La gestione del tempo. Seconda parte

La gestione del tempo. Seconda parte

Michele Abiusi – Dio ha un disegno. È il piano della salvezza che Gesù ha realizzato nella nostra temporalità, pronunciando sulla croce le parole: “È compiuto”.

Alla creazione, Dio ha creato il tempo del riposo, il sabato. Suddividendo la settimana in sei giorni di lavoro e riservando il settimo per il riposo, Dio ha voluto inserire nel ritmo del tempo un giorno che serva come memoriale, perché non dimentichiamo le nostre origini di figli di Dio. È così importante ricordare che la mia vita non dipende solo dal mio impegno, è così “naturale” illudersi di essere autosufficienti, è così facile dimenticare Dio immersi e sommersi dal consumismo e dal materialismo, per questo ogni settimana sono invitato a celebrare il Signore, a onorarlo, a incontrarlo.

Se avessimo veramente ricordato questa verità, forse non ci saremmo persi lontani da Dio e dalla sua Parola. Dio sapeva che la sua creatura avrebbe avuto bisogno di una pausa settimanale dai suoi impegni fisici e mentali. Il sabato sarebbe stato il giorno in cui ritrovare se stessi fuori dai ritmi frenetici del lavoro che ci trasformano spesso in macchine, schiavi dei nostri bisogni materiali. Ritornare alle origini, con il sabato, per ritrovare il proprio equilibrio a contatto con la natura in una dimensione più umana. Se avessimo vissuto il sabato secondo la volontà di Dio, forse lo stress, l’esaurimento e le tante malattie nervose non ci avrebbero vinto come purtroppo accade.

È interessante notare che in questo precetto, “Ricordati del giorno del sabato” (Esodo 20:8 Cei), è inclusa la propria famiglia e non solo. Gli stranieri, i servi e addirittura gli animali; tutti dovevano godere del privilegio di adorazione e di riposo (vv. 9-11). Con il sabato si ritorna ancora alle nostre origini per ritrovarci parte di un tutto. Riconosco che gli altri hanno i miei stessi diritti perché sono figli di Dio come lo sono io. Anche se il colore della pelle è diverso, anche se la lingua e la cultura cambiano, siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre.

Cosa sarebbe stato della nostra storia se avessimo capito questo messaggio insito nel comandamento del sabato? Forse avremmo risparmiato tante guerre; forse non saremmo stati schiavi delle tante forme di discriminazioni razziali, etniche o sessuali; forse non avremmo sfruttato, per il nostro interesse e per il nostro piacere, né la natura, né gli animali e neppure gli altri esseri umani.

C’è una parabola, quella del gran convito (Luca 14:15-24), che mostra con chiarezza come dare la giusta priorità alle cose veramente importanti. Voglio proporvi anche la lettura di una poesia di Michel Qoist, intitolata “Signore, ho il tempo”. Leggila qui.

Nella nostra temporalità, Dio ha un tempo che ha deciso di non rivelarci: “Ma quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno li sa, neppure gli angeli del cielo, neppure il Figlio, ma il Padre solo” (Matteo 24:36).

Non sappiamo quando Gesù ritornerà per mettere fine a questo mondo. Il messaggio che Gesù offre parlando dell’ultimo evento della temporalità umana è “Voi siate pronti…” (v. 44). Ci aspetta l’eternità, il tempo fermo, il tempo senza fine.

Io voglio viverlo quel tempo, e tu?

Leggi anche “La gestione del tempo. Prima parte“.

La gestione del tempo. Prima parte

La gestione del tempo. Prima parte

Michele Abiusi – Il punto di fede n. 21 della Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno recita così: “Noi siamo gli amministratori di Dio che ci ha affidato tempo e opportunità, capacità e beni, ricchezze dalla natura e sue risorse. Noi siamo responsabili nei suoi confronti del loro giusto uso”.

Vorrei soffermarmi sulla saggia gestione del tempo e vi spiego il perché. Da due anni sono in pensione e pensavo che, una volta terminato il servizio attivo come pastore, avrei avuto tanto tempo a mia disposizione. Oggi vi dico che non è così. Anche da pensionato il tempo vola e non riesco a fare tutto ciò che vorrei! Ma non sono il solo. Le persone della chiesa dicono che non hanno tempo per poter dare una collaborazione attiva nella comunità, approfondire lo studio della Scuola del Sabato (lo studio personale della Bibbia da condividere poi in gruppi il sabato mattina in chiesa, ndr) come animatori di un gruppo, ecc. Insomma, mi viene da dire: “Signore, ma lo capisci che non abbiamo tempo?”.

Definizione
Da un punto di vista filosofico, è estremamente difficile definire il tempo. L’Enciclopedia Treccani dà la seguente definizione di tempo: “L’intuizione e la rappresentazione della modalità secondo la quale i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l’uno con l’altro (per cui essi avvengono prima, dopo, o durante altri eventi), vista di volta in volta come fattore che trascina ineluttabilmente l’evoluzione delle cose (lo scorrere del t.) o come scansione ciclica e periodica dell’eternità, a seconda che vengano enfatizzate l’irreversibilità e caducità delle vicende umane, o l’eterna ricorrenza degli eventi astronomici; tale intuizione fondamentale è peraltro condizionata da fattori ambientali (i cicli biologici, il succedersi del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni, ecc.) e psicologici (i vari stati della coscienza e della percezione, la memoria) e diversificata storicamente da cultura a cultura”.

Nella Scrittura neotestamentaria troviamo due termini greci: kronos, che identifica il tempo che scorre, quindi la quantità; kairos è il tempo nel senso di qualità.

Kronos
Il tempo kronos è il tempo misurabile: “ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge” (Galati 4:4). Ma è proprio vero che il tempo scorre e può essere misurato? “Certo che sì!” esclamerà qualcuno. Tuttavia, se ciò fosse vero, se esistesse una dimensione del tempo che scorre sempre in avanti, allora si correrebbe il rischio di collocare Dio nella dimensione temporale; una dimensione che contiene Dio stesso.

Questo è quanto sostengono alcuni interpreti della Scrittura quando asseriscono quanto segue: “Dio sapeva che Adamo ed Eva avrebbero peccato? Molti fanno questa domanda in tutta sincerità. E quando esaminano perché Dio permetta la malvagità, la loro attenzione si concentra sul peccato della prima coppia umana nel giardino di Eden. L’idea comune che ‘Dio sa ogni cosa’ potrebbe facilmente portarli a concludere che egli doveva sapere in anticipo che Adamo ed Eva gli avrebbero disubbidito […] Comunque qualcuno potrebbe obiettare: ‘Ma come poteva un Dio onnisciente non aver saputo?’. È vero, la grande sapienza di Geova include la capacità di conoscere ‘dal principio il termine’. (Isaia 46:9, 10) Tuttavia non è costretto a usarla” (rivista La Torre di Guardia, 1° gennaio 2011, p. 14). Come chiaramente espresso dagli autori della Torre di Guardia, Dio se vuole può non conoscere il futuro. Cosa comporta questo modo di vedere? Implica che Dio vive nella nostra dimensione temporale con la conseguenza che non è onnipotente ed è soggetto alle leggi della natura che lui stesso ha creato. Ovviamente noi non condividiamo questa idea.

Forse più che parlare di tempo che scorre si dovrebbe parlare, nel nostro caso, di temporalità o tempo relativo. È questa temporalità che ha avuto inizio alla creazione e scorre verso il futuro. Il tempo, quello di Dio, invece è fermo, eterno. È una sua caratteristica. Per Dio, passato, presente e futuro sono davanti ai suoi occhi e non c’è nulla che gli sia ignoto. Questo è un concetto difficile da comprendere perché appartiene alla natura di Dio e quindi insondabile dalla mente umana. Probabilmente si può comprendere meglio il concetto di kronos con l’illustrazione di un viaggio in auto o in treno. Guardando fuori dal finestrino vediamo scorrere il paesaggio, ma in realtà siamo noi che ci spostiamo.

Ecco, tutto il creato si sposta attraverso il tempo eterno e immobile di Dio, e in questo procedere, si consuma. Il testo biblico di Romani 16:25-26 dice che la rivelazione di Gesù Cristo fu tenuta nascosta dai tempi più remoti (kronos, tempo che scorre) ed ora è manifestata.

