Amici e social network

Amici e social network

Reale contro virtuale? Quali sono i rischi della corsa all’approvazione sociale? Forse è meglio ripensare a un uso consapevole della tecnologia in continua espansione.

Flaviu Tereșneu – "Ho 14 anni e sono stufa dei social media" (Riley Jackson, giovane attrice americana. ndr). Sono molti i ragazzi che misurano la loro popolarità in base al numero di follower, amici o “Mi piace” sui social media, cosa che può influenzare l’autostima
Riley ricorda la notte in cui ha deciso di dare un’occhiata a Snapchat, un social network tra i più popolari allora. Ha aperto la storia di Snapchat di uno dei suoi amici più cari, solamente per scoprire che tutta la sua comitiva si era incontrata senza di lei. Forse pensavano che fosse fuori città? Il dolore è stato insopportabile.

"La cosa più importante per me” commenta Riley “è la speranza di riuscire a bilanciare la parte migliore dei social media con il mondo reale, assicurandomi che invece di preoccuparmi di quello che mi sto perdendo, io possa ottenere il massimo da ogni momento che vivo”.

È facile pensare che avere tanti amici online ci farà sentire meglio con noi stessi. Una lista di migliaia di amici, di “Mi piace” o di follower non garantisce, però, che ci sarà qualcuno a cui rivolgerci quando saremo soli, delusi o avremo davvero bisogno di un amico. “Parlare” da uno schermo con delle persone che conosciamo a malapena non sostituisce una relazione reale e non crea un vero senso di appartenenza.

L’impatto dei social media sull’amicizia 
Nel periodo adolescenziale, l’amicizia e l’approvazione dei coetanei sono cruciali. Nel 2018, Il Pew Research Center, ha intervistato per due mesi 743 teen-ager di età compresa tra i 13 e i 17 anni e i risultati del rapporto tra social network e amicizie sono stati quelli previsti.

Circa l’81% degli adolescenti afferma che i social media li fanno sentire più connessi a ciò che accade nella vita dei loro amici. Inoltre, due terzi sostiene che queste piattaforme gli danno la sensazione di avere delle persone che li supportano nei momenti difficili.

La ricerca rivela una differenza tra gli amici sui social media e gli amici veri. Il 60% degli adolescenti dice di trascorrere del tempo con i propri amici online, ogni giorno o quasi ogni giorno. Ma solo il 24% passa del tempo di persona con i propri amici al di fuori della scuola.

La grande domanda 
È possibile che questa discrepanza tra le nostre aspettative sulla felicità che sperimentiamo online e la realtà, ci faccia sentire più ansiosi e depressi? Si tratta di una delle domande più controverse sull’uso della tecnologia da parte degli adolescenti, con studi che mostrano risultati contrastanti.

Diversi esperti ritengono che la costante sovra-stimolazione dell’uso dei social media inneschi una risposta di attacco o fuga del sistema nervoso. Di conseguenza, condizioni come l’Adhd (Disturbo da deficit di attenzione, iperattività ndr), la depressione adolescenziale e l’ansia tendono a peggiorare. In aggiunta a questo, la frequenza di utilizzo dei social media è inversamente correlata alla salute mentale degli adolescenti.

In uno studio del 2018, i ragazzi di età compresa tra i 14 e i 17 anni che utilizzavano i social media per sette ore al giorno, avevano più del doppio delle probabilità di ricevere una diagnosi di depressione, di essere curati da uno specialista della salute mentale o di ricevere terapie per un problema comportamentale nell’anno passato, rispetto a chi aveva usato i social media per circa un’ora al giorno.

L’attrice Kate Winslet ha rilasciato una dichiarazione a tale proposito: “Ha un enorme impatto sull’autostima delle giovani donne, perché tutto ciò che fanno è progettare, disegnare loro stesse per piacere alla gente. Cosa ne deriva? Disturbi alimentari. E questo mi fa ribollire il sangue. Ed è il motivo per cui non abbiamo social media in casa nostra".

Le “strisce” di Snapchat 
La maggior parte delle app dei social media vanno e vengono, rimanendo nella mente degli utenti per un breve periodo, poi svaniscono e fanno posto alla tendenza successiva. Snapchat è in continua evoluzione per evitare questa traiettoria e fa del suo meglio per mantenere gli utenti interessati, che si tratti di nuovi filtri giornalieri, trofei o di quella che sembra essere l’innovazione di maggior successo della rete, le Snapchat Streaks (strisce di Snapchat, ndr). La funzione mantiene traccia dei giorni consecutivi in cui le persone sono state in contatto tramite l’app. Snapchat Streaks è sostanzialmente un numero accanto al nome dell’utente.

Nel campus della Drake University, il numero medio di contatti tra gli studenti delle scuole superiori e universitari è stato di 390 giorni consecutivi. Liz Bregenzer e Anna Jensen, due studentesse, hanno superato i 1.000 giorni consecutivi su Snapchat. Dicono che sia importante tenere il passo perché sarebbe devastante perdere un record così determinante. E non devono fare troppo per mantenerlo: Snapchat sembra più una app di messaggistica di testo, racconta Bregenzer. Anche se le opinioni variano, alla maggior parte degli utenti di Snapchat piace il fatto di poter esprimere le proprie emozioni e azioni in modo molto più chiaro rispetto ai messaggi di testo.

Anche la studentessa del primo anno, Zoe Dittmar, ha una lunga serie di visualizzazioni Snapchat: oltre 1.000. Pensa che per molti giovani, Snapchat sia semplicemente un modo più facile per conoscere gli altri e che è possibile avere una conversazione molto più breve sull’app rispetto agli altri sistemi di messaggistica.

Non tutti però capiscono la ragione del clamore suscitato dagli Snapchat Streaks, e alcuni sono convinti che incoraggi un tipo di comunicazione insensata. “Non ho mai visto Snapchat come una parte importante dell’uso dei social media per la natura quasi forzata dell’app. Il solo fatto di fotografare volti e intrattenere piccole conversazioni senza una vera ragione, per me non ha senso" commenta Anna Neidermeier, matricola alla Drake University "Queste strisce sono diventate caratteristiche di Snapchat e penso che rafforzino l’idea che sia importante mantenere una certa immagine sociale, un certo numero di conversazioni consecutive e un certo numero di notifiche ogni giorno per sentirsi bene con se stessi".

Snapchat Streaks è diventato virale sull’app, ma è anche un tema controverso. In molti si chiedono se le strisce siano un buon modo di comunicare che sostituirà i messaggi di testo, o una forma di comunicazione priva di significato che porta semplicemente a una crescente dipendenza dalla tecnologia.

Il valore della vita lontano dagli occhi del pubblico 
In questo momento, amici, personaggi famosi, persino gente che non conosciamo raccontano la propria vita pubblicamente, con poco riguardo per la riservatezza o le sue conseguenze. L’universo in continua espansione di queste piattaforme richiede un comportamento più ponderato, che consenta a noi utenti di definire il modo in cui vogliamo interagire con i nostri amici e con il mondo online. Altrimenti rischiamo di consentire ai social media di definire e, potenzialmente, distruggere le nostre amicizie.

“Desidero soltanto che la gente osservi il lavoro di cui sono orgogliosa. Sento come se permettessi che le persone mi tocchino quando sono su Instagram o Twitter, e non voglio essere toccata in ogni momento. Non lo farò. Mai" (Elizabeth Olsen, attrice statunitense)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

Ben Carson, la fede di un chirurgo

Ben Carson, la fede di un chirurgo

Una riflessione sul percorso personale e professionale del celebre neurochirurgo. L’adolescenza turbolenta a Detroit, l’amore della madre, l’impegno nella chiesa avventista e un punto fermo: la gratitudine per il dono di mani “speciali”.

Jarrod Stackelroth – Una lama spezzata. Le mani tremanti. La mente annebbiata. “Avrei potuto ucciderlo.” La rabbia provata solo pochi istanti prima era scivolata via, le sue onde scure si erano ritirate, sostituite da un senso di vergogna travolgente e dal rimpianto.

A 14 anni, Bennie aveva quasi ucciso il suo migliore amico. Fortunatamente, quasi per caso il coltellino si era impigliato nella grande fibbia della cintura. Vide la sua vita come un flash davanti ai suoi occhi e pensò a cosa sarebbe potuto accadere se il coltello fosse affondato nella carne viva.

Una lama affilata. Le mani ferme. La mente chiara. “I tuoi figli vivranno”. La sua fronte si distende dopo che l’intensa concentrazione per un’operazione di 20 ore scivola via, sostituita da un senso di calma, una sensazione di soddisfazione travolgente.

Il dottor Ben, più adulto, più calmo e più saggio, ha appena salvato la vita di una persona, non per merito della fortuna, ma grazie a una pianificazione meticolosa, un’attenta conoscenza della sua equipe e del suo paziente, e grazie a un dono ricevuto da Dio: le sue “mani dotate”.

Ascoltando adesso il dottor Benjamin S. Carson, difficilmente penseremmo che quel medico dalla voce morbida ed eloquente fosse lo zimbello della classe, prima di diventare un adolescente arrabbiato e dalla parlantina intelligente. La sua voce è gentile e delicata. Le sue parole sembrano ben ponderate mentre illustra i rischi connessi all’intervento chirurgico e ne spiega i benefici.

Forse il neurochirurgo più famoso al mondo, Carson ne ha fatta di strada dalla sua infanzia nei quartieri poveri di Detroit. Dopo la laurea alla Yale University, a 33 anni è diventato direttore della neurochirurgia pediatrica del Johns Hopkins Medical Institutions di Baltimora, nel Maryland, Stati Uniti. Due scuole portano il suo nome, la Benjamin S. Carson Honors Preparatory Middle School e la Dr Benjamin Carson Academy of Science, con sede a Milwaukee, nel Wisconsin. Nel 2004, Carson è stato nominato membro del Consiglio del Presidente degli Stati Uniti per la bioetica. È autore di tredici libri, ha istituito un fondo per aiutare i bambini in difficoltà negli studi e interviene spesso nelle scuole, nelle chiese e in altre istituzioni in giro per il mondo.

Carson è rimasto radicato nella sua famiglia e nella sua fede, cosa che molti neurochirurghi hanno difficoltà a fare. In un’intervista rilasciata a Kim Lawton della Pbs, racconta di quanti chirurghi specializzati in diversi campi possono sviluppare un “complesso di dio”. “Entri in ambiti incredibilmente delicati che controllano l’esistenza di una persona, e devi avere un ego giusto per pensare di poterlo fare”, sostiene Carson.

E aggiunge: “Personalmente mi rendo conto da dove viene tutto. Tutte le cose buone provengono da Dio. Non posso davvero rivendicarne nessuna”.

Nella sua carriera medica, Carson ha vissuto alti e bassi. Ha acquisito una grande esperienza lavorando per un anno a Perth, in Australia, prima di finire la sua specializzazione. Operando al Johns Hopkins, l’ospedale in cui aveva sempre desiderato lavorare, ha raggiunto rapidamente il vertice nel suo campo, aprendo la strada a nuove tecniche e assumendosi dei rischi che altri medici spesso non sono disposti o non sono in grado di correre.

Probabilmente lo ricordiamo in particolare per il suo intervento di separazione di una coppia di gemelli siamesi. Nel 1987, Carson scrisse la storia della chirurgia separando i gemelli Binder che erano uniti nella parte posteriore della testa. Spesso, uno o entrambi i bambini legati in questo modo hanno probabilità di morire, ma l’intervento chirurgico, durato 22 ore, ebbe successo.

Nel 1997, separò i ragazzi Banda in Sudafrica. I due condividevano i principali vasi sanguigni nella parte posteriore del cranio. Fu un’operazione rischiosa che Carson preparò in anticipo su un tavolo di lavoro virtuale 3D computerizzato. Ci vollero 28 ore e un’equipe di 50 persone prima che l’intervento fosse concluso con successo.

Carson ha anche perfezionato, e riportato in uso, una tecnica chiamata emisferectomia, in cui un emisfero, metà del cervello, viene completamente rimosso. La tecnica ha salvato molti bambini che soffrivano di convulsioni gravi e frequenti. Una pratica che non funziona negli adulti, invece il cervello dei bambini può adattarsi: se si riscontra una certa debolezza residua sul lato asportato, le convulsioni di solito si arrestano e la vita del bambino non solo viene salvata, ma notevolmente migliorata.

Le cose, tuttavia, non vanno sempre nel modo giusto.

Nel 2003, le sorelle Bijani, di 29 anni, hanno chiesto di essere separate. Si è trattato di un intervento chirurgico rischioso per l’età delle donne. C’era una probabilità del 50% che l’operazione avesse, e Carson inizialmente era riluttante. Le due sorelle dichiararono che avrebbero preferito morire piuttosto che rimanere unite. Purtroppo non ce la fecero.

