and its Aftermath in Western Culture (La fine del mondo. L’apocalisse e le sue conseguenze nella cultura occidentale), Open Book Publishers, 2001, p. 31.
[13] E. S. Rabkin, M. H. Greenberg, J. D. Olander, The End of the World (La fine del mondo), Southern Illinois University Press, Carbondale e Edwardsville, 1983, p. 359.
[14] Ivi, p. 361.
[15] Ibidem.
[16] K. J. Renner, The Appeal of the Apocalypse (L’appello dell’Apocalisse), in Literature Interpretation Theory, vol. 23, no. 3, luglio 2012, p. 206, https://www.researchgate.net/publication/263364113_The_Appeal_of_the_Apocalypse

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

Pin It on Pinterest