Kairos 
Il Vocabolario del Nuovo Testamento dà questa definizione della parola kairos: “Un tempo fisso e definito, il tempo quando le cose sono portate ad una crisi, l'epoca decisiva che si aspettava, il tempo opportuno o convenevole, il tempo giusto”. Troviamo questo termine in molti passi biblici. In 1 Corinzi 7:5, Paolo invita i coniugi a non privarsi l’uno dell’altro dell’intimità coniugale, se non per un tempo da dedicare alla preghiera (kairos, qualità del tempo, un tempo fissato).

Il tempo kairòs può riferirsi anche al tempo favorevole e al tempo appropriato. Kairòs è certamente il tempo stabilito da Dio; diversi passi biblici lo certificano. Il testo di Efesi 6:18 “pregate in ogni tempo” in greco recita en pantì kairò, “in ciascun tempo stabilito”. Potrebbe riferirsi ai momenti stabiliti per la preghiera. Presso gli ebrei erano tre: al mattino, a mezzogiorno e alla sera. Nel tempo kairos si realizza quindi qualcosa di unico, speciale; è il punto focale o culminante della realizzazione dei propositi di Dio.

Il tempo di Dio, che è eterno, è fermo. La temporalità è unidirezionale e va sempre verso il tempo di Dio. Prima della creazione non esistevano né spazio, né temporalità. Alla creazione il tempo eterno di Dio si infrange con lo spazio, creando la temporalità: primo giorno, secondo giorno, ecc. Dio creò la settimana. In seguito, fissò nel calendario del popolo ebraico tutte le festività e i giorni solenni. Noi ci consumiamo passando attraverso l’eternità di Dio. Nell’eternità ogni momento è contemporaneo di Dio: “difatti in lui viviamo, ci muoviamo e siamo” (Atti 17:28). L’uomo che vive con Dio vive sotto le mentite spoglie della temporalità: “… la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Colossesi 3:3).

“Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno” afferma Ebrei 13:8. E allora chiediamoci: come si pone Dio che è fuori del tempo nella temporalità dell’essere umano? Dio tiene conto della nostra temporalità, ma riempie il nostro tempo, attraversandolo (cfr. Giovanni 1:1,14).

Dio usa la nostra temporalità per formarci per il suo regno. 

Leggi anche "La gestione del tempo. Seconda parte".

 

 

 

 

Un nuovo mondo

Un nuovo mondo

Michele Abiusi – Cosa dice di meraviglioso la Bibbia riguardo al futuro del nostro pianeta e della nostra vita? Siamo così abituati alle cattive notizie da essere diventati tutti un po’ pessimisti, e quando qualcuno ci trasmette delle buone notizie ci mettiamo subito sulla difensiva, increduli. Ogni giorno siamo informati di omicidi della malavita organizzata e di drammi all’interno delle famiglie. Le guerre e gli atti di terrorismo mantengono alta la paura in ogni nazione. Le malattie più temute colpiscono tutti, poveri e ricchi, credenti e non. E poi c’è l’inquinamento di ogni tipo, il buco dell’ozono, i gas tossici delle fabbriche e delle auto che rendono invivibili le nostre maggiori città. Gli ambientalisti si attendono la fine della vita sul nostro pianeta entro pochi decenni, a meno che l’umanità non cambi direzione. È possibile allora che la Parola di Dio abbia delle buone notizie riguardo al futuro di questo nostro mondo?

Nel libro dell’Apocalisse, Gesù stesso rivelò a Giovanni cosa avverrà dopo il ritorno di Cristo e dopo la resurrezione dei morti: “Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scender giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: ‘Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate’” (Apocalisse 21:1-4).

Giovanni informa che ci sarà una nuova terra. Quello che ha visto è così diverso da ciò a cui siamo abituati che scrive: la prima terra non ci sarà più. Addirittura, il mare scomparirà. Il mare era concepito come qualcosa di pericoloso, di non controllabile, di malvagio soprattutto quando la tempesta infuriava. Con questo il profeta voleva dire che non ci sarà più niente che ci farà paura, neppure le sconfinate distese oceaniche.

“Non ci sarà più notte; non avranno bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Apocalisse 21:23).
Anche la notte, che nell’antichità portava con sé paure e terrori, non esisterà più. Il Signore sarà la luce per l’umanità. E non avremo più paura del buio. La nuova Gerusalemme scenderà dal cielo come una sposa pronta per incontrare il suo sposo. Questa è un’immagine tipica della Bibbia: Gerusalemme è la città, la casa dei credenti, anzi rappresenta gli stessi credenti che finalmente si riuniranno al Creatore dell’universo, da sempre il loro promesso sposo. Dio attende con ansia il giorno in cui potremo vivere insieme in una terra dove non ci sarà più né il male, né la malattia, né la morte. Da quando gli esseri umani si sono ribellati a Dio, è iniziata la loro fuga. Ma Gesù ci ha cercato in tutti i modi, addirittura venendo tra di noi come uno di noi, per invitarci alla festa nuziale nella quale noi, i credenti, saremo la sua sposa.

È interessante notare come Giovanni ci informi su ciò che non aveva visto nel nuovo mondo e a cui era abituato: il dolore, le grida, i pianti. Questi non ci saranno più. La cosa che più contava per lui era la fine della sofferenza. Gesù aveva fatto una promessa: “Io vado a prepararvi un luogo. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi” (Giovanni 14:2,3). E finalmente si realizzerà!

Vedremo il nostro Signor Gesù Cristo e vivremo con lui per sempre, per l’eternità. Un mondo senza guerre, senza morte, senza malattia, senza corruzione. Un mondo di giustizia, di amore, di pace. Un mondo dove non ci sarà bisogno di avvocati, di medici, di politici, di poliziotti. Un mondo dove non ci saranno fabbriche di armi e di veleni. Forse lo stesso Giovanni era sorpreso da tanta meraviglia.

Per questo, durante la sua visione del futuro una voce gli disse: “E colui che siede sul trono disse: ‘Ecco, io faccio nuove tutte le cose’. Poi mi disse: ‘Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere’, e aggiunse ‘Ogni cosa è compiuta. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine’” (Apocalisse 21:5, 6). Scrivi Giovanni, perché queste cose che sembrano impossibili sono vere e si realizzeranno un giorno. Chi te lo dice è Dio stesso, l’alfa e l’omega, il principio e la fine, il Creatore, l’Eterno, colui che sa ogni cosa.

“A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita” (v. 6).
Dopo aver descritto il nuovo mondo, Dio parla agli assetati, cioè a coloro che veramente desiderano e sinceramente aspettano questo nuovo mondo; Dio parla a coloro che cercano la vita, a coloro che lottano per la pace, per la giustizia, a coloro che sanno amare con tutte le loro forze. A questi Dio offre l’acqua della vita, cioè la vita eterna. È un dono. Gratuitamente il Signore ci dà la vita. Non devo pagare il perdono, non devo pagare il paradiso, non devo acquistarmi il favore di Dio, perché lui già mi ama come nessun padre sa amare. Non ho bisogno di raccomandarmi a dei mediatori perché Gesù mi è vicino, mi ascolta ed è sensibile ai miei bisogni, più di qualunque altro.

“Chi vince erediterà queste cose, io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio” (v. 7).
Eppure, malgrado la vita sia un dono offerto dal Creatore, coloro che la riceveranno saranno dei “vincitori”; ciò significa che avranno lottato contro se stessi, contro l’incredulità, le filosofie, l’orgoglio e l’ignoranza, tutti figli della nostra società.

“Io, Giovanni, sono quello che ha udito e visto queste cose” (Ap 22:8).
Sì, Giovanni ha visto cose straordinarie. È come se avesse intrapreso un viaggio nel futuro e si è trovato improvvisamente nel nuovo mondo. Poi, ritornato, ha scritto, due mila anni fa circa, questa verità che ci è stata fedelmente tramandata per ritrovare la speranza.
E tu, vuoi vivere eternamente in questa nuova terra? Allora accetta Gesù come tuo Salvatore e Padre e segui le indicazioni che troverai nella Bibbia. Non perderai la strada.

La conoscenza della parola di Dio

La conoscenza della parola di Dio

Michele Abiusi – Vi è gioia nello studio della Bibbia perché incontriamo il Signore e lo conosciamo sempre meglio. “Appena ho trovato le tue parole, io le ho divorate; le tue parole sono state la mia gioia, la delizia del mio cuore, perché il tuo nome è invocato su di me, Signore, Dio degli eserciti” (Geremia 15:16).