Il dott. Ben Carson è un avventista del settimo giorno impegnato e frequenta regolarmente la chiesa. Sua madre incontrò la donna che le fece conoscere la comunità quando era in ospedale per la nascita di Carson. La fede rappresentava un importante e forte pilastro per quella giovane madre single. Dio è parte integrante della vita di Carson e del suo lavoro da quando, all’età di 14 anni, comprese che il Signore può davvero cambiare l’esistenza. Dopo quell’episodio in cui era armato di coltello, Carson sapeva di avere un problema, un temperamento da lui definito “patologico”. Si chiuse in bagno per tre ore a leggere il libro biblico dei Proverbi, chiedendo intensamente a Dio di cambiare il suo atteggiamento. E il Signore lo fece.

“Ne fui molto grato” racconta il chirurgo “e ha davvero modificato la mia relazione con Dio: prima era il mio Padre in cielo, ora è diventato il mio padre terreno, visto che non ne avevo uno”.

Carson trascorre ancora del tempo, ogni giorno, a leggere i Proverbi. Vi è un aspetto piuttosto ironico nel suo amore per questo libro e nell’effetto che ha avuto sulla sua vita.

I Proverbi sono stati scritti dal re Salomone, considerato l’uomo più saggio che sia mai esistito, e Carson crede fermamente nella saggezza donata da Dio. Il secondo nome del neurochirurgo è proprio Solomon; inoltre, il primo evento che gli ha dato notorietà è stato la separazione di due gemelli siamesi. Uno dei primi gesti di Salomone come re d’Israele fu quello di suggerire di dividere un bambino conteso da due donne.

Carson crede fortemente che Dio gli doni il talento e la saggezza per compiere quello che fa. Prega prima di ogni intervento chirurgico e chiede alle famiglie dei suoi pazienti di fare altrettanto. “La mia ferma convinzione è che Dio abbia creato gli esseri umani e quindi conosce ogni aspetto del corpo umano” ha raccontato a Lawton nella sua intervista “Quindi, se voglio curare un corpo, devo solo rimanere in armonia con il Signore. E come si fa? Ti focalizzi sulle cose di Dio e cerchi di respingere dalla tua mente le cose che non lo sono”.

Carson ha avuto bisogno di tutta la sua fede nel 2002, quando gli è stato diagnosticato un cancro alla prostata, che sembrava essersi diffuso nel corpo. La prospettiva era grave ma lui, nonostante fosse scosso, lo ha accettato con dignità. Questa esperienza gli ha cambiato però la visione sulla vita. “Mi ha offerto una vera prospettiva… Ricordo che il giorno dopo la risonanza magnetica, camminavo nel mio giardino e mi sono accorto di così tanti aspetti che non avevo mai notato prima. La bellezza delle foglie sugli alberi, i fili d’erba e le incredibili sinfonie intonate dagli uccelli che non avevo mai ascoltato prima di allora… Penso di essere diventato più empatico perché quando si affronta la morte o delle esperienze orribili, si avverte un senso reale di come si sta. Quindi, penso sia stata una cosa positiva”.

La visione ottimistica di Carson sulla vita lo ha invitato ad abbracciare il rischio. Nel suo ultimo libro, Take the Risk (Rischiate), incoraggia i lettori ad accogliere il rischio nella propria esistenza in modo da non rinunciare al raggiungimento del proprio potenziale. “Penso sia saggio fermarsi con raziocinio” sostiene “e considerare quali sono i rischi, non solo su base giornaliera ma su base settimanale, mensile, annuale, esistenziale per pianificare la propria vita di conseguenza”.

Il dott. Carson è passato dall’essere un adolescente a rischio a un uomo che sa correre dei rischi per salvare vite umane. Ha capito che la chirurgia è un’attività in cui è capace, ma rimane in soggezione davanti all’opera di Dio. “È il cervello umano che dà personalità a un individuo e che ci distingue gli uni dagli altri. Non amo particolarmente tagliare il cervello. È qualcosa di così bello, perché sezionarlo?” riflette.

“Non sono nemmeno sicuro che mi piaccia la chirurgia, ma amo quello che è in grado di fare, ne apprezzo gli effetti. Mi piace poter dare alle persone una vita più longeva e di qualità”.

(Jarrod Stackelroth è redattore della rivista Signs of the Times Australia e vive a Sydney, in Australia, con sua moglie e il loro bambino. Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul sito web Signs of the Times Australia/New Zealand ed è ripubblicata dietro autorizzazione).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

Sentirsi tristi

Sentirsi tristi

Alla domanda “Come stai?” raramente rispondiamo “sono triste”. Abbracciare uno stato d’animo spiacevole, e accettarlo, può trasformarsi in un viaggio di consapevolezza verso la vera felicità.

Zanita Fletcher – Mi considero una persona abbastanza onesta, ma quando qualcuno pone l’innocente domanda "Come va?", spesso sono tentata di distorcere la verità. Non fraintendetemi, la maggior parte delle volte sono piuttosto gentile. Eppure ci sono stati dei momenti in cui ero sconvolta e vivevo stagioni di lotta interiore, e nel momento in cui questo interrogativo mi veniva rivolto, il mio istinto mi spingeva a tenere dentro di me tutto quello che stavo attraversando… quindi rispondevo: “Bene, grazie. E tu?”.

La nostra cultura è ossessionata dalla ricerca della felicità. Negli ultimi anni l’industria dell’auto-aiuto è esplosa raggiungendo livelli record e si prevede che continuerà a crescere. Ci sono libri, articoli, podcast, seminari online e app che offrono consigli su come vivere felici. “Come essere felici”, “Qual è la chiave della felicità?”, “Le abitudini delle persone felici”, “Come essere felici da soli?" e "Come rimanere felici quando si è stressati" sono tra le ricerche più popolari su Google.

Helen Russell, giornalista e autrice di How to Be Sad: Everything I’ve Learned About Getting Happier By Being Sad Better (Come essere tristi: tutto ciò che ho imparato su come diventare persone più felici essendo tristi), ha dedicato gran parte della sua carriera a scrivere di felicità. Nel farlo ha scoperto che c’era riluttanza a essere tristi e che potremmo sperimentare maggiore felicità se imparassimo ad abbracciare la nostra tristezza. Secondo Russel, mentre molti di noi sanno, da un punto di vista intellettivo, che ci si aspetta di essere tristi, non siamo sempre disposti a permetterlo. Piuttosto, abbiamo varie stampelle alle quali appigliarci per evitare il dolore e di dire “scusa” quando piangiamo, come se credessimo che le nostre lacrime gravino sugli altri.

Spesso le persone pongono grandi domande sulla felicità quando vivono una forte delusione o una perdita, ad esempio dopo la scomparsa di una persona cara, aver ricevuto una diagnosi o essere uscite da una brutta separazione, situazioni in cui la tristezza è la risposta appropriata. Probabilmente, invece di motivarci a uscire da queste circostanze il più rapidamente possibile, vi è un momento per essere tristi per un po’, un beneficio nella tristezza e, forse, con le giuste strategie possiamo essere tristi in modo migliore.

Definire la tristezza 
Quando parlo di tristezza, intendo quell’emozione temporanea che proviamo a causa della delusione, dell’insoddisfazione o della perdita, che spesso passa con il tempo o con il sostegno. La sperimentiamo tutti. La tristezza è diversa dalla depressione, che è un insieme di sintomi che persistono nel tempo.[1]

La tristezza differisce anche dal dolore che è una risposta emotiva complessa, dovuta a una perdita significativa. Il dolore comprende una serie di sentimenti come lo shock, la rabbia, la negazione e il senso di colpa, e tende a essere un’esperienza emotiva più intensa e prolungata.[2]

Tutti conosciamo quelle persone che fuggono dal sentimento della tristezza. Non piangono, non guardano le scene tristi dei film e si bloccano quando le conversazioni vanno più in profondità. Possiamo anche capirne le ragioni. La tristezza è scomoda e invadente. In molti ambiti della nostra vita, è presente questa idea che se qualcosa non va, dobbiamo metterla a posto. Così, quando sorge la tristezza, cerchiamo di risolverla con un approccio del tipo "mantieni la calma e vai avanti". Daniel Wegner, psicologo di Harvard, afferma che questo approccio alle emozioni negative non funziona e può avere implicazioni reali. La sua ricerca mostra che quando si tratta di sentimenti come la tristezza, il ripiego che consiste nell’indossare una faccia felice può in effetti farci sentire peggio.

L’Università del New Galles del Sud ha scoperto una serie di cose positive che emerge dalla tristezza. “Anche se si è parlato molto dei numerosi benefici della felicità, è importante considerare che anche la tristezza può essere benefica. Le persone tristi sono meno inclini agli errori di giudizio, sono più resistenti alle contraddizioni dei testimoni oculari, a volte sono più motivate e più sensibili alle norme sociali. Possono anche agire con più generosità" sostiene Joseph P. Forgas, professore di psicologia.[3]

Charles Darwin ha negato l’utilità delle lacrime, ma gli studi dimostrano che il pianto può essere un modo efficace per riprendersi dalle forti emozioni e aiutare a rimuovere gli ormoni dello stress come il cortisolo.

Affrontiamola 
Come possiamo allora tenerci la nostra tristezza ed essere tristi in modo migliore? Il primo passo è smettere di combatterla. Molte azioni che compiamo in risposta alla tristezza sono tentativi di anestetizzare noi stessi ed evitare il dolore. Lo facciamo tenendoci occupati, bevendo alcolici, mangiando poco o con esagerazione, praticando troppo esercizio fisico e così via. Queste strategie di adattamento a volte possono apparire risolutive in superficie, in realtà rappresentano il nostro modo di scappare dalle emozioni difficili.

Il passo successivo che si può compiere è elaborare quello che sentiamo. Provate a percepire i vostri sentimenti di tristezza, anche solo per un paio di minuti. Aiuta anche aprirsi ad altre persone quando ci sentiamo giù. Avere qualcuno con il quale possiamo essere sinceri può essere davvero utile. I momenti in cui siamo vulnerabili su ciò che proviamo sono spesso quelli che ci fanno sentire più profondamente connessi con le persone nella nostra vita. Parlarne aiuta ad alleviare le emozioni e a stare meglio.

Altre pratiche possono essere utili secondo la scienza. È stato dimostrato che la musica e la poesia riducono lo stress e possono rivelarsi buoni compagni quando siamo tristi. Libri e film, inoltre, ampliano la prospettiva e ci aiutano a sentirci meno soli.

Impariamo da altre culture 
I Paesi occidentali fanno eccezione nel loro desiderio di minimizzare ed evitare la tristezza; altre culture, al contrario, hanno imparato ad accettarla e abbracciarla. In Giappone, le persone accolgono la tristezza come una parte naturale dell’esperienza umana. La loro cultura incoraggia l’espressione emotiva attraverso le arti tradizionali come la poesia haiku e il teatro che esplorano di frequente i temi della perdita. In Russia, è dato valore al fatto di essere tristi perché ti rende una persona migliore. In Africa, quando qualcuno sperimenta la tristezza, la comunità si riunisce per esprimere apertamente le emozioni, e cercare aiuto è visto come un segno di forza piuttosto che di debolezza. La cultura māori, in Nuova Zelanda, include il canto per manifestare una serie di emozioni. Queste pratiche sono spesso messe in atto durante i funerali e in altri eventi significativi della vita per elaborare e onorare le emozioni.

È difficile ma importante 
Anche se la tristezza può non essere piacevole, c’è uno scopo da trovare in essa e possiamo imparare a sopportarla e a superarla in modo sano. Non vogliamo rimanere in quello spazio per sempre, ma nei momenti difficili può sembrare assurdo guardare il lato positivo, riprendersi o mantenere la calma e andare avanti, come suggerisce il gergo culturale.

Meik Wiking, amministratore delegato dell’Happiness Research Institute, ha dichiarato: “In ogni esistenza umana ci saranno periodi di infelicità. Questo fa parte dell’esperienza dell’umanità. Imparare a essere tristi è il primo passo naturale per essere più felici”. Questo è vero nelle Scritture quando leggiamo: "Nel mondo avrete tribolazione" (Giovanni 16:33) e “c’è il suo momento per ogni cosa… un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare" (Ecclesiaste 3:1, 4).

La tristezza potrebbe non essere una sensazione fantastica, ma è importante. Se perseguire una vita di felicità è ammirevole, occorre essere realistici e riconoscere che a volte accade l’inaspettato, ed essere tristi per un po’ va bene. A volte dovremmo avere la capacità di affermare: "Forse non dovrei essere felice in questo momento".

Paradossalmente, se permettiamo a noi stessi di essere tristi, potremmo essere capaci di sperimentare la felicità più a lungo termine. Perché gli studi mostrano che non si può essere felici senza essere tristi.

(Zanita Fletcher è una life coach e assistente redazionale per l’edizione Australia/Nuova Zelanda di Signs of the Times. Scrive dalla Gold Coast, nel Queensland)

Note 
[1] American Psychiatric Association, Diagnosis and Statistical Manual of Mental Disorders (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), 5a ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 2013. 
[2] Brené Brown, Atlas of the Heart: Mapping Meaningful Connection and the Language of the Human Experience (Atlante del cuore: mappare connessioni significative e il linguaggio dell’esperienza umana). New York, Random House, 2021. 
[3] Joseph P Forgas, Four Ways Sadness May Be Good For You (Quattro modi in cui la tristezza può farvi del bene), Greater Good Science Center, 4 giugno 2014.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

Perché non dovremmo trascurare la preghiera all’ora dei pasti

Perché non dovremmo trascurare la preghiera all’ora dei pasti

Potrebbe apparire un rituale superfluo, tramandato di generazione in generazione; una formula recitata meccanicamente. Eppure, la preghiera prima di mangiare può rappresentare un vero e proprio esercizio spirituale.