Da ragazzino, con mia sorella leggevamo l’intera Bibbia in un anno: tre capitoli ogni giorno e cinque il sabato. Alle noiose cronologie si andava di corsa… solo in seguito abbiamo capito l’importanza storica ed archeologica di quelle cronologie. Avevamo anche un quaderno con rubrica per scrivere i versetti sulle tematiche che incontravamo. Più in là, la lettura è divenuta anche confronto con altre versioni e traduzioni delle Scritture. Possiamo avere molte Bibbie sui nostri scaffali, ma non ci procureranno neanche un briciolo di gioia se non la studiamo diligentemente.

“Dovremmo studiare la parola di Dio personalmente… se volete conoscere personalmente il Salvatore e sentirne la voce. Le parole di Dio sono l’acqua vivente che estingue la vostra sete ardente; sono il pane vivente che viene dal cielo” – E. G. White, La via migliore, pp. 88, 89.

Lo studio della parola di Dio è conditio sine qua non, condizione indispensabile della vita cristiana. Tale studio deve essere guidato dalla preghiera e da un’attenta riflessione. Il suo autore è il Signore e dovremmo metterci in comunicazione con lui attraverso il suo Spirito che comunica con noi.

La più grande tragedia del mondo, in mezzo a mille problemi, è quella della fame spirituale “Perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza” (Osea 4:6). Come a livello materiale non dovrebbe esistere fame nel mondo, così è a livello spirituale. Gesù Cristo è pane per tutti. Come cristiani abbiamo la responsabilità di condividere il cibo con coloro che vivono nell’inedia spirituale. Noi credenti dobbiamo aprire la parola, permettendo ad altri di nutrirsene. La parola di Dio va masticata e digerita, in modo che trasformi veramente la nostra vita.

Conoscete la storia degli ammutinati del Bounty? Solo un uomo sopravvisse, insieme a undici donne e ventitre bambini. Tra gli effetti dei marinai, Addams trovò una Bibbia e lì avvenne il miracolo: l’isola di Pitcairn, abitata da cannibali, divenne un’isola di credenti, prima, e di avventisti, poi, grazie all’invio di volantini da parte della Chiesa nel 1876. Lo studio della Bibbia produce miracoli! Ogni conversione è un miracolo!

Il Signore, attraverso la sua parola, vuole comunicarci gioia. “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Giovanni 15:11).

La gioia che provava Gesù era quella di realizzare l’opera per cui era venuto sulla terra: “Il Figlio dell'uomo, infatti, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Luca 19:10). Ciò che più di tutto può offuscare questa gioia è l’ansia che nasce dal soffermarci sulle circostanze negative dalla vita. Le preoccupazioni terrene soffocano la parola di Dio.

“La tua parola è una lampada al mio piede, una luce sul mio sentiero” (Salmo 119:105).
“La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali” (Colossesi 3:16).

Quando Cristo diviene parte della nostra vita, allora si prova la gioia di vivere, e si trovano energie inesauribili per servire il prossimo e per una ricerca sempre più approfondita della sua parola. Gesù parla di una vita esuberante! I cristiani dovrebbero essere le persone più felici del mondo, perché trovano nella Scrittura, parola di Dio, fiducia e sicurezza. Nutriamocene con gioia, rallegriamoci nella salvezza offerta da Gesù, il nostro Salvatore.

 

 

 

Cristiani sempre

Cristiani sempre

Michele Abiusi – Negli ultimi anni del mio servizio attivo come pastore della Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno, mi sono occupato del Ministero della Gestione Cristiana della Vita. È importante vivere una vita cristiana, non costituita solo di parole, ma di fatti. I popoli dell’antichità avevano gli “annali” dove riportavano tutte le imprese compiute, ma solo quelle belle; mai le sconfitte.

A volte anche noi, in quanto credenti, corriamo lo stesso rischio: quello di pensarci perfetti e di non voler ammettere le nostre sconfitte. … La Bibbia, pur essendo ispirata da Dio, non riporta solo le vittorie, ma anche le sconfitte. Giacobbe inganna suo padre Isacco per prendere la benedizione della primogenitura che spettava ad Esaù, il quale gliela cedette per un piatto di lenticchie. Giacobbe sperava che tutto si sarebbe risolto nel silenzio, ma Isacco che non era troppo convinto di avere davanti a sé il primogenito (la vista ormai non lo accompagnava più), e pone la domanda: “Chi sei tu, figlio mio?” (Genesi 27:18).

Giacobbe sceglie la strada della menzogna, che tristezza! Eppure, noi non siamo molto diversi: abbiamo grandi ideali ma spesso la realtà cozza con la natura umana. Noi, anche attraverso i media, dobbiamo presentarci come persone che aspirano agli ideali divini, ma spesso la nostra natura ci impedisce di raggiungerli. Nell’uso dei social, ad esempio, a volte dimentichiamo di essere dei credenti… e ci scagliamo contro persone, pastori e istituzioni. Ricordiamoci che siamo cristiani sempre.

Dopo aver lasciato la casa paterna da vent’anni, Giacobbe lotta con l’Angelo a Peniel: “Non ti lascerò prima che tu mi abbia benedetto” (ancora non era sicuro della benedizione ricevuta da Isacco?). “Qual è il tuo nome?” (Genesi 32:26, 27).

Ecco ritornare quella terribile domanda, dopo due decenni, ma ora la risposta è: “Giacobbe”, vale a dire il menzognero, il soppiantatore. Questa volta usa la strada della verità. La benedizione di Dio cade su Giacobbe che diventa Israele, perché finalmente ha riconosciuto la sua debolezza, si è pentito e, poi, ha potuto anche riconciliarsi con suo fratello.

In ogni ambito della nostra vita il Signore può agire per migliorarci e darci benessere. Mosso dall’amore e dalla cura nei nostri confronti, Dio ha evidenziato il modo migliore di vivere e ci ha lasciato istruzioni chiare per accudire le aree più personali e private della nostra esistenza. Seguendo il suo piano diventeremo ricettivi a tutte le delizie che Dio desidera concederci. Il Signore ci accordi di vivere una giusta gestione cristiana della vita!

 

 

Cercate il bene della città

Cercate il bene della città

Michele Abiusi – “Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene” (Geremia 29:7). 
Leggendo questo brano del profeta Geremia, mi sono posto alcune domande. La città viene prima della chiesa? Il bene della città è più importante del bene della chiesa?

Servizio 
Ho compreso qualcosa che vorrei condividere con voi, all’inizio di questo nuovo anno.
Il grande antidoto a tutte le forme di introversione della chiesa, del ripiegamento su se stessa, dell’appagamento narcisistico, è il servizio! Il servizio è la sentinella che ricorda alla comunità ecclesiale che essa esiste per gli altri, in caso contrario non esiste per niente! Come sarebbe bello se il bene della città diventasse il bene della chiesa in tutti gli aspetti della sua vita e della sua testimonianza. Come sarebbe bello se la chiesa sentisse che il bene della città coincide con il proprio bene! Come cambierebbe la chiesa e come cambierebbe la città!

Bene della città 
Ma cosa significa cercare il bene della città? Significa vedere i problemi che affliggono la città (se necessario, denunciarli); affrontarli, lenirli con azioni pratiche e concrete; pregare per essa: lavoro silenzioso. Quale esempio ci ha lasciato nostro Signore in questo? Consideriamo la sua missione così come Egli stesso l’ha definita.

Cercare e salvare: “perché il Figlio dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto” (Luca 19:10). 
Servire: “appunto come il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Matteo 20:28). 
Prese forma di servo: “ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini” (Filippesi 2:7). 

Gesù ci ha insegnato che noi non siamo maggiori di lui: “Quando dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe ripreso le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: ‘Capite quello che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io’” (Giovanni 13:12-15).

E dobbiamo seguire il suo esempio: “e chiunque tra di voi vorrà essere primo, sarà vostro servo” (Matteo 20:27). “Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida, il Cristo; ma il maggiore tra di voi sia vostro servitore” (Matteo 23:10-11). “e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti” (Marco 10:44).

Lo Spirito Santo agisce per mezzo di coloro che desiderano essere servitori di Cristo, attraverso i doni che egli elargisce. Pensare che io sia importante, che io abbia dei meriti nel fare qualcosa è contristare lo Spirito di Dio.

Dio ci aiuti a sentire il desiderio di servirlo e di servire la città in cui viviamo.

 

 

Primo e Secondo Avvento

Primo e Secondo Avvento

In prossimità della festività in cui il mondo cristiano ricorda la nascita di Gesù sulla terra, proponiamo una riflessione sulla promessa del suo ritorno.

Michele Abiusi – Il brano del Vangelo di Matteo capitolo 24, i versetti da 37 a 44, è parte di un discorso profetico ed escatologico fatto da Gesù ai discepoli. Si inserisce nella lunga risposta che Gesù dà ai discepoli, sollecitato dalla loro domanda all’inizio del capitolo 24: “Mentre egli era seduto sul monte degli Ulivi, i discepoli gli si avvicinarono in disparte, dicendo: ‘Dicci, quando avverranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine dell'età presente?” (v.3).

Da questo momento, anche Matteo, così come Marco (capitolo 13) e Luca (capitolo 21), include nel suo Vangelo un “discorso escatologico” centrato sulla rivelazione da parte di Gesù della sua prossima venuta, la cosiddetta parusia (parousìa, in greco). Questo discorso, che è un vero e proprio insegnamento, una catechesi, perché Gesù lo fa da seduto, nell’atteggiamento tipico del rabbi, del maestro, si protrae fino a tutto il capitolo 25 e si conclude con il giudizio finale.

Riflettiamo sul testo di Matteo 24:37-44.

“Come fu ai giorni di Noè, così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo” (v 37). 
Non a caso il brano del Vangelo ci riporta al tempo di Noè, quando la gente mangiava, beveva e si divertiva senza darsi pena della tragedia che si avvicinava. Noè costruì l’arca sull’asciutto per ben centoventi anni, e da parte dei suoi contemporanei vi era solo indifferenza e chiusura di fronte all’appello di Dio. 
Gesù non parla di trasgressioni, gravi o leggere, da condannare, ma delle situazioni normali della vita quotidiana. Situazioni che non presentano niente di male in sé… Noè entrò nell’arca e i suoi contemporanei continuarono la vita di sempre, anzi si facevano beffe di quest’uomo di Dio che restò chiuso per una settimana nell’arca, prima che iniziasse a piovere…

Perché questo paragone? Ai tempi di Noè la vita scorreva non dedita “alle cose di lassù”, non c’era questa presa di coscienza interiore per poter accogliere la grazia divina. Anche oggi, in qualche modo, avviene la stessa cosa: viviamo una certa sicurezza di noi stessi, una sorta di auto sopravvivenza.

“Infatti, come nei giorni prima del diluvio si mangiava e si beveva, si prendeva moglie e s'andava a marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e la gente non si accorse di nulla, finché venne il diluvio che portò via tutti quanti, così avverrà alla venuta del Figlio dell’uomo” (vv. 38, 39). 
Gesù paragona la società antidiluviana a quella che vedrà la parusia. Anche il Secondo Avvento sarà caratterizzato dall’indifferenza verso le cose spirituali. Facendosi ancora una volta interprete di un episodio chiave dell’Antico Testamento, quello del diluvio universale, Gesù sembra voler dire che il pericolo per gli esseri umani rimane sempre lo stesso, fin dai tempi di Noè, quello cioè di volare basso.

Il messaggio per ognuno è chiaro: vivere la propria esistenza con impegno, serietà e costanza nell’attesa della venuta del Signore. Mangiare e bere, prendere moglie e marito non sono attività di per sé riprovevoli, ma divengono simboli della banalità e della miopia spirituale. Non si accorsero di nulla, letteralmente significa: non seppero correre ai ripari, non realizzarono la gravità della situazione. Non si accorsero che il giudizio era imminente.

Pure oggi molti, anche credenti, nonostante le tragedie che si susseguono su questo nostro pianeta (tsunami, inondazioni, terremoti, smottamenti, incidenti, terrorismo, stragi di persone innocenti) vivono nella dimenticanza del giorno del Signore, nella superficialità e forse nel rifiuto di Dio. L’avvento ci sprona a fermarci un poco, a riflettere per capire in quale direzione è orientata la nostra vita, a mettere un po’ di ordine nella nostra coscienza. Perché l’avvento è attesa.

“Allora due saranno nel campo; l'uno sarà preso e l'altro lasciato; due donne macineranno al mulino: l'una sarà presa e l'altra lasciata” (vv. 40, 41). 
Non viene detta quale sia la diversità tra i due uomini nel campo, né tra le due donne che macinano. Eppure, uno e una saranno presi, mentre l’altro e l’altra verranno lasciati! In questi personaggi possiamo leggere i due aspetti della vita che conduciamo: contare su se stessi o su Dio. “Preso”, in greco paralambano, è il verbo adoperato anche nel Vangelo di Giovanni: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi” (14:3). Parlando del suo ritorno, Gesù mette in risalto che accoglierà i discepoli che lo aspettano. La parusia non è un “rapimento segreto”, bensì l’esecuzione di un giudizio che spetta solo a Dio. La parola “lasciato”, letteralmente “mandato via”, ci fa capire che la salvezza non è universale; solo chi accoglie Cristo nella propria vita sarà salvato.

“Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà. Ma sappiate questo, che se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte il ladro deve venire, veglierebbe e non lascerebbe scassinare la sua casa” (vv. 42, 43). 
Vegliare è un tema ricorrente in questo capitolo 24! È necessario vegliare per riconoscere i segni dei tempi. Non sapere l’ora del ritorno del Signore può provocare paura, ma è il solo modo per vivere il presente. A noi tocca stare pronti, come gli invitati al pranzo di nozze della parabola raccontata da Gesù (Matteo 22:1-14), o le dieci vergini che attendevano lo sposo (Matteo 25:1-13). Non conosciamo l’ora e il giorno, ma sappiamo che il Signore verrà, per questo restiamo vigili, in attesa. L’insistenza nel dire “sappiate”, cioè “cercate di capire”, ci rivela quanto Gesù abbia a cuore la nostra sorte. Dopo il paragone con il diluvio al tempo di Noè, Gesù ora usa l’immagine del ladro che viene nella notte e del padrone di casa che non sorveglia. Non conoscere il giorno e l'ora dovrebbe convincerci della necessità di vigilare sempre, di essere sempre "pronti", preparati!

La parte finale del versetto 43, “non lascerebbe scassinare la sua casa”, ci obbliga a non aspettare gli eventi della vita che ci distruggono (descritti qui con il ladro), ma a saperli leggere alla luce del vangelo. Possiamo intendere la casa nominata qui come la cella del nostro cuore, ove riscoprire e orientare le nostre scelte di fede, un riscoprire la sobrietà della vita, un vivere la purità di cuore che è legata fondamentalmente alla vita spirituale.

“Perciò, anche voi siate pronti; perché, nell'ora che non pensate, il Figlio dell'uomo verrà” (v. 44). 
Nessuno conosce il giorno e l’ora. L’evangelista Matteo presenta il tema della vigilanza per poter essere pronti alla venuta di Cristo. In questo momento Gesù, rivolgendosi a noi, continua a chiederci di vigilare attentamente. E questo non significa starsene barricati, al sicuro, ma assumersi ogni giorno le proprie responsabilità e affrontare gli avvenimenti della vita. È un mettersi continuamente alla presenza del Signore. È avere la forza di spezzare l’indifferenza, l’inerzia, la distrazione.

L'Avvento ci ricorda una duplice venuta del Signore. La prima, per lungo tempo attesa e desiderata ardentemente da tutti i profeti, ma riconosciuta da pochi giusti. La seconda, in cui Gesù si manifesterà con piena evidenza ai giusti e ai reprobi. Ripensiamo a quanti beni ci donò il Signore con il suo Primo Avvento; e ricordiamo che saranno molto più grandi con il Secondo. Questa considerazione ci porti ad amare il momento della sua nascita sulla terra e a desiderare il suo ritorno. Noi annunziamo che Cristo verrà. Il suo ritorno sarà molto più glorioso del Primo Avvento. Quindi, non limitiamoci a riflettere solo sulla sua nascita, impariamo anche a vivere in attesa del suo ritorno.