Carmen Lăiu – La sensazione di sazietà è stata un lusso per la maggior parte delle persone durante quasi tutta la storia dell’umanità, afferma l’oncologo Ezekiel Emanuel, sottolineando che basterebbe solo questo motivo per convincerci di pregare prima di mangiare. Il medico ebreo racconta di aver cresciuto i suoi figli in questo modo, ringraziando per ogni pasto condiviso, e come abbia sentito un vuoto quando i suoi figli sono cresciuti e si sono allontanati, rendendo sempre più rare le opportunità di pregare prima di mangiare. Quindi, quando è andato al ristorante con gli amici, non ha perso l’occasione di esprimere gratitudine per l’abbondanza di cibo (cosa che non è accessibile a tutti gli abitanti del nostro pianeta, nemmeno nel XXI secolo).

Dire grazie prima dei pasti è una pratica diffusa negli Stati Uniti, come dimostra un sondaggio condotto dal Washington Post e dalla Kaiser Family Foundation. Quasi la metà degli americani dedica circa un minuto alla preghiera prima di mangiare; questa percentuale sorprendentemente riguarda gli americani del Nord e del Sud, aree urbane e rurali, cattolici e protestanti, democratici e repubblicani.

In effetti, la breve preghiera è "un modo potente per ricordare a te stesso che non sei autosufficiente, che vivi per grazia di qualcuno, che molte altre persone che lavorano tanto quanto te non hanno nulla da mangiare", commenta il pastore Tim Keller, riassumendo alcuni dei motivi per cui persone di fede diversa si avvicinano ancora alla loro tavola, imbandita o meno, con la testa china e le mani giunte in preghiera.

La preghiera dei pasti che esprime gratitudine 
L’uomo moderno ha perso la vera gioia di mangiare (e cucinare), sviluppando una relazione squilibrata con il cibo, afferma Tracie Abram, educatrice alla salute. Ci concentriamo sempre meno sul contenuto del nostro piatto: non consentiamo agli occhi di trovare piacere nella gamma di colori, né lasciamo che le papille gustative assaporino a lungo ogni boccone. E dal momento che perdiamo la gioia di guardare, annusare e masticare accuratamente, compensiamo con le dimensioni delle porzioni e il conteggio delle calorie. Il cibo è considerato un dato di fatto, e l’atto di mangiare si fonde con (o è addirittura inghiottito da) altre attività quotidiane più o meno importanti. 

Cosa accadrebbe se ci prendessimo del tempo per capire quanto siamo fortunati a non preoccuparci di cosa mangeremo o se avremo cibo per il prossimo pasto?

Immagina la gratitudine che proveresti per una sola fetta di pane se dovessi togliere l’erba e arare il campo, seminare e raccogliere il grano, macinare e setacciare la farina, tagliare e bruciare la legna per cuocere il pane, dice Tracie Abram. Anche se per molte persone questo resta solo un esercizio di immaginazione, dal momento che i loro alimenti provengono in gran parte dagli scaffali dei negozi, il dato di fatto che abbiamo a disposizione un pasto abbondante, al punto da non lasciarci affamati, è di per sé un grande motivo di gratitudine.

Anne-Marie Dole è abituata a pregare prima di mangiare e ammette che a volte le parole della preghiera scivolano giù insieme alle lacrime. Dole, 56 anni, un tempo era addestratrice professionista di cavalli; purtroppo, un incidente d’auto l’ha relegata su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. “Esprimo solo gratitudine a Dio perché ho del cibo. Sai, è una cosa orribile soffrire la fame", dice mentre racconta di sapere per esperienza cosa significa non avere da mangiare.

La preghiera dell’ora dei pasti è l’attimo che ci prendiamo per esprimere la nostra gratitudine per il cibo che abbiamo. I nostri pasti abbondanti rientrano in quei buoni doni che l’apostolo Giacomo afferma provengano da un’unica fonte: “Ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre degli astri luminosi presso il quale non c’è variazione né ombra di mutamento” (Giacomo 1:17).

Fare una pausa prima di mangiare, anche solo per pochi secondi, e ringraziare Dio per il cibo vuol dire ricordare che è il Signore a provvedere. A volte, siamo accecati dal dolore nel mondo, ma dobbiamo spalancare gli occhi per scorgere tutta la bontà che ci circonda, ammette lo scrittore Cole Douglas Claybourn. Occorre assaporare questo dono essenziale che riceviamo ogni giorno, così come dobbiamo trovare pace nella promessa che Dio si prenderà cura dei nostri bisogni essenziali se lo cercheremo prima di ogni altra cosa.

La preghiera ai pasti è anche un esercizio di umiltà, dice il pastore Erik Raymond. Sono quei momenti in cui riconosciamo di non essere Dio, di non poter controllare le circostanze. Sono istanti in cui freniamo "il nostro sfoggio di autosufficienza" e osserviamo le cose dalla giusta prospettiva.

Preghiera e apostasia durante i pasti 
Molti dei partecipanti al sondaggio del Washington Post e della Kaiser Family Foundation hanno dichiarato di aver preso sul serio la preghiera all’ora dei pasti quando avevano dei bambini, perché volevano instillare in loro la pratica della preghiera.

Nessuno è così ingenuo da credere che la preghiera durante i pasti impedisca a qualcuno di perdere la fede. Il pastore Erik Raymond confessa di credere che il ruolo di questa pratica sia più significativo di quanto siamo soliti pensare, anche quando si tratta di evitare l’apostasia, il rinnegamento della propria religiosità. Da un lato, sostiene Raymond, l’ingratitudine è indubbiamente il segno di un cuore scettico (cfr. Romani 1:21), e trascurare di avere un posto per Dio nella nostra coscienza ha gravi conseguenze (cfr. Romani 1:28).

In due decenni di ministero, durante i quali ha ascoltato molte preghiere al momento dei pasti, il pastore Raymond ha affermato di essere riuscito a discernere alcuni indizi sullo stato spirituale di una persona anche da quelle poche parole pronunciate prima di mangiare. A volte, era seduto con qualcuno che aveva ringraziato Dio per il pasto in un tale modo da farlo sentire benedetto. Ma altre volte, aveva avvertito il declino spirituale di una persona dal modo meccanico in cui pregava o dalla riluttanza a farlo. La sua conclusione è che la preghiera ha un effetto essenziale, quello di connetterci al Dio che dona ogni cosa buona, quindi, non dovrebbe essere trascurata in nessuna circostanza, non importa quanto semplice possa sembrare.

La preghiera, una chiave per la testimonianza cristiana 
Scrivendo della vita di preghiera di Gesù, l’autrice Ellen G. White sottolinea la stretta connessione di Cristo con il Padre: "… anche Cristo, durante il suo servizio terreno, chiese al Padre di rinnovare quotidianamente il dono della grazia. Da questa intima comunione con Dio, Gesù ricevette la forza per aiutare e benedire gli altri".

La Bibbia ci mostra che Gesù si fermava a pregare prima dei pasti, sia che fosse con i suoi discepoli sia che si rivolgesse a una folla. Prima di nutrire le cinquemila persone venute ad ascoltarlo, “prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, li benedisse; spezzò i pani…” (Matteo 14:19, ND). A tavola con i due discepoli che aveva accompagnato come uno straniero sulla strada per Emmaus, "prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro" (Luca 24:30, Cei).

Quando preghiamo, seguiamo semplicemente l’esempio di Gesù. Allo stesso tempo, la preghiera per i pasti può anche rappresentare una forma di testimonianza, anche se non è il suo obiettivo primario.

La preghiera prima di mangiare in un luogo pubblico costituisce una "testimonianza dirompente", afferma il professore cristiano Alan Noble che ammette di essersi spesso sentito a disagio in situazioni come quelle. Il disagio è qualcosa che molti cristiani possono provare quando cenano in un ristorante o in un altro ambiente pubblico. In una società laica, la preghiera è vista come un atto religioso intimo, meglio se praticato a casa o in chiesa. Pertanto, nella sfera pubblica, diventa una testimonianza che si oppone all’idea di dover esprimere in modo discreto la nostra fede in quanto scelta personale, qualcosa che nascondiamo nella nostra vita esteriore. Se da un lato non dovremmo pregare in pubblico solo per essere visti, per scioccare o mettere a disagio gli altri, evitare la preghiera semplicemente perché non è considerata una pratica socialmente desiderabile significa arrendersi alle idee imposte dalla laicità, evidenzia il professor Noble.

La "stranezza" della preghiera all’ora dei pasti deriva dal fatto che contraddice la prospettiva materialistica, aggiunge Noble. In una società in cui alcuni danno il cibo per scontato e altri vedono nella sua produzione l’ingegnosità umana, che è riuscita a rendere disponibile una vasta gamma di prodotti alimentari su larga scala e a costi ragionevoli, la preghiera di gratitudine propone una visione completamente diversa: i nostri pasti provengono dalla mano di Dio, sono il suo dono per noi. Perciò, quando ci fermiamo a ringraziare per il cibo, quello che stiamo compiendo è riconoscere (e trasmettere) il fatto che al di là dell’imballaggio, della tecnologia e dell’efficienza umana, vi è la potenza di Dio che sostiene tutto.

Sottolineando la riluttanza di molti cristiani a pregare in presenza degli ospiti, l’autrice cristiana Megan Hill afferma che la preghiera dovrebbe essere parte integrante dell’ospitalità cristiana. Se i nostri ospiti sono credenti, allora pregare insieme è un dono che offriamo loro: dà la sensazione di essere a casa quando sono lontani dalla loro. Dall’altra parte, se abbiamo ospiti che non hanno familiarità con la preghiera, invitarli a partecipare ai nostri regolari momenti di lode e ringraziamento è un modo per mostrare la stessa cura per i loro bisogni spirituali oltre che per quelli fisici. Nell’intimità delle nostre case, la preghiera può comunicare in modo convincente le priorità nel cuore di un cristiano, dimostrando che tutto ciò che possediamo e tutto ciò che siamo non è dovuto alle nostre capacità ma alla grazia di Dio.

 Megan Hill sostiene che le preghiere di Stefano martire (cfr. Atti 7:58-60) devono aver echeggiato nelle orecchie dell’apostolo Paolo fino alla sua conversione, proprio come le preghiere di Paolo hanno suscitato il desiderio del carceriere di Filippi di saperne di più su Dio (cfr. Atti 16:25-34). E Ci incoraggia a pregare più spesso insieme ai nostri ospiti.

In definitiva, il viaggio dalla tavola imbandita di oggi al banchetto nuziale dell’Agnello (cfr. Apocalisse 19:9) per qualcuno può iniziare proprio da qui, con il gentile mormorio di una preghiera di ringraziamento.

(Carmen Lăiu è redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

 

 

 

Un tempo per perdonare

Un tempo per perdonare

Il libro di Darold Bigger, A Time to Forgive, è la storia di un pellegrinaggio attraverso il vuoto del dolore e del trauma. Un padre, devastato dall’enormità della sua perdita, lotta per perdonare l’assassino di sua figlia.

Carmen Lăiu – Pastore, professore alla Walla Walla University e poi cappellano, Darold Bigger, scrive un libro nato dal tumulto di una perdita inimmaginabile e lo dedica a "chiunque abbia bisogno di perdonare o di essere perdonato, cioè tutti noi".[1]

La prima parte del volume, divisa in nove capitoli, è un resoconto delle circostanze che riguardano la morte di Shannon, la prima delle due figlie della famiglia Bigger. L’autore riesce a trasportare il lettore nei retroscena di questa tragedia, seguendo lentamente il vortice degli eventi e delle emozioni, a partire dalla mattina della morte di Shannon e per finire con il momento in cui i suoi genitori, dieci anni dopo, sono tornati sulla scena del crimine.

Siamo guidati attraverso tutte le fasi della perdita, con un turbinio di dettagli e rivelazioni sul terremoto emotivo vissuto dalla famiglia. Impariamo a percepire l’impronta lasciata dalla morte di una persona in circostanze che non saranno mai completamente comprese, con il sostegno degli amici e della comunità. I primi capitoli sono una raccolta dei gesti, dei messaggi e delle conversazioni che hanno provato a confortare il cuore spezzato dei genitori. Bigger tenta anche di mettere insieme un ritratto di Shannon sulla base dei loro ricordi e delle testimonianze di amici, conoscenti e persone estranee, per assicurarsi che non sia dimenticata, ma anche per dare un senso a questa morte che non ne ha, riflettendo sul significato della sua vita troppo breve.

Shannon è stata uccisa a casa sua alla fine del tirocinio nel dipartimento Sviluppo del Washington Adventist Hospital. Solo due settimane dopo, suo padre sarebbe dovuto arrivare con una roulotte per portare lei e tutte le sue cose in Idaho, sul nuovo posto di lavoro. La notte dell’omicidio, sua cugina Ava si era offerta di stare con lei, ma Shannon aveva rifiutato: voleva riposare un po’ e trascorrere la serata a preparare le valigie, visto che il trasloco era vicino. Il giorno dopo Shannon non si è presentata al lavoro e non ha risposto al telefono; è stata trovata senza vita nel suo letto, accoltellata più volte.

L’assassino, un giovane di nome Anthony Robinson, fu trovato presto dalla polizia; sosteneva che Shannon lo aveva invitato a studiare la Bibbia dopo un incontro in un centro commerciale. Diceva che il motivo dell’omicidio dipendeva dal fatto che lei era stata irrispettosa nei suoi confronti. Anthony cambiò la sua versione almeno otto volte, quindi i genitori della ragazza non hanno mai scoperto cosa fosse accaduto davvero quella notte. Tuttavia, conoscendo Shannon, la sua famiglia ha respinto del tutto alcuni scenari, confortandosi con altri. Shannon era nota per il suo blocco emotivo in situazioni di pericolo; perciò, i suoi genitori pensavano che fosse probabile (come ritenevano anche coloro che avevano indagato sul caso) che avesse perso conoscenza molto presto.

"Non pensavo che la gente potesse piangere così tanto" confessa Bigger, cercando di riportare squarci di dolore che ha vissuto all’inizio: vedere sua figlia al telegiornale all’interno di uno di quei grandi sacchi di plastica in cui sono avvolti i corpi, parlare con l’impresa di pompe funebri del modo in cui coprire le ferite per lasciare la cassa aperta, partecipare alla cena in chiesa dopo il funerale e condividere i ricordi di Shannon, studentessa universitaria a Walla Walla.

Nella prima parte del libro, Bigger espone alcune delle domande strazianti che lui e sua moglie hanno affrontato, concludendo che non ci sono risposte facili alle tragedie che si verificano in un mondo decaduto. Anche se si è tentati di credere che la morte di Shannon avrebbe potuto essere evitata (se avesse vissuto altrove, o se la situazione finanziaria dell’aggressore non fosse stata così disperata), Bigger pensa che la sua morte sia "un esempio della ben più sinistra realtà che il male permea ogni essere umano"[2] e che il male che affligge il nostro pianeta non sarà distrutto fino al giorno in cui Dio vi porrà fine per sempre.

Scrivendo a proposito dei doni che hanno alleviato il suo dolore (come quello di una comprensione più chiara nel momento in cui le persone parlavano dell’impatto che la vita di Shannon aveva avuto su di loro; il dono del tempo che sbiadisce i ricordi; il dono della speranza per un mondo migliore), Bigger descrive apertamente quanto sia difficile far fronte ai grandi cambiamenti che sopraggiungono dopo la morte di un figlio. Racconta di quanto sia complesso venire a patti con il fatto che il tuo compagno di vita possa cambiare a causa del trauma e che devi adattarti a quei mutamenti. Oppure accettare che ogni membro della famiglia abbia il proprio tempo di guarigione. O pensare a tutto quello che tua figlia ha perso morendo a soli 25 anni. Infine, raggiungere una nuova prospettiva sulle tue ferite e cercare modi per portare guarigione e speranza a coloro che sono stati feriti e hanno bisogno di sostegno.

La seconda parte del libro presenta una serie di spiegazioni e principi sul perdono e su come si fa a esercitarlo. Molte di queste esperienze sono state provate o adottate nel periodo in cui l’autore ha affrontato un’ondata di rabbia e risentimento. Un anno dopo la morte di Shannon, Bigger scoprì che sotto il dolore schiacciante che aveva intorpidito ogni altra emozione, c’era una rabbia consumante, alimentata in parte dal comportamento dell’autore del reato. Anthony non aveva mostrato alcun segno di rimorso durante il processo ed era stato persino provocatorio. Inoltre, dopo essersi dichiarato colpevole di omicidio e rapina a mano armata (e condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale), Anthony aveva deciso di appellarsi e cambiare la sua testimonianza iniziale per ottenere una condanna minore.

Le tecniche di gestione dello stress che aveva insegnato ai suoi studenti in passato non funzionavano e le pratiche spirituali (preghiera, studio della Bibbia) non alleviavano la rabbia di questo padre in lutto. Bigger descrive il dolore di scoprirsi spiritualmente fallito, incapace di perdonare, inaridito dentro dall’indignazione, dalla rabbia e dal desiderio di vendetta.

Il perdono è arrivato alla fine come dono da Dio, quando si è reso conto che aveva tanto bisogno di trasformazione quanto l’assassino rinchiuso nella sua cella per (probabilmente) il resto della sua vita.

Dopo aver esaminato il ruolo delle emozioni ma anche i limiti, l’autore esplora le ragioni che rendono il perdono un’azione difficile, specialmente quando il male commesso contro di noi ci destabilizza e ci lascia in difficoltà sotto il peso delle nostre cicatrici. In questa sezione si parla anche del nostro dovere di difendere coloro che non possono farlo da soli e si elencano diverse forme di giustizia (che non si escludono a vicenda).

Infine, Bigger sostiene il motivo per cui il perdono è un dono divino, non un nostro compito o risultato. È Dio che perdona per primo, conclude Bigger, evidenziando il modo distorto in cui vediamo le cose quando, interpretando un versetto del Padre nostro (Matteo 6:9-13), arriviamo a credere che il Signore ci perdonerà solo dopo che avremo perdonato coloro che ci hanno fatto un torto ("rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori"). In realtà, solo dopo che siamo stati perdonati, riceviamo il potere di perdonare gli altri, liberandoci dalla forza corrosiva dell’amarezza, del risentimento e della rabbia.

La terza sezione del libro è una raccolta di saggi del ministro di culto metodista Frank Kimper. Bigger era stato uno degli studenti di Kimper e aveva raccolto i saggi del professore che venivano spesso distribuiti agli studenti ma non sono stati mai pubblicati fino a all’uscita di A time to forgive. I saggi affrontano il tema della rabbia, dell’autostima e della critica (come strumento di crescita e sviluppo personale) e pongono l’amore al centro di ogni interazione con gli altri e con noi stessi.

Siamo chiamati a perdonare e ad amare nel modo coinvolgente in cui siamo stati prima amati, non con le nostre risorse limitate, ma con quelle fornite da Colui che non ci ha insegnato una filosofia dell’amore, ce ne ha dato una dimostrazione pratica e senza paura.

Colui che ci ama così come siamo, prima di diventare ciò che ci ha chiamati a essere, di solito non interviene per fermare il tragico corso degli eventi. Ma condivide il nostro dolore, ci accompagna in ogni nostra esperienza e perdita, e ci porta alla guarigione, anche in circostanze che non sappiamo come chiamare (come potremmo definire un genitore che ha perso un figlio? Orfano?), e in quei momenti in cui una domanda altrimenti naturale (Quanti figli hai?) ci fa sentire persi, confusi e sradicati.

Un tempo per perdonare è, in definitiva, un appello credibile per affrontare la realtà del male con speranza, perché abbiamo un Dio per il quale "quello che sarà, lo è già".

(Carmen Lăiu è redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network).

Note 
[1] Darold Bigger, A Time to Forgive (Un tempo per perdonare), Pacific Press, 2015. 
[2] Ivi, p.75.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

Sii felice

Sii felice

La felicità è… Come finireste la frase? Non vi è una sola risposta, ma alcuni punti fermi sì.

Bruce Manners – La psicologa positiva Sonja Lyubomirsky, in The How of Happiness, sostiene che la felicità è “l’esperienza della gioia, della contentezza o del benessere positivo, combinata con la sensazione che la propria vita sia buona, significativa e utile”.
Ammettiamolo, mettere tutti questi elementi allo stesso tempo nella nostra vita non è sempre facile, ma quando succede vi è un senso di “gioia” e “soddisfazione”, dice Lyubomirsky.
Un altro psicologo positivo, Jonathan Haidt, spiega che “aiutare le persone a trovare felicità e significato nella vita è proprio l’obiettivo della psicologia positiva”.
Ma come facciamo a raggiungere davvero la felicità?

Trovare i lati positivi in un giardino 
Martin Seligman, fondatore della psicologia positiva, ricorda il tempo in cui lui e sua figlia di cinque anni, Nikki, facevano giardinaggio insieme. Fu un momento che contribuì a cambiare il suo atteggiamento e il suo approccio alla psicologia.

Seligman spiega che quando è impegnato in qualcosa tende a essere concentrato, il che significa che allora era focalizzato sul giardinaggio. Nikki, invece, si divertiva. “Lanciava le erbacce in aria e ballava tutto intorno. Ho alzato la voce con lei, si è allontanata, poi è tornata indietro e ha detto: ‘Papà, voglio parlare con te’”.
“Sì, Nikki?”
La bambina gli ha ricordato il suo quinto compleanno. “Da quando avevo tre anni fino ai cinque, sono stata una piagnucolona. Mi sono lamentata ogni giorno. Quando ho compiuto cinque anni, ho deciso di non piagnucolare più. È stata la cosa più difficile che ho mai fatto. Se io riesco a smettere di farlo, puoi finirla anche tu di essere tanto brontolone.”

Un brontolone! Ahi!

Lo psicologo definisce quel momento un’epifania. “Ho imparato qualcosa su Nikki, sull’educazione dei figli, su me stesso e molto sulla mia professione”.

In quell’attimo si è reso conto che crescere i figli “non consiste nel correggere le loro debolezze, ma nell’identificare e nutrire i loro punti di forza”; come psicologo, si era “concentrato sulla correzione delle debolezze invece di coltivare la forza”. In qualità di nuovo presidente dell’Associazione americana di psicologia nel 1998, dedicò il suo anno di direzione per promuovere la “psicologia positiva”.
Lo psicologo mise spesso a frutto la sua esperienza con Nikki per aiutare a spiegare cosa intendeva. La psicologia positiva è diventata un movimento che gli sopravviverà (Seligman ora ha più di 80 anni). Come si fa, allora, a “essere” felici?

È ora di trasferirsi in Finlandia? 
Negli ultimi sei anni, la Finlandia è stata riconosciuta il Paese più felice al mondo dall’annuale World Happiness Report (la classifica mondiale della felicità). Dal 2012, i Paesi di tutto il pianeta sono valutati in base a sei fattori chiave: sostegno sociale; reddito procapite; salute; libertà; generosità e percezione della corruzione. Quest’anno, in riferimento a questi fattori, i Paesi più infelici della nostra terra risultano l’Afghanistan e il Libano, territori devastati dalla guerra.

Per il sesto anno consecutivo, la Finlandia è stata dichiarata il Paese più felice. È seguita da altri due Stati nordici: la Danimarca, al secondo posto, e l’Islanda, al terzo. Nella top 10 emergono: Israele (4); Paesi Bassi (5); Svezia (6); Norvegia (7); Svizzera (8); Lussemburgo (9); Nuova Zelanda (10). (L’Italia è scesa dal 31esimo al 33esimo posto nel 2023, ndr)

Dovremmo quindi trasferirci in Finlandia se desideriamo la vera felicità? (Per sapere come i finlandesi trovano la felicità, esiste una Masterclass of Happiness, un corso di quattro giorni nel Paese nordico, tenuto ogni mese di giugno, per aiutare le persone in arrivo da qualsiasi angolo del mondo a trovare il loro “finnico interiore”).

L’aspetto importante dell’Happiness Report è che si basa sugli individui, non sulla geografia. Richard Layard la pone in questo modo: “L’obiettivo generale è una società più felice, ma ci arriviamo soltanto se le persone si rendono felici a vicenda (non pensando solo a loro stessi)”.
L’autrice Lara Aknin aggiunge che nei Paesi più felici osserviamo “varie forme di gentilezza quotidiana, come aiutare uno sconosciuto, fare beneficenza… È stato dimostrato che le azioni gentili portano e derivano da una maggiore felicità”.
Non possiamo semplicemente andare in un Paese felice per trovare la felicità. Essa arriva dal modo in cui noi, e coloro che ci circondano, agiamo e viviamo individualmente ovunque ci troviamo, in qualsiasi nazione, città o Paese.

Anziano e felice? 
John Leland, giornalista del New York Times, ha trascorso un anno a raccontare sei dei cittadini “più anziani” di New York (persone di età pari o superiore agli 85 anni). I suoi rapporti settimanali sono diventati un libro: Happiness Is a Choice You Make (La felicità è una scelta che si compie). Leland conclude che cose come la politica contano, così come il denaro e la salute, “ma non sono le basi di una vita ben vissuta”. Inoltre, ci si aspetta che, a volte, questo tipo di cose “probabilmente ti deluderanno”.

“I lati belli della vita – felicità, senso, contentezza, compagnia, bellezza e amore – sono sempre stati lì. Non abbiamo bisogno di guadagnarceli. Buon cibo, amici, arte, calore, valore, li abbiamo già. Dobbiamo solo sceglierli nella nostra vita”.