 

 

 

La genealogia di Gesù

La genealogia di Gesù

Michele Abiusi – La prima volta che ho letto tutta la Bibbia, a 11 anni, saltavo a piè pari tutte le lunghe e “noiose” genealogie… Nella Bibbia ve ne sono tante, perché rappresentano la carta d’identità dei personaggi, esprimono l’appartenenza al popolo eletto. Dei quattro Vangeli, solo quelli di Matteo e Luca riportano la genealogia di Gesù, e ci troviamo anche dinanzi a liste differenti l’una dall’altra. Luca la pone all’inizio del ministero pubblico di Gesù, subito dopo il battesimo, ed elenca 77 nomi. “Gesù, quando cominciò a insegnare, aveva circa trent'anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, di Eli, di Mattàt, di Levi, di Melchi, di Iannài, di Giuseppe,  di Mattatìa, di Amos, di Naum… (continua a leggere in Luca 3:23-38).

Il suo scopo è sottolineare l’attività salvifica e universale del Messia. Luca ne fa una descrizione da storico.

Matteo introduce il suo Vangelo con una lista di 42 nomi. “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo. Abraamo generò Isacco; Isacco generò Giacobbe; Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli; Giuda generò Fares e Zara da Tamar; Fares generò Esrom; Esrom generò Aram; Aram generò Aminadab; Aminadab generò Naasson; Naasson generò Salmon; Salmon generò Boos da Raab; Boos generò Obed da Rut; Obed generò Iesse, e Iesse generò Davide, il re…” (continua a leggere in Matteo 1:1-17).

Matteo vuole sottolineare il fatto che Gesù si colloca, prima della nascita, nel popolo di Dio. Non siamo di fronte a un’introduzione storica nel senso moderno del termine; non dice nulla del contesto generale e religioso in cui si svolsero quegli avvenimenti. Matteo ne dà una portata teologica. Nel presentarci la nascita di Gesù che merita il riconoscimento del cielo (una stella) e degli uomini (i magi), Matteo vuole dimostrare che la sua venuta sulla terra ha delle implicazioni universali e perciò inseparabili dal concetto di popolo di Dio.

Gesù è legato alla storia, anche se lo è in un modo del tutto particolare. Era dunque necessaria una genealogia che lo situasse socialmente all’interno del popolo eletto, ma che conferisse allo stesso tempo le pretese messianiche della comunità nei suoi confronti. Partecipazione, dunque, alla realtà dell’esistenza umana, ma rottura con i vincoli del normale processo generazionale.

Indicando tre cicli di due volte sette (periodo patriarcale, regale, post-esilico) non fa solo un riepilogo della storia d’Israele, ma evoca i temi essenziali del Vangelo: invio a Israele e filiazioni Abraamica, salvezza delle nazioni; filiazione davidica, regalità; filiazione divina, “La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che tradotto vuol dire: Dio con noi” (Matteo 1:23).

Gesù realizza la promessa fatta ad Abraamo. Le promesse furono fatte ad Abraamo e alla sua progenie. “Non dice: ‘E alle progenie’, come se si trattasse di molte; ma, come parlando di una sola, dice: ‘E alla tua progenie’, che è Cristo” (Galati 3:16).

Venendo alla fine di sei generazioni, Gesù inaugura con l’inizio della settima la pienezza dei tempi. Il Vangelo di Matteo si apre con la parola “Genealogia” (geneseos in greco) che significa anche “genesi” e può evocare l’idea che con Gesù, secondo Adamo (cfr. Romani 5), inizia una nuova genesi, una nuova umanità.

È probabile, dunque, che la genealogia di Matteo vada al di là della generazione biologica, in senso stretto; emerge l’azione di Dio che suscitava un popolo ad Abramo, ma soprattutto a Gesù.

Matteo allude a Gesù come a colui che è radicato nella storia per restaurare una nuova umanità, e come colui che è il legittimo erede al trono di Davide.

È bello, allora, celebrare il Natale della nostra nuova umanità!

Il Vangelo di Giovanni non presenta una genealogia, ma i suoi primi versetti sono un chiaro riferimento all’incipit della Genesi. Poi, entra nella missione di Gesù. “Il giorno seguente, Giovanni era di nuovo là con due dei suoi discepoli; e fissando lo sguardo su Gesù, che passava, disse: ‘Ecco l'Agnello di Dio!’. I suoi due discepoli, avendolo udito parlare, seguirono Gesù. Gesù, voltatosi, e osservando che lo seguivano, domandò loro: ‘Che cercate?’. Ed essi gli dissero: ‘Rabbì (che, tradotto, vuol dire Maestro), dove abiti?’. Egli rispose loro: ‘Venite e vedrete’. Essi dunque andarono, videro dove abitava e stettero con lui quel giorno. Era circa la decima ora. Andrea, fratello di Simon Pietro, era uno dei due che avevano udito Giovanni e avevano seguito Gesù. Egli per primo trovò suo fratello Simone e gli disse: ‘Abbiamo trovato il Messia’ (che, tradotto, vuol dire Cristo); e lo condusse da Gesù. Gesù lo guardò e disse: ‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; tu sarai chiamato Cefa’ (che si traduce ‘Pietro’)” (Giovanni 1:35-42).

Vi è un dettaglio che merita di essere rimarcato: solo uno dei due discepoli viene nominato (è Andrea), mentre l’altro resta rigorosamente senza volto e senza nome. È una casella vuota che ciascuno può riempire. Il discepolo anonimo ha il volto mio, tuo, suo…  E allora affiancandoci a lui, possiamo ripercorrere il cammino del discepolo dietro Gesù, secondo i tre verbi tematici: cercare, dimorare, testimoniare.

“Che cercate?” 
Viviamo in tempi di pensiero debole; per la nostra cultura occidentale il valore supremo non è la verità, ma la sincerità, l’autenticità. Tuttavia, il puro desiderio di autenticità non basta, può portare a esiti individualistici e, in casi estremi, anche violenti. Né si può essere sempre “in ricerca”. Finché si è alla ricerca della verità, il protagonista è il ricercatore. È un tentativo sottile di tenere in scacco Dio. Di questo passo, infatti, gli uomini e le donne possono passare la vita intera a fare ricerche su Dio, senza mai adorare Dio.

“Rabbì, dove abiti?” 
Una tale intimità di rapporto tra maestro e discepolo si ha solo nel cristianesimo. Gesù non è un maestro che resta esterno al discepolo, non è riducibile a un modello perfetto che il povero discepolo si deve sforzare di imitare a tutti i costi. Gesù Cristo “vive in me” e “per me vivere è Cristo”.

Quando trovò suo fratello Simone, Andrea gli disse: “Abbiamo trovato il Messia”. Succede sempre così. Se hai veramente incontrato il Signore, se hai risposto sinceramente “sì” alla sua chiamata, quando riprendi il fiato non sei più quello di prima.

Io, tu, lei, lui… ognuno con la sua faccia e la sua storia, identificati per nome e riconosciuti uno a uno, e chiamati a raccontare, con una vita cambiata, che noi lo abbiamo incontrato.

 

 

 

Sottomettersi o non sottomettersi, questo è il problema

Sottomettersi o non sottomettersi, questo è il problema

Edyta e Darius Jankiewicz – Vi è un passo della Scrittura che ha creato tante controversie nelle comunità cristiane: “Mogli, sottomettetevi ai vostri mariti, come al Signore” (Efesini 5:22). 
Negli oltre 30 anni del nostro ministero, abbiamo incontrato vari membri di chiesa che hanno faticato a interpretare questo testo. Uno era un membro di chiesa fisicamente offensivo nei confronti di sua moglie. Quando venne scoperto, utilizzò questo versetto biblico per giustificare i suoi abusi. In un'altra occasione, un giovane uomo in procinto di sposarsi venne a casa nostra e ci domandò come fosse strutturata l’autorità nella nostra famiglia. “Chi ha l’ultima parola?”, chiese. Gli spiegammo che il nostro matrimonio non funzionava secondo il principio dell’autorità dell’uno sull’altro, ma lui insistette sul fatto che l'ultima parola spettasse al marito. Più tardi, negli anni in cui insegnavamo in Seminario, a volte sentivamo questa opinione circolare tra i nostri studenti, i quali insistevano sul fatto che il matrimonio fosse impraticabile a meno che qualcuno non fosse responsabile della decisione finale (l’ultima parola, ndt).