Sembra il fondamento di un’esistenza ben vissuta, a qualsiasi età.

Il denaro può comprare la felicità? 
Dipende. La psicologa Elizabeth Hopper ci rivolge una domanda: “Immagina che qualcuno ti faccia un regalo in contanti e ti dica che invece di risparmiarlo o investirlo, devi spenderlo subito. Come impiegheresti i tuoi soldi se vuoi essere più felice?”.
Risposta: la ricerca mostra che la maggior parte delle persone è più felice di spendere soldi in esperienze “come viaggiare o mangiare fuori, al posto di acquistare l’ultimo prodotto visto sui social media”.

Uno studio ha dimostrato che, se da un lato le persone più ricche tendevano a essere più felici, nel tempo dare la priorità al denaro può avere un impatto negativo. “Il modo in cui spendi, risparmi e pensi ai soldi modella la gioia che ne ricavi”, sostengono Elizabeth Dunn e Chris Courtney su Harvard Business Review.

Sebbene ammettano che la ricerca in questo settore dipenda dalle “nostre personalità uniche”, usare il denaro per guadagnare tempo può portare a stati d’animo positivi, così come donare soldi a un amico o a qualcuno che ne ha bisogno.

La felicità è… 
La psicologia positiva di Seligman rappresentava una reazione al fatto che, a quel tempo, quasi tutto l’approccio psicologico era finalizzato ad aiutare le persone a superare i problemi della loro vita. Seligman si è chiesto: “Perché non possiamo adottare anche la psicologia per aiutare la gente ad avere una vita più appagante e positiva, una vita ‘che fiorisca’?” La parola flourishing (prospero) era quella che usava più frequentemente.

Prendendo le distanze dai termini tecnici, Syed Balkhi sostiene che ci sono cinque principi della psicologia positiva che possono aiutare ad accrescere la felicità:
1. Concentrarsi sui propri punti di forza.
2. Esprimere gratitudine.
3. Trovare il lato positivo.
4. Avvicinarsi ai propri obiettivi piuttosto che allontanarsene.
5. Essere presente (nel momento).

Balkhi conclude che la psicologia positiva si concentra sulla costruzione di ciò che è buono nella vita, perché è più probabile che si sperimenti la crescita e la felicità quando la mente si trova in uno spazio positivo.

Ecco un altro particolare che vale la pena sapere. Uno studio di Harvard sullo sviluppo degli adulti ha seguito la vita di due generazioni per più di 80 anni. Si definisce, giustamente, lo studio più lungo al mondo sulla felicità e nel 2023 ha pubblicato le sue ultime scoperte nel testo The Good Life: and How to Live it (La vita bella: e come viverla). In un estratto, la ricerca afferma: “Se pensiamo al contributo coerente che arriva dopo 84 anni di studio e centinaia di documenti di ricerca, si tratta di un messaggio semplice: le relazioni positive sono essenziali per il benessere umano”.

Sei felice? 
Puoi definirti felice? Oppure hai ancora qualcosa su cui lavorare? Se è così, da dove inizierai?

(Bruce Manners è autore, pastore in pensione ed ex redattore dell’edizione australiana e neozelandese di Signs of the Times con sede a Lilydale, Victoria. Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul sito web Signs of the Times Australia/New Zealand ed è ripubblicata dietro autorizzazione)

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

Louis Braille, il cieco che aprì loro gli occhi

Louis Braille, il cieco che aprì loro gli occhi

Un ritratto dell’ideatore del codice di lettura e scrittura più utilizzato dai non vedenti. Uomo tenace, innamorato della vita, mise al servizio del prossimo la sua curiosità e la sua sete di conoscenza.

Norel Iacob – Louis Braille ha detto: “Dio è stato felice di mostrare ai miei occhi lo splendore abbagliante della speranza eterna. Dopo di questo, non vi pare che nulla potesse tenermi legato alla terra?”. 

Guardava affascinato le mani di suo padre, che producevano ogni sorta di forme e oggetti bellissimi. Non sapeva cosa avesse in mente suo papà per il suo futuro, desiderava solo, con l’innocente semplicità di un bambino di tre anni, realizzare cose belle come il suo genitore. 
Con gli occhi scrutava il pavimento quando un pezzo di cuoio abbastanza grande catturò la sua attenzione. Poi Louis iniziò a cercare con gli occhi un coltello con cui tagliarlo. Il suo grido acuto spezzò la monotonia dei soliti suoni nel laboratorio paterno. Il coltello era rimbalzato dalla pelle conciata finendo dritto nell’occhio destro del piccolo artigiano.

Pochi istanti dopo, mentre si precipitava per le strade del paese con Louis in braccio, Simon-René non riusciva a contenere la disperazione e il senso di colpa. Aveva perso di vista suo figlio solo per pochi momenti. Se solo avesse potuto riportare indietro l’orologio di qualche decina di secondi… Scosse la testa e le lacrime dalle guance si versarono a terra.

Aumentò il passo, determinato a fare tutto ciò che era umanamente possibile per salvare l’occhio di Louis. Raggiunse la casa dell’anziana donna che offriva guarigione a tutti coloro che andavano da lei. Guardò la donna mentre prendeva una bottiglietta dal suo armadio e metteva qualcosa sugli occhi del bambino. “Se esiste una bottiglia del genere, ci deve essere un buon rimedio per Louis”, pensò Simon.

Simon-René Braille, il padre di Louis, si sbagliava. L’estratto di ninfea aveva probabilmente fatto più male che bene al piccolo. Presto anche l’occhio sinistro si infiammò. La cornea dell’occhio destro divenne opaca, mentre l’occhio sinistro conservava alcuni puntini del blu dei grandi occhi del bambino dai capelli biondi e riccioluti.

"L’unica cosa peggiore dell’essere ciechi è avere la vista ma nessuna visione" – Hellen Keller.

La tragedia del piccolo Louis sembrava annunciata dal momento in cui era nato. Era così piccolo e indifeso da riuscire a malapena a nutrirsi al seno di sua madre. I suoi genitori lo avevano battezzato il giorno dopo la sua nascita per paura che morisse. Louis era sopravvissuto e mamma e papà erano particolarmente legati a lui per le intense emozioni che avevano provato. Per loro era diventato il "piccolo Beniamino", il più giovane figlio amato, secondo il modello familiare biblico del patriarca Giacobbe.

Ma ecco che, dopo soli tre anni, la tragedia che l’aveva sfiorato alla nascita pretese una crudele punizione. All’età di cinque anni, Louis era completamente cieco e sembrava condannato alla miserabile vita riservata ai non vedenti nei paesi francesi dell’inizio del XIX secolo. I suoi genitori si rifiutarono di accettare un simile destino. Avevano una visione differente. Volevano che il loro ragazzo andasse a scuola e avesse la possibilità di una vita normale. Così, fin dalla tenera età, aiutarono Louis a imparare le lettere dell’alfabeto scolpite nel legno in modo che le sue dita potessero riconoscerne le differenze.

Edelweiss, una stella alpina 
A quel tempo la gente non guardava di buon occhio i disabili. Vi era sempre il sospetto che ci fosse qualcosa di malvagio in loro e che fossero sordi, muti o ciechi per un dato motivo. L’intelligenza e la curiosità sconfinata di Louis dovettero superare il pregiudizio per essere notate. Poi, un nuovo sacerdote arrivò nel villaggio.

Padre Jacques Palluy, ex monaco e persona colta, riconobbe subito il potenziale del giovane Braille. All’ombra degli alberi vicino alla chiesa o in canonica nei giorni di maltempo, padre Jacques introdusse Louis all’affascinante mondo della conoscenza. Quell’anno straordinario trascorso con il sacerdote piantò nel suo cuore il desiderio di mostrare a tutti amore, gentilezza e umiltà.

A sette anni Louis iniziò a frequentare la scuola del paese. Un altro bambino lo conduceva per mano da casa a scuola e ritorno. Dopo tre infelici anni di povertà e guerra, gli fu offerta una possibilità. I suoi genitori la colsero e, superando il loro dolore dinanzi alla prospettiva del nido vuoto, inviarono Louis nell’unica scuola per ciechi di Parigi. Il vecchio e malmesso edificio in Rue Saint-Victor aveva più di 200 anni, ma rappresentava la scelta migliore per Louis. Il fondatore della scuola, Valentin Haüy, era uno studioso che parlava dieci lingue ed era stato traduttore di re Luigi XIV.

A Parigi, Louis si dimostrò uno studente brillante in tutte le materie. Scoprì anche la passione per la musica e divenne un pianista e un organista così affermato che a 16 anni gli fu assegnata la posizione retribuita di organista nella chiesa vicino alla scuola. Per il resto della sua vita, avrebbe lavorato come organista in diverse chiese di Parigi. 
Anche il suo spirito di sacrificio si stava sviluppando, come dimostrò una volta quando rinunciò al suo incarico di musicista di una chiesa a favore di un’altra persona cieca che ne aveva più bisogno di lui.

Quando nelle scuole fu introdotto il sistema di scrittura tattile di Charles Barbier, ideato per consentire ai soldati di Napoleone di leggere gli ordini al buio, Louis ebbe la sensazione di poter creare un sistema migliore. Da allora, dedicò ogni momento libero al suo speciale progetto, a volte lavorando fino a tarda notte.

Aveva solo 15 anni quando completò il suo alfabeto per ciechi, che in seguito perfezionò e che ora è conosciuto come alfabeto Braille. Dal momento che Louis era appassionato di musica, adattò il suo sistema di punti in rilievo per trascrivere gli spartiti. I risultati della sua ricerca e il nuovo alfabeto furono pubblicati nel 1829.

Un ritratto di Louis Braille 
A 19 anni Braille divenne assistente del maestro di scuola dove era stato allievo, e dopo cinque anni gli fu affidata una cattedra fissa. Insegnò grammatica, ortografia, lettura, geografia, storia, aritmetica e algebra. Era un docente così popolare che gli alunni "competevano tra loro non solo per essere pari o migliori l’uno dell’altro, ma anche per mostrare impegno sincero e continuo, e così compiacere il loro insegnante che amavano come un superiore rispettato, un amico saggio e illuminato, traboccante di buoni consigli".[1]
Tutto questo nonostante Louis fosse celebre per la sua severa e tempestiva disciplina con quegli allievi che si comportavano male. Era risoluto, di sani principi, perseverante, perfezionista e allo stesso tempo disprezzava eccentricità o falsità.

Louis Braille non cercò la fama. Non esitò mai ad affermare quanto fosse in debito con Charles Barbier e la sua invenzione che lo ispirò a sviluppare il proprio alfabeto. E continuò a farlo anche dopo che Barbier cominciò a lottare contro l’alfabeto Braille nel tentativo di imporre la propria invenzione come strumento ufficiale per insegnare ai non vedenti.

Un cieco che amava la luce 
L’infausta piaga che colpì l’Europa nel XIX secolo, la tubercolosi, pose fine prematuramente alla vita di Louis. La sua malattia probabilmente fu causata dalla terribile insalubrità della scuola di Parigi dove aveva trascorso 24 dei suoi 43 anni, come studente e poi come insegnante. Morì due anni prima che l’alfabeto Braille fosse ufficialmente riconosciuto e adottato in Francia.

Nel corso del tempo, il contributo unico di questo genio umile e altruista divenne così importante che, 100 anni dopo la sua morte, il governo francese riconobbe a Louis Braille un posto nel Pantheon. Ad oggi, soltanto altre 74 personalità francesi di spicco sono lì sepolte. 
Anche se nel 1852 sui giornali francesi non apparve alcuna notizia della sua morte, un secolo dopo i dignitari di tutto il mondo si recarono a Parigi per rendergli omaggio. Hellen Keller, scrittrice americana cieca e sorda, tenne un discorso d’effetto in cui affermò: "Noi ciechi siamo in debito con Louis Braille quanto l’umanità lo è con Gutenberg".

Il 15 dicembre 1851, sentendo che la sua vita volgeva al termine, Louis chiamò un sacerdote cattolico per ricevere i sacramenti. Il giorno dopo si sentì meglio, il che lo portò a confessare al suo amico Hippolyte Coltat: “Ieri è stato uno dei giorni più belli e più importanti della mia esistenza. Quando l’hai sperimentato, capisci tutta la maestosità e il potere della religione… Sono convinto che la mia missione sulla terra sia stata compiuta… È vero, ho chiesto a Dio di portarmi via dal mondo, ma ho sentito di non averlo chiesto con forza".[2]

Poco prima di spirare, aggiunse: “Dio è stato felice di mostrare ai miei occhi lo splendore abbagliante della speranza eterna. Dopo di questo, non vi pare che nulla potesse tenermi legato alla terra?”.

Nel suo testamento, Braille fu accurato nel menzionare il perdono di tutti i debiti che gli erano dovuti da altri, garantì un vitalizio a sua madre, dei benefici per altri componenti della sua famiglia e donò il resto dei suoi risparmi in beneficenza e alla Chiesa cattolica.