Questa visione si rifletteva anche in un gruppo interconfessionale di cristiani conservatori con cui avevamo stretto amicizia mentre svolgevamo il nostro ministero nell’area del Pacifico. La loro incapacità di seguire questo insegnamento causava a volte un’autentica angoscia a questi sinceri cristiani. Tornavamo dagli incontri grati per la visione avventista del mondo; grati che la leader e co-fondatrice della nostra denominazione fosse una donna, qualcosa di impensabile per i nostri amici. Non sapevamo che, in un futuro non troppo lontano, la Chiesa avventista sarebbe stata coinvolta nella discussione sul ruolo delle donne nel matrimonio e nella vita della chiesa.

Quindi, cosa significa per una moglie sottomettersi al marito? E quale dovrebbe essere la portata di tale sottomissione? Poiché ognuno di noi interpreta questo versetto attraverso la lente della propria cultura, educazione e istruzione, ci sfugge a volte ciò che l’apostolo Paolo stava effettivamente cercando di dire.

Per chiarire il significato di questo passo, dobbiamo considerare il suo contesto. Quindi dobbiamo cominciare dall’inizio del capito di Efesini dove Paolo afferma quanto segue: “Siate dunque imitatori di Dio, come figli amati; e camminate nell'amore come anche Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio quale profumo di odore soave” (Ef 5:1, 2).

Paolo inizia chiamandoci a imitare Dio e Cristo. Questa non è un'idea nuova. Già nell'Antico Testamento gli Ebrei venivano continuamente chiamati a imitare Dio. Ad esempio, in Levitico 19:2 leggiamo queste parole: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo”. Ma in Efesini 5:1, 2 troviamo un motivo nuovo per cui i cristiani devono imitare Dio: il suo amore per l’umanità. Ci sono tre parole greche che sono tradotte con "amore": eros, fileo e agàpe. In questo brano, l'agàpe di Dio, la più alta forma di amore, deve essere la nostra motivazione per imitarlo. Ma c'è di più.

In Efesini 5:2, Paolo ci ricorda che l'amore agàpe di Dio è caratterizzato dal dono e dal sacrificio di sé. È stato l'amore agàpe che ha fatto sì che Cristo “rinunciasse a se stesso” (in greco: paredoken heauton) per noi. Ogni volta che queste due parole greche sono usate per descrivere ciò che Cristo ha fatto per l'umanità, è un'indicazione che l’autore sta descrivendo la più alta forma di sacrificio che Dio avrebbe potuto attuare, la sua morte sulla croce. Un concetto simile è espresso in Filippesi 2:8, dove Gesù "umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce". È questo tipo di amore, umile e sottomesso, che siamo chiamati a imitare nelle nostre relazioni. E sono questi versetti (Efesini 5:1, 2) che forniscono il contesto più ampio per il resto del capitolo.

Inoltre, Efesini 5:22 fa parte di una discussione più ampia sul matrimonio, che inizia nel versetto precedente: "sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo" (v. 21). Come sappiamo che questa discussione inizia nel versetto 21? Nell'originale greco, i manoscritti più antichi e affidabili omettono la parola "sottomettere" nel versetto 22, e il versetto dice semplicemente: "Mogli, ai vostri mariti". Pertanto, il verbo sottomettere nel versetto 22 è preso in prestito dal versetto 21. Questa è un'indicazione che il contesto per la discussione sulla relazione coniugale (cfr. vv. 22-33) è la sottomissione reciproca, come delineato nel versetto 21.

È importante sottolineare che questa mutua sottomissione trova il suo fondamento nel “timore di Cristo” (v 21). Questa frase indica che si tratta di una “sottomissione” che non si può pretendere, così come Dio Padre non ha preteso la sottomissione di Dio Figlio. Piuttosto, ci sottomettiamo ai nostri coniugi, reciprocamente e volontariamente, perché questo riflette la sottomissione reciproca e volontaria che esiste nella Deità, e in particolare la sottomissione di Cristo nel portare volontariamente i nostri peccati sulla croce.

Il principio della sottomissione reciproca, fondato sull’amore agàpe e riflesso nella Deità, fornisce un esempio per tutte le relazioni cristiane. Questo è il motivo per cui gli scrittori del Nuovo Testamento si definivano “servo” (diakonos) e “schiavo” (doulos). In ciò seguivano le orme di Gesù che usava queste due parole anche per descrivere se stesso e la sua missione (cfr. Marco 10:43-45). Di conseguenza, Paolo esortò i primi cristiani a seguire l'esempio di Gesù: “Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio… svuotò se stesso, prendendo forma di servo (doulos), divenendo simile agli uomini” (Filippesi 2:5-7). Allo stesso modo, in Galati 5:13, Paolo implorava: “per mezzo dell’amore servite (doulos) gli uni agli altri”.

Stabilito che tutti i rapporti cristiani devono fondarsi sulla sottomissione reciproca (cfr. Ef. 5:21), Paolo prosegue esplorando il modo in cui questo principio si applica ai rapporti tra marito e moglie: “Mogli, [sottomettetevi][1] ai vostri mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, lui, che è il Salvatore del corpo. Ora come la chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti in ogni cosa” (vv. 22-24).

In questo testo complesso e teologicamente ricco, la maggior parte delle persone tende a concentrarsi principalmente sulle parole "mogli [sottomettetevi] ai vostri mariti". Alcuni lettori filtrano queste parole attraverso la lente della cultura contemporanea e quindi considerano l'ingiunzione di Paolo troppo restrittiva e perciò irrilevante. Altri le danno toni non biblici di “autorità su”[2] e si aspettano che le mogli cristiane si pongano sotto l'autorità dei loro mariti. Tuttavia, un’attenta lettura di questi versetti rivela che il messaggio di Paolo era incredibilmente controculturale.

La prima cosa da notare è che quando Paolo scrisse della sottomissione delle mogli, non disse nulla che sorprendesse i suoi lettori, poiché questo era un aspetto profondamente radicato nelle antiche convenzioni sociali e familiari greco-romane ed ebraiche. Tuttavia, l'insistenza di Paolo sul fatto che le mogli dovessero sottomettersi ai loro mariti “come al Signore” (v. 22) introdusse un concetto radicalmente nuovo, poiché implicava una sottomissione volontaria.

Inoltre, Paolo indirizzò questi versetti alle mogli piuttosto che ai mariti, il che era rivoluzionario e controculturale nel primo secolo dopo Cristo. Un modo culturalmente più appropriato di comunicare sarebbe stato quello di rivolgersi ai mariti, che avrebbero poi trasmesso il messaggio alle loro mogli. Il fatto che Paolo si rivolgesse direttamente alle mogli era un’ulteriore indicazione che la sottomissione non poteva essere richiesta, ma piuttosto doveva essere volontaria. Così, in netto contrasto con la pratica degli antichi uomini greco-romani, i mariti cristiani non dovevano rivendicare l'autorità sulle loro mogli, poiché la prima fedeltà di una moglie cristiana era a Cristo.

È nel versetto 25, tuttavia, che Paolo capovolge ogni convenzione greco-romana: “Mariti, amate (agàpe) le vostre mogli, come Cristo ha amato (agàpe) la chiesa e ha dato se stesso per lei”. Nelle parole “ha dato se stesso” per lei riecheggiano i versetti 1 e 2 dello stesso capitolo, dove Paolo aveva esortato tutti i cristiani ad amare come Cristo ha amato e “ha dato se stesso”. In altre parole, i mariti sono esortati ad amare le loro mogli nello stesso modo in cui Cristo ama, in modo sacrificale. Non c'è nessun insegnamento qui per i mariti di governare sulle loro mogli; anzi, sono esortati ad amarle (agàpe), come Cristo ha amato (agàpe) la chiesa. Invocando la sottomissione di Cristo, che era "per natura Dio" (cfr. Filippesi 2:6) e tuttavia assumeva il ruolo di servo, Paolo capovolse la concezione tradizionale della sottomissione coniugale e offrì invece un modello di radicalità cristocentrica e sottomissione reciproca. Di conseguenza, quando Cristo è l'esempio sia per il marito sia per la moglie, il matrimonio cristiano può essere una testimonianza dell’amore di Cristo e del Suo sacrificio per la sua sposa.

Allora, cosa significa "sottomissione reciproca" nel nostro matrimonio? Significa che ci sottomettiamo l'un l'altro nel nostro dono, a volte segue quelli che sono considerati ruoli tradizionali di genere, ma altre volte non lo è (cfr. Romani 2:6-8; 1 Corinzi 7:7). Significa che, di fronte a decisioni su cui non siamo d'accordo, non c'è mai una "parola finale" da parte di nessuno di noi due. Piuttosto, ci prendiamo del tempo per discutere insieme finché non raggiungiamo il consenso, o almeno un compromesso con cui possiamo convivere (cfr. Colossesi 3:12). Significa che, nel perseguire le nostre speranze e i nostri sogni individuali, consideriamo non solo i nostri interessi, ma anche gli interessi dell'altro (cfr. Filippesi 2:4). Non sempre lo viviamo perfettamente; tuttavia, continuiamo a fissare lo sguardo su Gesù, nostro modello per amare bene.

Edyta e Darius Jankiewicz prestano servizio presso la Regione Pacifico del sud della Chiesa avventista, lei in qualità di associata ai Ministeri Femminili, lui come segretario dell’Associazione pastorale e coordinatore dei Ministeri dello Spirito di profezia.

Note 
[1] Come sottolineato in precedenza, nell’originale greco la parola “sottomettere” non ricorre nel versetto 22 poiché è stata presa in prestito dal versetto 21, collegando così i due testi.

[2] Marco 10:43-45 mostra il rifiuto esplicito di Gesù del concetto di "autorità" sugli altri credenti.

[Fonte: Adventist Record

 

 

L’Immacolata concezione

L’Immacolata concezione

Michele Abiusi – Nella Bibbia, la figura di Maria è sicuramente tra le più belle e le più privilegiate. Di lei avevano scritto i profeti: “Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele” (Isaia 7:14).

Nella Bibbia 
Cosa sappiamo di Maria? Abitava a Nazaret, era vergine, era promessa sposa a Giuseppe, era discendente di Davide. Il Vangelo di Matteo racconta: “La nascita di Gesù Cisto avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo marito, che era uomo giusto e non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente. Ma mentre aveva queste cose nell’animo, un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: ‘Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua moglie; perché ciò che in lei è generato, viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati’. Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: ‘La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele’, che tradotto vuol dire: ‘Dio con noi’. Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l'angelo del Signore gli aveva comandato e prese con sé sua moglie; e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio; e gli pose nome Gesù” (Mt 1:18-25).

Educata nell’ambiente palestinese del primo secolo, Maria conosceva la Scrittura e osservava le leggi. Timorosa di Dio e persona di grande fedeltà, è stata la prescelta per il compito più grande che mai sia capitato a una donna: portare in grembo l’Emmanuele! E difatti, quando l’angelo le si presenta per darle l’annuncio, accetta la volontà di Dio (cfr. Luca 1:38). Poi, loda Iddio nel cantico, conosciuto anche come Magnificat, riportato in Luca 1:47-55.

Non aveva sempre avuto chiara la missione di Gesù. Infatti, quando il ragazzo aveva 12 anni lo rimproverò perché si era allontanato dal gruppo e l’avevano cercato per tre giorni. Una volta aveva pensato che fosse “fuori di sé” (Marco 3:21-22). Ma Gesù l’ha onorata all’inizio del suo ministero pubblico, alle nozze di Cana (cfr. Giovanni 2:1-8)

“Sebbene Maria non avesse una concezione esatta della missione del Cristo, aveva però in lui una piena fiducia. Gesù rispose a quella fede. Compì il suo primo miracolo per onorare la fiducia di Maria…” – Ellen G. White, La Speranza dell’uomo, p. 95.

Infine, la troviamo presente al Calvario (cfr. Giovanni 19:26-27). 
Questa è Maria così come è presentata nella Sacra Scrittura.

Nella tradizione 
Nella tradizione, creata in seguito, questa donna ha conosciuto un’ascesa incredibile e, se fosse in vita, sicuramente direbbe a chi le ha attribuito certe definizioni che si è sbagliato. Cito solo i punti salienti: Madonna (cioè mia Signora), dispensatrice di grazia, sempre vergine, Madre di Dio, Assunta in cielo, Immacolata concezione, co-redentrice.

Come cristiani avventisti del settimo giorno, pur riconoscendo Maria come la madre di Gesù e una donna che ci ha lasciato un esempio da seguire, confutiamo le precedenti affermazioni per motivi “scritturali”. 
La Bibbia dice che vi è: 
– un solo Dio al quale rendere il culto. “Allora Gesù gli disse: ‘Vattene, Satana, poiché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto’” (Matteo 4:10); 
un solo Salvatore. “In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati” (Atti 4:12); 
un solo Mediatore. “Infatti c'è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1 Timoteo 2:5). 
Inoltre, non è vergine perpetua. “e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio; e gli pose nome Gesù” (Matteo 1:25).

Altre implicazioni non bibliche 
La festa dell’Immacolata concezione, che il mondo cristiano cattolico celebra, è quella che pone poi le basi per tutta una serie di implicazioni non bibliche. Ad esempio, il privilegio di Maria in virtù del quale fu esente dal peccato originale e piena di grazia sin dal primo istante della sua esistenza. Questo privilegio fu dichiarato dogma di fede da papa Pio IX l’8 dicembre 1854 mediante la bolla Ineffabilis Deus.

L’epistola ai Romani, capitolo 5, definisce con estrema chiarezza Cristo come secondo Adamo; difatti il primo Adamo è il capostipite dell’umanità decaduta; il secondo Adamo è il capostipite dell’umanità rigenerata. Cristo è nella condizione di Adamo, senza peccato che lo obbliga a peccare, ed è l’unico secondo Adamo che ha restituito all’umanità decaduta la forza uguale e contraria che ci pone nella condizione di schierarci dalla parte di Dio mediante la nostra scelta personale.

Va da sé che poi un dogma ne porta un altro… 
Se Maria era senza peccato, il suo corpo non poteva essere trattenuto nel sepolcro a decomporsi, ma dopo tre giorni dalla sua morte fu assunta in cielo. Quindi Maria venne incoronata regina dei cieli e sedette alla destra di Cristo. Tutto questo racconto non è biblico.

Il cattolicesimo romano, nel Concilio Vaticano II, ha definito con chiarezza la sua posizione sulla mariologia attraverso l’enciclica Lumen Gentium e questo pone uno degli ostacoli più forti al cammino “ecumenico” in atto. Le chiese evangeliche insistono sull’unicità di Cristo. E succede che, per contrapposizione al cattolicesimo, gli evangelici parlino poco di Maria.

Vorrei dire a tutti che dobbiamo prendere esempio da Maria, la migliore donna del suo tempo! 
Tutto il resto sono affermazioni che non trovano traccia nella Sacra Scrittura.

Il Signore illumini tutte le persone ad andare a Cristo.

“Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra” (Filippesi 2:9-10). 

 

 

 

Io sono la luce del mondo

Io sono la luce del mondo

Michele Abiusi – Ogni giorno, Dio offre all’umanità uno spettacolo grandioso e meraviglioso per darci il coraggio di affrontare le difficoltà che stanno per cominciare: il nascere del sole e con esso la luce. La luce simboleggia la vita. La luce è un simbolo divino che riassume in sé due aspetti fondamentali di Dio: la sua trascendenza, la luce è esterna a noi e ci supera; e la sua presenza nella storia umana e nella creazione, proprio come la luce che ci avvolge, ci riscalda, ci pervade e ci rivela.

Nella Scrittura 
Nella Bibbia, la luce è una delle realtà più cariche di simbolismo e che meglio si presta a descrivere e rappresentare Dio stesso. Nell’Esodo, Dio è presente attraverso la luce: è colonna di fuoco, si manifesta nel fulmine e nel lampo, fa brillare il suo volto e dà salvezza. Nei libri profetici, il popolo d’Israele è chiamato “luce”, perciò deve camminare nella luce e diffonderla presso gli altri popoli che sono tenebra, oscurità e destinati al tramonto: “Voglio fare di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra. Così parla il Signore, il Redentore, il Santo d’Israele” (Isaia 49:6-7).

Nei libri profetici, le realtà fondamentali della fede biblica sono identificate con la luce: la parola del Signore e la sua legge sono cantate come la luce che illumina i passi del credente. “La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero” (Salmo 119:105).