Quando morì, il suo viso portava i segni di una lunga sofferenza. Ma come ha ricordato Hyppolite, neanche una vita di dolore poteva cancellare il gentile sorriso che gli illuminava sempre il viso.

(Norel Iacob è direttore di Signs of the Times Romania e ST Network)

Note 
[1] C. M. Mellor, Louis Braille. A Touch of Genius (Louis Braille. Il tocco del genio), National Braille Press, Boston, p. 68. 
[2] Ivi, p. 2.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

 

Interpretare le Scritture: domande e risposte sulla Bibbia

Interpretare le Scritture: domande e risposte sulla Bibbia

La rilettura di un libro a cura del dottor Gerhard Pfandl risponde a un centinaio di interrogativi comuni e meno. Dalla Genesi all’Apocalisse, lo sguardo dei teologi coinvolti nella stesura offre un approccio divulgativo.

Christian SălcianuInterpretare le Scritture è un libro pubblicato dal Biblical Research Institute, l’Istituto di ricerca biblica negli Stati Uniti (prima edizione nel 2010, lo trovate in lingua inglese, ndr). Si rivolge a coloro che vogliono conoscere meglio la Bibbia.
Nelle sue 500 e più pagine sono contenute le risposte a non meno di 107 complesse domande che riguardano le Scritture e derivano da esse. Sotto il coordinamento del dott. Gerhard Pfandl (originario dell’Austria, Pfandl ha conseguito un master e un dottorato in Antico Testamento alla Andrews University, ndr), è stato chiesto a 49 autori di offrire il loro contributo. Si trattava di teologi altamente qualificati, sfidati a produrre dei contenuti che sarebbero stati facilmente compresi dal grande pubblico. Di conseguenza, i capitoli sono di solito lunghi soltanto poche pagine e le interpretazioni date sono logiche e ragionate, e profondamente radicate nella Scrittura.

Il volume è diviso in tre sezioni principali: domande sulla Bibbia in generale, sull’Antico Testamento e sul Nuovo Testamento.
Nella prima sezione, il lettore apprenderà chi è l’autore della Bibbia, perché alcuni cristiani hanno una Bibbia con più libri, o chi ha deciso la struttura del canone biblico. Ci sono anche interrogativi che alcuni cristiani evitano, quali: ci sono errori nella Bibbia? Perché alcune profezie non si sono avverate? La Bibbia è accurata storicamente? L’ultima domanda in questa sezione centra il punto in pieno: perché gli studiosi cristiani interpretano le Scritture in modo tanto diverso?

Le due sezioni successive seguono la cronologia biblica. In primo luogo, le domande riguardano la creazione e il diluvio: relativamente alla creazione, stiamo parlando di giorni di 24 ore o di periodi indefiniti? Che luce era quella dei primi giorni (prima che fosse menzionato il sole)? Il diluvio è stato un evento globale o locale? Come potevano entrare tutti gli animali nell’arca? Gran parte della sezione si occupa di interrogativi relativi ai principali eventi o personaggi dell’Antico Testamento: Dio indurisce il cuore delle persone? Dio cambia idea? Perché ha ordinato la distruzione di intere nazioni? Ecc.

La sezione del Nuovo Testamento parte con i vangeli, passa attraverso le epistole fino ad arrivare all’Apocalisse. Gli autori affrontano questioni difficili di grande interesse per i cristiani: cosa significa essere “perfetti”, cos’è il peccato imperdonabile, qual è il rapporto tra legge e grazia, tutti gli ebrei saranno salvati, oppure chi sono i 144.000 nell’Apocalisse.

Se da un lato il titolo del libro può dare l’impressione di offrire un approccio esaustivo, unilaterale ed esclusivo (“Questo è il modo in cui è interpretata la Scrittura e non ce n’è un altro!”), vale la pena notare un punto sottolineato nella prefazione. “Anche se gli autori […] hanno lavorato molto per spiegare i difficoltosi testi biblici raccolti tra le copertine di questo libro, essi non sostengono di aver detto l’ultima parola sugli argomenti in questione”.

Leggere questo volume mi ha donato un senso di conoscenza rinfrescata, un chiarimento dei dilemmi personali, ma soprattutto una riaffermazione che la Scrittura è complessa e coerente, un libro vivo e sempre rivelatore.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

Fiducia, la risorsa delle persone intelligenti

Fiducia, la risorsa delle persone intelligenti

Una ricerca dell’Università di Oxford rileva una correlazione proficua tra uno spirito fiducioso e l’intelligenza umana. Una preziosa qualità sociale da coltivare in ogni ambiente che abitiamo.

Andreea Irimia – In uno studio pubblicato sulla rivista Plos One, i ricercatori sono arrivati alla conclusione controintuitiva che le persone con più alti livelli di intelligenza hanno una maggiore fiducia a livello generale. 
La ricerca definisce fiducia generalizzata quella riposta in altri membri della società, al contrario della fiducia particolarizzata, rivolta a persone vicine a noi come i familiari e gli amici.

L’idea di questo studio deriva dall’osservazione del fatto che i Paesi con livelli più elevati di fiducia hanno istituzioni pubbliche meglio funzionanti e una maggiore crescita economica. Dal momento che i due elementi sono associati a società le cui popolazioni mostrano livelli più alti di intelligenza, Noah Carl e Francesco Billari, dell’Università di Oxford, hanno ipotizzato che ci debba essere un legame tra fiducia e intelligenza.

I dati sui quali hanno basato la loro conclusione provenivano da una serie di questionari sottoposti ogni uno o due anni dal 1972, nell’ambito di un’indagine sociale generale. I formulari hanno esplorato varie questioni di carattere sociale, incluse la fiducia generalizzata e l’intelligenza, ma non ci sono stati studi che collegassero i due aspetti. Anche dopo aver rimosso altri fattori come il genere, la nazionalità o la posizione sociale, i risultati hanno dimostrato una correlazione significativa tra intelligenza e fiducia generalizzata.

A seguito di tali esiti sorprendenti, gli studiosi hanno deciso di elaborare delle spiegazioni. Una di queste riguarda il fatto che le persone intelligenti hanno una maggiore capacità di vagliare il carattere di un individuo, in modo da non entrare in contatto con chi potrebbe tradire la loro fiducia. Gli autori, tuttavia, riconoscono che potrebbero esserci altre motivazioni che richiedono ulteriori ricerche.

La necessità di studi più dettagliati deriva anche dalle lacune stesse della ricerca. Sebbene l’intelligenza sia stata valutata sulla base di test linguistici, i cui risultati sono stati confermati comparando gli esiti del sofisticato test del Quoziente intellettivo (QI) impiegato dall’esercito statunitense, la valutazione della fiducia generalizzata risultava meno accurata. È stata verificata sulla base di una sola domanda che chiedeva agli intervistati la loro percezione del modo in cui esprimono la fiducia.

“Le implicazioni di uno studio come questo presentano ancora una vasta portata” afferma Noah Carl. La fiducia è associata a una maggiore felicità e a una salute migliore. Pertanto, risultati affidabili nell’analisi della fiducia sociale possono avere un impatto sulle politiche governative o sulle attività delle fondazioni caritatevoli.

Francisco Billari conclude la sua ricerca sostenendo che "la fiducia generalizzata è una preziosa risorsa sociale che i governi, i gruppi religiosi e le organizzazioni civiche dovrebbero impegnarsi a coltivare".

(Andreea Irimia è un’insegnante d’informatica e di educazione tecnica).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

Come prendersi cura del proprio cervello

Come prendersi cura del proprio cervello

Tenere in forma la mente è possibile a qualsiasi età. Basta poco. Semplici e sani accorgimenti da coltivare e adottare nella vita di ogni giorno. La capacità del nostro cervello di cambiare e adattarsi è davvero ciò che ci rende unici

Bruce Manners – La prima volta che ha visto un cervello umano vivo, il neurochirurgo Sanjay Gupta ha dichiarato che è stata "un’esperienza potente e che cambia la vita". 
Il cervello non è “materia grigia”. Gupta lo descrive come “rosato con macchie gialle biancastre e grandi vasi sanguigni che corrono sopra e attraverso di esso. Ha fessure profonde, note come sulci e cime montuose, conosciute come gyri. Le fessure separano il cervello nei vari lobi in modo sorprendentemente coerente”. E, nel caso ve lo steste chiedendo "durante un’operazione, il cervello pulsa dolcemente fuori dai bordi del cranio e sembra molto vitale. Per quanto riguarda la consistenza, non è tanto gommoso ma molliccio, più simile alla gelatina. Mi ha sempre stupito” ha detto il dott. Gupta “quanto sia fragile nonostante le sue funzioni e la sua versatilità. Una volta che vedi il cervello, vuoi davvero proteggerlo e prendertene cura”.[1]

Come prenderci cura, allora, del nostro cervello? Come facciamo a costruire una mente migliore? L’autore di The Aging Brain (L’invecchiamento del cervello), il dott. Timothy Jennings, la fa semplice: "Un cervello sano richiede un corpo sano". Perché? “Perché la principale finalità di ogni sistema di organi del corpo è quello di servire il cervello: i polmoni respirano e il cuore batte per fornire ossigeno e sostanze nutritive al cervello. Le gambe muovono il cervello da un posto all’altro mentre le braccia gli permettono di interagire con il mondo. La funzione primaria dei nostri occhi e delle nostre orecchie è fornire input al cervello”.[2]

Il cervello è centrale, e mentre il corpo può servire il cervello, il cervello controlla anche il corpo. C’è un legame tra i due e ciascuno ha un impatto sull’altro. 
"Tutto ciò che facciamo, quello che pensiamo, diciamo, come ci comportiamo e quali abitudini sviluppiamo, deriva dai complessi processi biologici del cervello" ha affermato Peter Hollins, ricercatore del comportamento umano. Per esempio, “le persone con ricordi migliori tendono ad avere ippocampi più grandi e i cantanti tendono a elaborare l’atto di imitazione meglio di quanti non sanno cantare. Tutto ciò che siamo viene dal modo unico in cui il nostro cervello si è sviluppato”.

Hollins parla di neuroplasticità, plasticità cerebrale e della capacità delle reti neurali nel cervello di mutare "in risposta agli stimoli che incontra. Potete immaginare che questo rappresenti la pietra angolare dell’apprendimento, della memoria, dell’autodisciplina, delle abitudini e persino della motivazione. Con la neuroplasticità, impostiamo il nostro potenziale. Senza di essa, siamo destinati ad avere un cervello scolpito nella pietra. La sua capacità di cambiare e adattarsi è davvero ciò che ci rende unici come specie”.[3]

Possiamo imparare nuove abilità. Possiamo prendere decisioni. Possiamo cambiare idea.

Fare ciò che sappiamo 
Forse, il modo in cui iniziare ad aiutare il nostro cervello è prendere sul serio l’idea di svilupparlo nella maniera più sana possibile. Quando ho intervistato Victor Adekola Ojo, uno psico-geriatra (una persona che si occupa di malattie mentali nelle persone anziane), è tornato alle basi e ha dichiarato: "Facciamo già molte delle cose che possono mantenere il nostro cervello sano. Quello che spesso manca è l’intenzionalità e il prendersi regolarmente del tempo per compiere ciò che ci aiuterebbe”.[4]

È un avvertimento.

Gupta sostiene: "Quando le persone mi chiedono qual è la cosa più importante che possono fare per migliorare la funzione del loro cervello e la resistenza alle malattie, rispondo così: esercizio fisico, muoversi di più e farlo regolarmente per mantenere la forma fisica… Il fitness potrebbe essere l’ingrediente più importante per vivere il più a lungo possibile, nonostante tutti gli altri fattori di rischio che subiamo, età e genetica incluse”.[5]

E per quanto gli riguarda, Gupta ha sempre scarpe da corsa, costume da bagno e occhialini a portata di mano ovunque si trovi, insieme a bande elastiche. Segue i consigli della sua cattedra di neurochirurgia e fa cento flessioni al giorno. Uno dei segreti, dice, è rendere l’esercizio accessibile: tiene i pesi nella sua camera da letto, ha una barra sul telaio della porta di casa e nel suo ufficio (le trazioni sono un ottimo modo per costruire i muscoli della schiena e rafforzare il cuore").[6]

Credo che sia io che voi conosciamo l’importanza dell’esercizio fisico, ma allora per quale motivo così pochi di noi si allenano, figuriamoci poi con regolarità?

Arianna Huffington sottolinea l’importanza del sonno nel suo libro The Sleep Revolution (La rivoluzione del sonno), sostenendo che "la sua privazione è legata a un aumento del rischio di diabete, infarto, ictus, cancro, obesità e Alzheimer… Il sonno è così prezioso per la nostra salute e il nostro benessere che non possiamo permetterci di non renderlo una priorità”.[7] Un sonno adeguato e buono aiuta il nostro cervello.

Qui di seguito potete leggere "10 modi per amare il vostro cervello", un elenco di azioni da mettere in pratica per aiutarlo.