Il racconto della creazione si apre con: “Sia luce! E luce fu. Dio vide che la luce era buona, e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce ‘giorno’ e le tenebre ‘notte’. Fu sera, poi mattina: primo giorno” (Genesi 1:3-5). Solo in seguito, vi è la creazione del sole e degli altri corpi celesti che, a differenza di quanto credevano le religioni da cui Israele era circondato, non sono divinità, ma solo semplici creature di un Dio che le trascende infinitamente. “Non più il sole sarà la tua luce, nel giorno; e non più la luna ti illuminerà con il suo chiarore; ma il Signore sarà la tua luce perenne, il tuo Dio sarà la tua gloria. Il tuo sole non tramonterà più, la tua luna non si oscurerà più; poiché il Signore sarà la tua luce perenne…” (Isaia 60:19-20).

E la Bibbia si chiude, nella descrizione dell’Apocalisse, con la nuova creazione che avrà Dio stesso come luce, come sole che non conoscerà tramonto: “Non ci sarà più notte; non avranno bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio l’illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Apocalisse22:5).

I giorni descritti in Isaia 60 hanno avuto inizio con la venuta di Gesù e avranno il loro culmine nella nuova Gerusalemme (cfr. Apocalisse 21:2).

Calore e faro 
Il fuoco e una fiamma emanano luce ma anche calore. Nel deserto, di notte, faceva freddo, quindi la colonna di fuoco che accompagnava il popolo quando è uscito dall’Egitto durante l’esodo serviva per riscaldarlo. Nella Bibbia l’idea di calore è spesso associata al conforto di Dio. La sua consolazione viene data agli oppressi, agli emarginati, a coloro che sono in cordoglio.

Ora, immaginate per un attimo di camminare in casa ed all’improvviso va via la luce e restate al buio in una stanza, aspettando qualche secondo per vedere se ritorna. Infine, vedete uno spicchio di porta aperta da cui entra un filo sottile di luce; è una salvezza nel buio per evitare di urtare da qualche parte. L’essere umano è descritto nella Bibbia come smarrito e incapace di trovare la via che porta a Dio. Satana ha accecato gli occhi e le menti delle persone. Il messaggio del vangelo, pronunciato da Cristo, è un faro che apre il cuore degli uomini e li guida sulla via della salvezza. L’ignoranza religiosa è un danno tremendo, ma scoprire chi è Dio, produce vita eterna.

Gesù la luce del mondo 
Come viene descritta la nascita di Gesù? “Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento” (Luca 2:9 Cei). Oppure quando il vecchio Simeone prese in braccio Gesù e benedisse Dio dicendo: “i miei occhi hanno visto la tua salvezza, che hai preparata dinanzi a tutti i popoli per essere luce da illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2:30-32).

Ma, al tempo stabilito, come profetizzato da Isaia, “il popolo che camminava nelle tenebre, vede una gran luce” (Isaia 9:1); il Logos, la Parola eterna e infinita, entra nelle dimensioni umane dello spazio e del tempo, della vita e della morte. Egli si manifesta in mezzo al suo popolo che, in gran parte, non volle riconoscerlo, però non tutti chiusero gli occhi alla luce, molti lo ricevettero con gioia, credettero in lui, divenendo così, senza distinzione alcuna di lingua, razza, colore della pelle, figli di Dio.

Questa luce veniva nel mondo, sebbene già ci fossero il sole e la luna che lo illuminavano con tutti i suoi esseri viventi! Allora questa “luce” non è quella esterna, quella che noi vediamo con i nostri occhi! No. Il Nuovo Testamento si colora di questa presenza, in particolare il quarto Vangelo presenta Gesù come “la luce del mondo” (Giovanni 8:12), in un intreccio letterario e teologico assai suggestivo, dove realtà e simbolo si confondono.

Per il credente la luce vera, la grande luce è dunque Cristo venuto nel mondo per portare la luce. “Io sono la luce del mondo”, proclamò Gesù nel tempio di Gerusalemme; parole che ripeté più volte, dandone segni concreti come quando ridiede la vista a un cieco, o quando, insegnò: “chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Giovanni 8:12).

La vita di Gesù, fatta di opere e di insegnamento, è come il riverbero della sua luce. Gesù è la luce del mondo in quanto è la speranza degli uomini; il loro conforto e la loro pace. Egli non cesserà mai di brillare, il suo amore e la sua cura non si spegneranno mai.

E noi… 
La luce di Cristo richiede una decisione: continuare a vivere come prima o scegliere di seguire i comandamenti del Signore, abbandonando così i propri peccati. La luce è alla portata di ognuno. Chi non ne approfitta, chi non usa la luce, sceglie di essere condannato alle tenebre, sbaglia la porta, si priva della benedizione qui in terra e della felicità.  La luce portata da Cristo deve essere diffusa. I cristiani non brillano di luce propria, ma di luce riflessa, per questo sono definiti: “figli di luce” (Efesini 5:8). Gesù esorta i suoi discepoli e noi a farsi lampade che risplendono: “Voi siete la luce del mondo…” (Matteo 5:14). L’apostolo Paolo afferma: “il frutto della luce consiste in tutto ciò che è bontà, giustizia e verità” (Efesini 5:9).
Vivere nella luce di Cristo significa ardere e risplendere per gli altri.

Dimenticare il passato e protendersi verso il futuro

Dimenticare il passato e protendersi verso il futuro

Michele Abiusi – “Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la meta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Filippesi 3:13-14).

Il credente non smette mai di correre. Pur essendo già stato afferrato da Cristo (v. 12) non è ancora giunto alla mèta, non ha ancora afferrato il “premio” atteso a fine corsa, il “premio della vita alla quale Dio ci chiama per mezzo di Gesù Cristo” (v. 14 Tilc). Dunque, continua a correre senza voltarsi indietro (“dimenticando le cose che stanno dietro”) e guardando fisso verso la meta (“protendendomi verso quelle che stanno davanti”»).

Ci sono in questi versi tre concetti sui quali vorrei che ci soffermassimo.

Dimentico 
Le cose che mi stanno dietro; il passato! Seppellire tutto ciò che ci ha fatto soffrire… 
Nel libro Il gran conflitto, la scrittrice cristiana Ellen G. White vede in questo testo il processo di santificazione. “L'opera della santificazione è progressiva” scrive e cita il testo di Filippesi 3:13-14, poi aggiunge “Coloro che sperimentano la santificazione secondo la Parola di Dio manifesteranno uno spirito di umiltà” – p. 274, edizione 2020.
Dimenticare il passato è associato al concetto di umiltà!

Corro 
La metafora sportiva della corsa compare anche in altre lettere dell’apostolo Paolo, per esempio quando dice: “Non sapete che coloro i quali corrono nello stadio, corrono tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte in modo da riportarlo” (1 Corinzi 9:24).

Nel testo di Filippesi, però, anziché usare il verbo greco trécho (correre) Paolo utilizza (vv. 12 e 14) il verbo diòko, che significa letteralmente “perseguire”, “inseguire”, “cercare”. Per questo il teologo protestante Karl Barth afferma che il credente resta per tutta la vita un ricercatore (e una ricercatrice). Ma non cerca a casaccio.

Il credente è qualcuno “che corre, ma non alla ventura, che ‘fa del pugilato’ ma senza colpire nel vuoto” (1 Corinzi 9:26). Lo Spirito Santo fa del credente un essere umano che cerca “non nel vago e seguendo la fortuna del caso, ma che sa molto bene ciò che cerca e dove cercarlo – qualcuno che cerca, sì, ma le cui mani restano vuote, perché non ha ancora afferrato ma si sforza di afferrare il Cristo, colui che si è appropriato di tutto il suo essere. E lo Spirito Santo non permette all’uomo di ‘cercare’ in modo casuale e disperdendo le sue forze da ogni parte; di mettersi in cerca della sola cosa necessaria – la sua vita in Cristo – e al tempo stesso di qualunque altra possibilità di vita. L’istruzione che dà lo Spirito Santo consiste nel portare l’uomo tutto intero a concentrarsi su questa unica cosa necessaria” – K. Barth, Dogmatique, vol. 20, p. 401.

Mi protendo in avanti 
Il miglior uso che tu possa fare della tua vita è “investirla” per qualcosa che veramente dura. Essere credente è la cosa più bella che mi poteva capitare nella vita. La bellissima immagine del corridore dei versetti 13 e 14 esprime questa corsa appassionata verso la meta. 
Questa meta, nel linguaggio della competizione sportiva che qui Paolo adotta, è la “corona” del vincitore. Mi affascina pensare che la nostra “vittoria” stia nel correre sino alla fine verso quella vittoria che Gesù ha riportato in noi.

 

 

 

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