Usiamolo 
Ha davvero senso affermare che possiamo usare oppure perdere il nostro cervello. In poche parole, utilizzare il proprio cervello lo aiuta a crescere. Una ricerca dell’University College di Londra ha analizzato il cervello dei tassisti tirocinanti che avevano superato il cosiddetto test della "conoscenza". La prova consiste nell’imparare i percorsi tra le 25.000 strade della città e verso migliaia di luoghi di interesse. Quello che hanno scoperto è che i tassisti "rispetto a quando avevano iniziato, riportavano un volume maggiore di materia grigia nel loro ippocampo posteriore, le cellule nervose del cervello in cui avviene l’elaborazione. Nella loro testa, il cervello aveva fatto spazio a una rappresentazione mentale di Londra".

Commentando lo studio, la prof.ssa Eleanor Maguire ha affermato: "Il cervello umano rimane ‘plastico’ anche nella vita adulta, e ciò gli permette di adattarsi quando apprendiamo nuovi compiti".

E se volete davvero offrire al vostro cervello un po’ di esercizio, imparate una nuova lingua o anche due. Uno studio ha rivelato che parlarne più di una prepara meglio la mente ad affrontare altri compiti impegnativi.

Un cervello sano si trova per lo più in un corpo sano, viene spesso sollecitato, regolarmente usato e messo alla prova.

"Non è mai troppo tardi o troppo presto per adottare abitudini sane". Questo è il messaggio dell’ Alzheimer’s Association (con sede negli Stati Uniti, ndr) che elenca 10 modi per ridurre il rischio di declino cognitivo, applicando e combinando determinati stili di vita.

1. Suda un po’ 
Dedicati a un regolare esercizio cardiovascolare che eleva la frequenza cardiaca e aumenta il flusso sanguigno al cervello e nel corpo. Diversi studi hanno individuato un’associazione tra attività fisica e ridotto rischio di declino cognitivo.

2. Studia con impegno 
La formazione, in qualsiasi fase della vita, ti aiuterà a ridurre il rischio di declino cognitivo e di demenza. Potresti seguire una lezione in un’università locale, in un’associazione o online.

3. Spegnila 
L’evidenza scientifica dimostra che il fumo aumenta il rischio di declino cognitivo. Smettere può ridurre questo rischio a livelli paragonabili a quelli di chi non ha mai fumato.

4. Segui il tuo cuore 
Diversi studi dimostrano che i fattori di rischio per malattie cardiovascolari, ictus, obesità, ipertensione e diabete hanno un impatto negativo sulla salute cognitiva della persona. Prenditi cura del tuo cuore e il tuo cervello potrebbe semplicemente seguirti.

5. In guardia! 
Le lesioni cerebrali possono aumentare il rischio di declino cognitivo e demenza. Indossa la cintura di sicurezza in automobile, usa un casco quando pratichi sport di contatto o vai in bicicletta, stai attento a prevenire le cadute.

6. Fai il pieno di carburante 
Segui una dieta sana ed equilibrata a basso contenuto di grassi e con più verdura e frutta per aiutare a ridurre il rischio di declino cognitivo. La ricerca sul rapporto tra regime alimentare e funzione cognitiva è limitata, ma alcune diete, come quella mediterranea, e gli approcci dietetici per contrastare l’ipertensione possono contribuire alla riduzione del rischio.

7. Zzz… riposa 
Non dormire abbastanza, a causa di insonnia o apnea notturna, può causare problemi di memoria e alla mente.

8. Prenditi cura della tua salute mentale 
Alcuni studi collegano casi di depressione all’aumento del rischio di declino cognitivo, quindi affidati a cure mediche se riscontri sintomi di depressione, ansia o altre problematiche della sfera della salute mentale. E poi, cerca di gestire lo stress.

9. Coltiva l’amicizia 
Avere una vita sociale ricca può favorire la salute del cervello. Dedicati a quelle attività che sono significative per te. Trova il modo di partecipare alla vita della tua comunità locale: se ami gli animali, magari pensa di fare volontariato in un canile. Se ti piace cantare, unisciti a un coro o renditi utile in un programma di doposcuola. Oppure, condividi semplicemente del tempo con amici e familiari.

10. Mettiti in gioco 
Sfida e attiva la tua mente. Costruisci un mobile. Completa un puzzle. Fai qualcosa di artistico. Dedicati a giochi come il bridge, che ti fanno pensare strategicamente. Mettere alla prova la mente può avere benefici a breve e lungo termine.

(Bruce Manners è autore, pastore in pensione ed ex redattore dell’edizione di Signs of the Times in Australia e Nuova Zelanda, con sede a Lilydale, Victoria).

Note 
[1] S. Gupta, Keep Sharp (Tenersi in forma), Headline Publishing Group, Londra, 2021. 
[2] T. R. Jennings, The Aging Brain (L’invecchiamento del cervello), Baker Books, Grand Rapids, Michigan, 2018. 
[3] P. Hollins, Build a Better Brain, Using Neuroplasticity to Train Your Brain for Motivation, Discipline, Courage, and Mental Sharpness (Costruire un cervello migliore. Usare la neuroplasticità per allenare il cervello alla motivazione, alla disciplina, al coraggio e all’acutezza mentale) (Pubblicato in modo indipendente, 19 gennaio 201). 
[4] B. Manners, Retirement’s Gift (Il regalo della pensione), Signs Publishing, Warburton, Victoria. 
[5] Sanjay Gupta, Op.cit. 
[6] Ibidem
[7] A. Huffington, The Sleep Revolution (La rivoluzione del sonno), , W H Allen, Londra, 2017.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

 

 

 

Prega come puoi

Prega come puoi

Rivolgersi a Dio spesso non ci viene naturale. A volte mancano le parole. I pensieri di speranza o di lode scarseggiano. Magari siamo troppo arrabbiati o tristi, ci scoraggiamo e desistiamo. Esiste un unico modo di pregare? La testimonianza di un’autrice australiana.

Zanita Fletcher – Sarò onesta con voi. Trovo la preghiera davvero difficile. Se dovessi offrire delle motivazioni per tutte le lacrime che ho versato negli ultimi anni, la maggior parte di esse è emersa conversando con Dio. 

Una parte delle ragioni per cui trovo difficile pregare è che non è sempre stato così. Ho trascorso dei periodi della vita in cui la preghiera è stata una grande gioia; quasi tutti i giorni mi ritagliavo dello spazio per camminare su lunghi tratti di spiaggia sabbiosa parlando a Dio. In quei momenti, la preghiera mi donava conforto, chiarezza e guida.

Ma da un po’ di tempo non è più così. Piuttosto, la preghiera è diventata fonte di ferite profonde e delusioni. Più e più volte mi sono ritrovata a chiedere: "Dove sei, Signore?”. E: “Se sei là da qualche parte, perché mi sembra una relazione unidirezionale?".

Se da un lato le persone non trascorrono tanto tempo in chiesa o nei luoghi di culto come una volta, i sondaggi mostrano con costanza che, indipendentemente dalle credenze religiose, la gente in tutto il mondo si rivolge alla preghiera in cerca di conforto, speranza, aiuto o per trovare uno scopo. Un’indagine del Pew Research Center condotta in 65 Paesi ha mostrato che il 55% di tutte le persone coinvolte prega ogni giorno. Un adulto su cinque ammette di pregare pur non seguendo alcuna religione, più del 10% delle persone che si autodefiniscono "non religiose" dichiara di pregare in tempi di crisi e un altro 9% prega almeno ogni tanto.

Abraham Lincoln un tempo ha ammesso: “Molte volte sono stato spinto in ginocchio dalla travolgente convinzione di non avere nessun altro posto dove andare. La mia saggezza… sembrava insufficiente quel giorno.”[1] Dave Grohl, leader della band dei Foo Fighters, ha riconosciuto di aver pregato disperatamente quando il suo batterista, Taylor Hawkins, andò in overdose durante un festival. Ricorda di aver parlato con Dio ad alta voce mentre faceva avanti e indietro dall’ospedale dove il suo amico era in coma. "Non sono una persona religiosa” ha dichiarato Grohl “ma ero fuori di testa, ero così spaventato, con il cuore spezzato e confuso".[2]

Come credente in Dio, trovo sorprendente che così tanta gente si rivolga istintivamente alla preghiera. Tuttavia, non tutte le invocazioni al cielo si risolvono come speriamo. Un sondaggio del Pew Research Center mostra che poco meno della metà di coloro che pregano ritengono che Dio li ascolti davvero. Ogni tanto vediamo o sentiamo parlare di un miracolo. Ma in molti casi sembra che le nostre preghiere non cambino le cose. E così, restiamo con degli interrogativi.

Spesso la vita ci riserva delle carte difficili da giocare. Non importa quanto siamo stati bravi o in cosa crediamo, nessuno di noi è immune alla sofferenza. Possiamo essere entusiasti della nostra esistenza e poi, improvvisamente, trovarci in una situazione che non riusciamo a capire. La pioggia impazza e ci sentiamo come un vestito bagnato messo in un’asciugatrice e centrifugato a tutta velocità.

Per alcuni le risposte arrivano rapidamente, come la pace, la chiarezza, la guarigione e una direzione da seguire. Ma altri si trovano bloccati nel mezzo del loro “conflitto”, aspettando, chiedendo, cercando di farsi strada attraverso il caos e di affidarsi all’idea che ci sia qualcosa di più grande là fuori che si preoccupa per loro. Spesso è proprio in quel momento che ci poniamo delle domande sulla preghiera e su Dio: "Le mie preghiere contano?", "Perché Dio risponde solo alle preghiere di alcune persone?", "C’è una sorta di equazione magica tra quello che chiedo e il tempo che trascorro a pregare per attirare l’attenzione di Dio?", "Se ci dice che tutto è possibile, perché non sta facendo nulla?".

Alcune delle parole più note, ma meno comprese, di Gesù sulla preghiera furono date ai suoi discepoli e a una folla di persone che si erano radunate su una montagna per ascoltarlo. Gesù disse: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, chi cerca trova e sarà aperto a chi bussa” (Matteo 7:7, 8).

Le indicazioni di Gesù sembrano piuttosto semplici: cercate, chiedete, bussate e ricevete. Ma questo non accade sempre. Cosa facciamo, quindi, quando la nostra richiesta non si traduce in una risposta o quando la nostra ricerca ci lascia con più domande anziché risposte? Come possiamo credere a qualcuno che afferma di voler fare qualcosa, ma non sempre questo qualcosa è portato a compimento?

Nel suo libro Praying like Monks, Living like Fools (Pregare come monaci, vivere come pazzi), Taylor Staton spiega che quelle tre parole "chiedere", "cercare" e "bussare" sono scritte usando un tempo verbale greco di cui non vi è un equivalente grammaticale in lingua inglese. Implicano un’azione continua che si svolge nel presente e nel futuro. Il modo più letterale per tradurre questo testo di Matteo 7 è: continua a chiedere e riceverai. Continua a cercare e troverai. Continua a bussare e la porta ti verrà aperta.

La risposta di Gesù a chi chiede senza ottenere risposte e si affatica è… la perseveranza.

Ma la tenacia, per definizione, è una faticaccia. Non è semplice continuare a rivolgersi a Dio con le stesse richieste per settimane, mesi, anni o, in alcuni casi, per decenni. Quando le difficoltà restano, la malattia indugia, le domande si moltiplicano, il cuore fa ancora male e i desideri rimangono insoddisfatti: è estenuante tornare a Dio ancora e ancora. Molti mollano, altri si amareggiano e alcuni evitano la preghiera. Proprio come avviene con l’amore e la fiducia, pregare comporta un rischio. Se poi non dovesse rispondermi? Cosa ne farò di tutte le sue promesse? Come posso fidarmi della fondatezza di ciò che Dio dice?

Purtroppo, non ho risposte a tutte le domande specifiche sulla sofferenza. Ci sono alcune risposte teoriche, ma non reggono molto quando la vita sembra cadere in una spirale negativa o quando si ha a che fare con dolorose inquietudini. Quello che posso fare è offrirvi un incoraggiamento per il viaggio.

Come agire, allora, quando gli eventi della nostra vita ci portano a pregare ma la nostra preghiera ci lascia nello stesso punto di partenza? In che modo resistere? Ecco alcune considerazioni che ho trovato utili.

Siate il più possibile umani 
Cosa intendo? Spesso pensiamo di doverci rivolgere a Dio in ginocchio a terra, con le mani giunte e in un dolce monologo di lodi poetiche. Ma il Signore non si aspetta questo da noi. L’unico requisito per parlargli è farlo con onestà. Basta considerare il libro biblico dei Salmi. Le preghiere di chi li ha scritti, Davide, abbondano di brontolii, lamentele, pugni che si agitano, accuse, lacrime di confusione… e non mi sorprenderei se nella traduzione fossero state omesse alcune esternazioni.

Se non puoi rivolgerti a Dio con spirito di lode, vai a lui con la tua rabbia, la tua tristezza, la tua confusione e delusione. Se non puoi pregare con speranza, raccontagli i tuoi dubbi. Se non puoi pregare per un’ora, liberati di tutto in un minuto e poi prosegui con la tua giornata. Se non hai parole, scegli un salmo o una preghiera già scritta con cui ti trovi in sintonia, scrivila o ripetila a Dio.

Non limitate la preghiera alle parole 
L’essenza della preghiera è il tempo di qualità. Certo, Dio desidera che gli parliamo, ma comprende che viviamo stagioni in cui ciò è difficile. Se hai difficoltà a trovare le parole o se comunicare alcune cose ti opprime, prova a trascorrere del tempo con Dio in altri modi. Ascolta dei canti di lode e lascia che i testi siano la tua preghiera. Vai nella natura. Esprimiti in modo creativo attraverso l’arte. Scrivi le tue preghiere in forma di poesia o lettera. Oppure, come dice Davide, “Fermati…” (Salmo 46:10).

Ricordatevi di ricordare 
È facile tenere a mente quello che ci causa dolore e sofferenza. Come si dice: "Il corpo tiene il conto". Ma non è sempre facile ricordare le benedizioni, soprattutto durante un periodo difficile. Eppure, spesso possiamo trovare speranza per il futuro quando riconosciamo ciò che Dio ha fatto in passato. Pete Greig, fondatore del movimento di preghiera 24-7, sostiene: “Ricordare è al centro della Bibbia. Potremmo affermare che è per questo motivo che è stata scritta… È una disciplina spirituale essenziale.”

Prenditi del tempo per pensare alle grandi e piccole cose che vanno bene, alle benedizioni nella tua vita e in quella di coloro che ti circondano. Scrivile, in modo da poter considerare l’elenco che si forma e si somma nel tempo.

Circondatevi di persone che pregheranno per e con voi 
Secondo la piramide dei bisogni di Maslow, dopo il cibo e l’acqua, l’amore è la necessità più importante che dobbiamo soddisfare come esseri umani. Non solo abbiamo una maggiore soddisfazione nella vita quando siamo in contatto con gli altri, ma la nostra salute mentale migliora e avremo più resilienza quando sperimentiamo delle prove. Troppo spesso restiamo in silenzio e cerchiamo di sopportare da soli i nostri dubbi e le nostre difficoltà. Se posso darvi un consiglio che mi ha molto aiutato, trovate delle persone di cui potete fidarvi, apritevi con loro raccontando quello che state passando e lasciate che vi aiutino a portarne il peso. Chiedete loro di pregare per voi e soprattutto con voi. Spesso le persone possono donare speranza alle nostre realtà e ascoltare le loro preghiere può essere un balsamo per l’anima.

Trovo la preghiera ancora difficile e continuo ad aspettare che molte domande ricevano una risposta, i desideri vengano soddisfatti e possa ottenere guarigione. Ma mi aggrappo alla speranza che Dio è buono, che desidera risponderci, appagare gli aneliti del nostro cuore e vederci gioire e godere della libertà in questa vita. Il Signore sa che la nostra esistenza può essere dolorosa e ci promette che non sarà così per sempre.

Come scrive Staton: "Dio trasforma la storia in modo che i momenti di maggiore sofferenza diventino quelli di più grande redenzione, plasmando la storia per essere sicuro che il dolore che proviamo riveli il potere di una nuova vita e le lacrime che versiamo diventino fondamento di un mondo migliore. Ci è stato promesso che un giorno accadrà che il Padre stesso asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi. Ma fino ad allora, viviamo una promessa intermedia: ‘Non lascerò che una sola delle vostre lacrime sia sprecata’".

Se state attraversando un guado doloroso o vi trovate a fronteggiare svolte difficili che non vi aspettavate, continuate a chiedere, continuate a cercare, continuate a bussare. E quando sarete impazienti per l’attesa e con fatica lotterete aggrappandovi alla speranza, ricordatevi delle parole del sacerdote Dom John Chapman: "Prega come puoi, non come non puoi".

Se desiderate compiere un passo successivo nella preghiera, visitate prayeronline.org.au per iniziare.

(Zanita Fletcher è scrittrice e assistente redattrice per Signs of the Times Australia/Nuova Zelanda. Scrive dalla Gold Coast, nel Queensland. Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul sito web di Signs of the Times Australia/New Zealand ed è ripubblicata con autorizzazione).

Note 
[1] Citazione del presidente Obama in occasione dell’Assemblea nazionale democratica del settembre 2012. Sembra sia stata attribuita per la prima volta ad Abraham Lincoln da Noah Brooks su Harper’s New Monthly Magazine, vol. 31, 226, pubblicato nel luglio 1865. 
[2] Paul Brannigan, This Is a Call: The Life and Times of Dave Grohl (Questa è una chiamata: la vita e i tempi di Dave Grohl), Harper Collins, Londra, 2012). 

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

Vivere secondo la Bibbia?

Vivere secondo la Bibbia?

Qualche anno fa, il giornalista newyorkese A. J. Jacobs ha vissuto (e documentato) 365 giorni seguendo letteralmente le indicazioni contenute nella Scritture. Quali spunti trarre dal suo libro ancora oggi? Quanto conta la relazione e l’incontro sincero con Dio nell’approccio al testo biblico?

Nathan Brown – Molti cristiani dicono di prendere la Bibbia alla lettera. Trascorrono regolarmente del tempo a leggere questo libro che ritengono ispirato da Dio e cercano di capire come applicarlo alla loro vita. Studiano le Scritture con i loro amici, sono istruiti su questi temi durante i servizi di culto e leggono altri libri sulla Bibbia per accrescere la propria comprensione del testo.

Ma è possibile prendere alla lettera e mettere in pratica le istruzioni di un libro antico – alcune parti sono state scritte più di 3000 anni fa – pur vivendo una sorta di normale esistenza urbana nel mondo di oggi? Quale impatto avrebbe sul vissuto quotidiano, sulle relazioni e la spiritualità? E la propria vita sarebbe migliore, considerando tutto l’impegno che ci vuole per prendere sul serio le numerose indicazioni della Bibbia?

Sono alcune delle domande che hanno stimolato il giornalista A. J. Jacobs nella sua ricerca volta a vivere letteralmente, per un anno intero, come dispone la Bibbia. Cresciuto in una famiglia ebrea laica a New York City, Jacobs descrive se stesso come un agnostico che ha speso del tempo a considerare molte argomentazioni a favore dell’esistenza di Dio, ma non ne è mai stato convinto.

Tuttavia, il riemergere del tema religioso nei titoli dei giornali e un interesse personale nell’esplorazione del proprio retaggio ebraico, così come l’idea di scrivere un libro intrigante e potenzialmente divertente, hanno portato Jacobs a sperimentare “un anno di vita secondo la Bibbia". Il primo passo è stato quello di setacciare le Scritture alla ricerca del maggior numero possibile di precetti, regole e istruzioni.

Dai dieci comandamenti e dalla regola d’oro ("Fai agli altri come vorresti che facessero a te"), alle misteriose minuzie delle leggi sulla purezza nell’Antico Testamento, l’elenco di Jacobs ammontava a più di 700 istruzioni specifiche. Poi, con un gruppo di consulenti teologici e spirituali, si è organizzato per metterle in pratica. Il risultato è il libro The Year of Living Biblically (Un anno vissuto biblicamente, 2007 ndt), in cui racconta l’esperimento.

I cambiamenti più evidenti hanno riguardato il suo aspetto esteriore, in particolare la barba piena e folta. Si è anche abituato a portare dovunque un piccolo sgabello pieghevole, in modo da evitare di sedersi dove qualche "impuro" si fosse accomodato. La sua dieta è cambiata, così come l’uso del linguaggio e il modo di conversare.

Durante tutto l’anno, Jacobs ha trascorso del tempo con vari credenti: uomini ebrei chassid che ballavano in modo forsennato, un raduno di atei devoti, una famiglia di agricoltori Amish, pellegrini e turisti al Muro del Pianto di Gerusalemme, una mega-chiesa cristiana fondamentalista, un gruppo di pastori israeliani, cristiani che maneggiano serpenti e, ovviamente, la famiglia allargata di Jacobs, con le sue diverse modulazioni di vita e di fede. Tutti cercavano di vivere la fede in un certo modo e la maggior parte di loro provava ad applicare, a tal scopo, alcuni elementi della Bibbia.

Jacobs ha ricercato buone azioni da compiere per gli altri e ha condiviso con sua moglie (molto paziente) l’impegno ad adempiere il primo invito della Bibbia rivolto all’umanità: "Siate fecondi e moltiplicatevi ". Ha anche lapidato, con ciottoli molto piccoli, un’adultera che aveva confessato di esserlo, e ha preso parte alla macellazione kosher dei polli. Ha sperimentato la preghiera, si è esercitato a soffiare uno shofar di corno di ariete e ha scoperto una varietà di storie e personaggi riportati nella Bibbia.

Per un anno intero, Jacobs si è buttato a capofitto nel suo progetto e tutto questo, naturalmente, ha influito sui suoi atteggiamenti e convinzioni. Nel suo modo di procedere a tentoni, ha sentito di essersi avvicinato a quel Dio in cui non era ancora convinto di credere. È diventato più tollerante nei confronti della religione e delle molte forme di osservanza con le quali si approcciava. E sentiva di essere una persona migliore, più premuroso con gli altri e “devoto” alla pratica di dire “grazie”.

Forse, però, la più grande domanda che la ricerca di Jacobs solleva è come la Bibbia sia meglio applicabile alla vita di oggi. Pochi credenti si spingono fino alla stessa modalità con cui Jacobs l’ha presa alla lettera, anche se alcuni dei credenti con cui ha passato del tempo hanno la loro versione su questa ricerca. Ci sono, inoltre, le situazioni che si presentano nel mondo di oggi e che non sono specificamente affrontate dalla Bibbia. Le lacune emergono in modo inevitabile quando si cerca di far corrispondere il testo alla vita.

Nel suo libro e tramite l’esperimento stesso, Jacobs sostiene che se i credenti non sono disposti a fare almeno altrettanto, non possono pretendere di considerarsi letteralisti. In un certo senso ha ragione e questo solleva la questione di come i credenti scelgano cosa prendere alla lettera e cosa ignorare, spiegare o altrimenti adattare alla propria cultura e alle circostanze.

Se il testo stesso della Bibbia non è l’autorità finale, se qualcosa o qualcun altro stabilisce ciò che i fedeli credono e applicano alla loro esistenza, come potranno essi determinare chi sarà quel qualcosa o quel qualcun altro, e quale ruolo continua a svolgere la Bibbia?

Probabilmente riusciamo a trovare un suggerimento in uno dei libri precedenti di Jacobs. L’autore non è nuovo a questo tipo di giornalismo immersivo: condurre un esperimento nella propria vita e poi riferirne gli effetti. In The Know-It-All (Il sapientone, 2004 ndt), ha letto l’intera Enciclopedia Britannica come parte della sua "umile ricerca per diventare la persona più intelligente del mondo". Tra le sue conclusioni al termine di quella esperienza, Jacobs afferma: "So che conoscenza e intelligenza non sono la stessa cosa, ma vivono nel medesimo quartiere". Lo stesso si potrebbe dire riguardo al suo utilizzo della Bibbia. Le regole e le relazioni non sono la stessa cosa, ma vivono nel medesimo quartiere. La relazione avviene tra il credente e il Dio che ha ispirato le Scritture. Nel contesto di questo rapporto, la Bibbia non è tanto un elenco di regole quanto una raccolta di storie ed esempi.

Sì, le persone scoprono Dio dedicando del tempo alla lettura della Bibbia, e in questo modo possono certamente saperne di più sul Signore e su come egli è. Le regole indicate nella Bibbia sono pratiche e discipline spirituali: quando diventano parte della nostra vita, possono aiutarci a edificare una relazione con Dio. Come ha capito Jacobs, trascorrere del tempo e mettere in pratica intenzionalmente queste regole può avvicinarci a Dio e persino aiutarci a diventare persone migliori.

Ma la Bibbia è più efficace quando viene letta da chi ha un rapporto con Dio. Il credente arriva alla consapevolezza che le regole scritte 3000 anni fa sono meno importanti dei principi che dimostrano. Questi principi sono più facilmente applicabili alla vita odierna. E la relazione, la crescente conoscenza ed esperienza con Dio diventa quel Qualcuno e quel Qualcosa che ci guida nell’applicazione dell’antica saggezza della Bibbia.

Man mano che Dio opera nella vita del credente, le Scritture diventano fonte di guida, saggezza e ispirazione, molto più profonda della lista di Jacobs delle 700 e più regole estratte da un vecchio manoscritto polveroso. Nel contesto della relazione, le indicazioni volte a preservare e far crescere quello stesso rapporto hanno più senso.

Come dimostra l’esperimento di Jacobs, prendere la Bibbia alla lettera può trasformare, persino migliorare, la vita. Ma incontrare Dio e permettergli di parlare dentro e attraverso le Scritture nel contesto di una relazione con Lui, ci cambierà per sempre.

(Nathan Brown è editore per la Signs Publishing Company di Warburton, in Australia. Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul sito web Signs of the Times Australia/New Zealand ed è ripubblicata con autorizzazione).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

 

 

 

 

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